L’Irlanda del Nord compie 100 anni ma non ha niente da celebrare

Avvenire, 20 ottobre 2021

Ci ha pensato il presidente della Repubblica d’Irlanda, Michael D. Higgins, a suggellare il fallimento delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’Irlanda del Nord in programma quest’anno. Respingendo al mittente l’invito alla cerimonia interconfessionale che si terrà il 21 ottobre prossimo ad Armagh, nella cattedrale anglicana di Saint Patrick, il presidente irlandese ha preso una posizione coraggiosa e controversa – come dimostra il coro di critiche innescate – ma ha anche scoperto definitivamente il vaso di Pandora sulle contraddizioni di un centenario costellato dalle polemiche, svolto finora in sordina non soltanto a causa della pandemia. La storica ricorrenza ha evidenziato il profondo solco che ancora oggi divide le due principali comunità irlandesi: quella cattolico-nazionalista e quella unionista-protestante, facendo riemergere i fantasmi di uno stato che fu creato artificialmente dagli inglesi nel 1921. Continua a leggere “L’Irlanda del Nord compie 100 anni ma non ha niente da celebrare”

Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale

(Raffaele Salinari, da Il Manifesto del 7 luglio 2021)

Ci ha lasciato Angelo Del Boca, la coscienza critica del colonialismo degli «italiani brava gente». Nato a Novara il 23 maggio del 1925; il padre aveva combattuto come fante nella prima battaglia dell’Isonzo durante la Grande Guerra e dunque già da piccolissimo si era dovuto confrontare con gli interrogativi che immancabilmente attraversano quanti hanno vissuto, più o meno direttamente, un’esperienza così traumatica. Nei libri autobiografici, in particolare in quelli che ricordano la sua esperienza partigiana, il ruolo testimoniale del padre e le ombre gettate sul suo mondo giovanile dalla Grande Guerra, diventano centrali nella formazione di una sensibilità verso i processi storici in generale e quelli coloniali in particolare. Continua a leggere “Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale”

Irlanda, la maglia del Linfield inneggia alla violenza

Avvenire, 14 giugno 2020

“Quella sarà la nostra nuova maglia da trasferta, non abbiamo niente da rimproverarci e non intendiamo modificarla”. Roy McGivern, presidente e padre padrone del Linfield FC, replica così, in modo lapidario, alle critiche rivolte in questi giorni alla società di Belfast, una delle più antiche e titolate squadre di calcio dell’Irlanda del Nord. I colori scelti dal club per la seconda maglia da gioco della stagione 2020/2021 (arancione e porpora con una banda trasversale) sono esattamente gli stessi del più famigerato gruppo paramilitare protestante, l’Ulster Volunteer Force. Continua a leggere “Irlanda, la maglia del Linfield inneggia alla violenza”

Il negazionismo alla fiera del libro di Belgrado

Non fossero bastate le polemiche dopo il premio Nobel assegnato a Peter Handke – criticato per le sue conclamate simpatie nei confronti del regime di Milosevic – il revisionismo storico sulle guerre balcaniche ha trovato ampio spazio anche all’ultima fiera del libro di Belgrado, conclusasi qualche giorno fa. Giunto alla 64esima edizione, il prestigioso appuntamento culturale della capitale serba ha ospitato anche quest’anno lo stand del governo della Republika Srpska, una delle due entità politiche della Bosnia-Erzegovina, nel quale è stato esposto orgogliosamente un libro dal titolo Srebrenica-stvarnosti i manipulacije (“Srebrenica. Realtà e manipolazioni”). Trattasi di un ponderoso volume di oltre ottocento pagine che raccoglie gli scritti di una cinquantina di autori – storici, studiosi, giornalisti ma anche politici e militari – con l’obiettivo dichiarato di “smontare il mito del genocidio e dei crimini serbi a Srebrenica”. Una vera e propria offensiva negazionista finanziata con soldi pubblici e stampata sia in serbo che in inglese. Per presentarla al pubblico della fiera sono intervenuti il curatore del libro, il colonnello Milovan Milutinovic, capo del servizio informazioni dello Stato Maggiore dell’esercito della Republika Srpska, e la ministra dell’istruzione e della cultura dell’entità serbo-bosniaca, Natalija Trivić. Il folto gruppo di autori del volume è allineato in un coro unanime di condanna nei confronti del Tribunale Internazionale per i crimini dell’ex-Jugoslavia. I più accaniti appaiono proprio gli ex militari, alcuni dei quali arrivano a negare che a Sarajevo e a Srebrenica siano stati commessi crimini di guerra, ipotizzando l’esistenza di un complotto internazionale contro il popolo serbo.
La Republika Srpska non è certo nuova a iniziative simili, dal chiaro intento revisionista. Nei mesi scorsi ha nominato due commissioni internazionali per provare a riscrivere la storia delle guerre degli anni ‘90, poi ha finanziato un convegno all’università di Banja Luka per contestare le sentenze del tribunale dell’Aja. D’altra parte sono le stesse posizioni che ribadisce da sempre anche Milorad Dodik, l’ex presidente della Republika Srpska e attuale membro della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina. Quello che stupisce è semmai l’atteggiamento del governo di Belgrado, che almeno in anni recenti era apparso assai più cauto su questi temi. In un altro padiglione della fiera del libro della capitale serba – quello del Ministero della Difesa – è stato presentato con tutti gli onori il libro di memorie del generale Nebojsa Pavkovic, già comandante della Terza Armata dell’esercito serbo durante la guerra del Kosovo, attualmente in carcere con una condanna a 22 anni per crimini contro l’umanità. Lo stesso stand ha poi ospitato un dibattito cui ha preso parte Vinko Pandurevic, uno degli alti ufficiali serbi condannati per il genocidio di Srebrenica, rilasciato nel 2015 dopo aver scontato tredici anni di carcere. Alcuni giorni dopo è stato presentato infine un libro che nega le responsabilità serbe in uno dei più feroci e insensati massacri degli ultimi giorni della guerra: la strage di Tuzla del 25 maggio 1995, nella quale persero la vita 71 persone. La verità giudiziaria da contraddire, stavolta, non era quella dell’Aja ma quella dei giudici di una Corte territoriale bosniaca. La sensazione è che, nonostante il trascorrere del tempo, creare una memoria condivisa sui conflitti etnici che hanno insanguinato i Balcani negli anni ‘90 sia sempre più un’utopia.
RM

Il socialismo ungherese è un affare per piccioni

Venerdì di Repubblica, 5.10.2018

Nulla al mondo è più invisibile dei monumenti, diceva Robert Musil. Ma gli ungheresi sembrano pensarla diversamente. Fino a qualche anno fa le strade e le piazze di Budapest erano ancora solcate da decine di gigantesche statue risalenti all’era sovietica. Ingombranti riproduzioni di Stalin, di Lenin, di Marx e un numero imprecisato di monumenti celebrativi, come il soldato russo alto sei metri che incombeva sulla città dalla collina di Géllert, di fronte al Danubio. Il problema si pose subito dopo il ritiro definitivo delle truppe sovietiche, nel giugno del 1991. Cosa fare dei simboli di un mondo che ormai apparteneva al passato? Distruggerli sarebbe stato come non voler fare i conti con una memoria storica da elaborare e tramandare alle nuove generazioni. La municipalità di Budapest stabilì dopo accesi dibattiti che oltre quarant’anni di dittatura non potevano essere semplicemente abbattuti a colpi di ruspa e bandì un concorso pubblico per la creazione di un parco-museo sui generis. Non un pantheon ma piuttosto un cimitero delle statue dell’era sovietica. Fu selezionato il progetto di un giovane architetto emergente e nel 1993 venne inaugurato il Memento park, che proprio quest’anno celebra i suoi primi venticinque anni di attività. Si trova all’estrema periferia di Budapest e la sua collocazione rappresenta già una metafora del rapporto ambivalente che gli ungheresi hanno nei confronti del comunismo. Allontanare ma non rimuovere. Ricordare ma non rimpiangere una dittatura che causò milioni di morti. Poco più di mezz’ora di viaggio dal centro cittadino e il bus si ferma davanti a un podio sormontato dagli stivali di Stalin. È la replica di quello che un tempo si trovava in piazza degli Eroi, il luogo delle grandi parate del Primo maggio. La statua del dittatore, alta otto metri, fu abbattuta dalla popolazione durante la rivolta del 1956. Soltanto gli stivali rimasero al loro posto. Il resto del corpo fu fatto a pezzi e portato via come souvenir. Molti ungheresi conservano ancora in casa un frammento di quella statua.

La statua di Stalin al centro della piazza degli Eroi fino al 1956

L’entrata del parco è un muro perimetrale con gli elementi caratteristici tipici dell’architettura socialista. Su uno dei portoni in ferro battuto sono stati incisi i versi della poesia “Una frase sulla tirannia” composta dallo scrittore ungherese Gyula Illyés nel periodo più buio dello stalinismo. Ai lati, due nicchie centinate ospitano a sinistra una grande statua di Lenin, a destra Marx e Engels in stile cubista. Un tempo, i monumenti ai due filosofi si trovavano davanti alla sede centrale del partito comunista. Il grande parco è privo di alberi, circondato dal silenzio che avvolge le 42 statue, grandiose, inquietanti, alcune dall’indubbio valore artistico. Molte furono realizzate dallo scultore ungherese Zsigmond Kisfaludi Strobl, che il partito dichiarò “artista del popolo”. Ritraggono Lenin, Marx ma anche celebrità locali come Bela Kun, il leader della breve repubblica comunista del 1919, e Ilya Ostapenko, il soldato sovietico che cadde nel 1944 durante l’assedio di Budapest. La sua statua è rimasta per anni all’imbocco dell’autostrada che scende a sud verso il lago Balaton, segnando la geografia urbana della capitale. “Era un luogo di incontro abituale, da dove partivano le gite degli studenti ed è forse l’unico monumento di cui gli ungheresi non più giovani sentono in qualche modo la mancanza”, spiega Ákos Réthly, direttore del parco. Assai meno rimpianta è invece la statua del soldato sovietico “liberatore” che fu realizzata per commemorare la fine dell’occupazione nazista, il 4 aprile 1945. Mostra il soldato semplice dell’Armata Rossa Vasili Ivanovich Golovcov con un mitra PPSh-41 a tracolla e una bandiera con la falce e il martello in mano. Fino al 1991 faceva parte del grandioso monumento alla liberazione che sormonta ancora la collina più alta di Budapest. Nel vicino memoriale all’amicizia ungherese-sovietica l’eloquenza della pietra appare inequivocabile. Il lavoratore ungherese mostra gratitudine stringendo la mano del soldato sovietico con entrambe le sue, mentre il militare risponde freddamente con una mano sola. Ma la statua più imponente è quella dedicata alla repubblica dei Soviet del 1919. Ispirata al famoso poster di propaganda di Róbert Berény che incoraggiava al reclutamento (“Alle armi! Alle armi!”), un tempo si trovava nel parco Városliget, in pieno centro, dov’è stata a lungo dileggiata dagli abitanti di Budapest. “Osservandola dalla giusta prospettiva si poteva vedere un gigante in corsa in mezzo agli alberi”, ricorda Réthly. “Fu ribattezzato il ‘guardarobiere’ perché sembrava che rincorresse un cliente per restituirgli la sciarpa”.
Ma fin dalla sua apertura il Memento park si è trovato su un crinale scivoloso, poiché per molti ungheresi queste statue restano il simbolo di un passato fatto di paura e repressione. “In realtà questo non è un monumento al comunismo, bensì al crollo del comunismo – sostiene Réthly – ai visitatori non abbiamo mai imposto alcuna lettura specifica del nostro passato”. Il parco è di proprietà del governo ma è gestito da un’associazione che non percepisce alcun finanziamento pubblico e in un quarto di secolo non ha mai attirato eventi o raduni politici. In compenso vengono organizzate visite guidate in più lingue, programmi pedagogici per le scuole e ogni anno arrivano circa quarantamila visitatori, con la stessa proporzione di stranieri e locali. “Il disprezzo degli ungheresi per quell’epoca non nasce da una generica opposizione nei confronti del socialismo ma dalla perdita dell’autonomia nazionale causata dal dominio sovietico”, ci spiega László, attivista 38enne del partito operaio ungherese nato dalle ceneri del Magyar Szocialista Munkáspárt di János Kádár, rimasto al potere oltre trent’anni dopo che Mosca soffocò nel sangue la rivolta del 1956. Oggi è un piccolo partito che non ha mai ottenuto alcun seggio in parlamento. Ma le elezioni della primavera scorsa hanno condannato a un ruolo marginale anche i socialisti, lanciando le destre populiste al 70%. Un tempo gli ungheresi si battevano per riconquistare contro l’Urss quella sovranità nazionale che adesso il governo di Viktor Orban vuole difendere dall’Ue. A qualsiasi costo. Persino litigando con Bruxelles su un progetto di legge presentato dal parlamento magiaro che vorrebbe bandire la stella rossa dal logo della birra Heineken, poiché ritenuto un simbolo del totalitarismo. E come se non bastasse, la mostra di Frida Kahlo in corso alla Galleria nazionale di Budapest è stata attaccata duramente dal giornale di destra Magyar Idők perché “promuoverebbe il comunismo”. Ai pochi nostalgici del tempo che fu non resta che consolarsi nel piccolo negozio di souvenir del Memento park, che vende i cd con le canzoni dell’era sovietica insieme a vari oggetti a tema, spesso declinati in modo ironico.
RM

Se Trieste getta cloroformio sui crimini del fascismo

di Paolo Rumiz

C’era da aspettarselo, date le premesse. Trieste va a ricordare l’abominio delle leggi razziali con un aborto di manifestazione. Un ritrovo di pochi intimi accanto a una lapide ben nascosta nel sottopasso del Municipio che i triestini conoscono come “el pisadòr”, leggi pisciatoio. Così, tra una festa della sardella e una Barcolana. Conclusione: con l’eccezione della Curia, della parte meno tremebonda della comunità ebraica, di qualche solitario liberale e di pochi uomini d’onore, la città che in una piazza osannante (sette ovazioni oceaniche) ha visto la proclamazione del razzismo come legge di Stato, calerà le braghe di fronte a una giunta che non gradisce la memoria.Il putiferio è nato da un manifesto, quello del liceo Petrarca, che chiama le cose col loro nome. Ma cosa c’è di forte, di duro, di estremo nella verità storica, e cioè che dei triestini furono complici attivi dei nazisti nell’espulsione e poi nella schedatura degli ebrei in vista dell’annientamento, e non pagarono mai il conto con la scusa dell’italianità da difendere contro gli slavo-comunisti alle frontiere? Meglio non ricordare che una parte della città ha tratto durevoli vantaggi economici e di carriera dal provvedimento fascista. Qualcuno magari potrebbe azzardare un nesso tra le ronde di oggi e le squadracce di ieri. Non sia mai. Il fatto è che quel nesso è svelato non dal manifesto, ma dalla reazione della giunta. Se non ci fosse un legame, non si sarebbe mostrata tanta coda di paglia e si sarebbe commemorato senza problemi l’infausto settembre che ci ha portati alla guerra, alla sconfitta e alla dannazione. Il sindaco si illude di poter tenere a bada i più estremi dei suoi compagni di coalizione. Beato lui. Anche mio zio Giorgio Pitacco, irredentista della prima ora e poi podestà di Trieste nel Ventennio, si illuse di controllare l’avanguardismo del manganello e dell’olio di ricino. Fu sconfitto. Sappia anche Dipiazza che i suoi galletti in giunta non hanno niente a che fare con la Destra occidentale, schierata a difesa dello stato di diritto e dei valori democratici. È gente per cui il potere mondiale è ancora “in mano a ebrei e massoni” (parole pronunciate sei anni fa a un comizio leghista dal vicesindaco Polidori, che però in questa occasione ha preso le distanze dal sindaco, definendo quelle inserite nel manifesto contestato delle «semplici foto che testimoniano un momento storico»). È un movimento illiberale, amico di Putin, vicino a post-comunisti come Orbàn. Non italianissimo, ma balcanico nell’anima. So di rappresentare una minoranza. Vedo già le critiche sul web: il razzista sono io, perché il mio è un discorso che divide, eccetera. Non me ne frega niente. Su temi come questo è sacrosanto fare parte per se stessi e scavare un fossato visibile tra chi è per la libertà e chi è contro. Basta con questa melassa che proclama “vogliamoci bene”, se poi il 3 novembre si accolgono i portatori di odio in piazza per ricordare la fine della Grande Guerra. Non voglio avere nulla a che fare con chi – fosse anche la metà degli italiani – ritiene che blindare i porti sia cosa giusta. Tra le sparate sui porti chiusi e il cloroformio sulla memoria del fascismo esiste un nesso trasparente.

(da Il Piccolo del 15 settembre 2018)

Flores contesta Pansa. “Per riscrivere la Resistenza servono prove”

di Massimo Rebotti

Lo storico Marcello Flores è direttore scientifico degli Istituti per la storia della Resistenza. Quella storia che secondo Giampaolo Pansa, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere, andrebbe «riscritta» perché «falsa». Flores ha letto immediatamente l’ultimo libro di Pansa, Uccidete il comandante bianco, sulla morte di Aldo Gastaldi, l’unico comandante partigiano non comunista in Liguria.
Cosa ne pensa?
«È un libro disonesto dal punto di vista storico, non vengono indicate le fonti. Pansa stesso scrive che “molti passaggi sono ideati da me”. Questo lo rende più simile a un romanzo».
L’autore ha accusato voi storici di avere mentito. Si è sentito punto sul vivo?
«Come si può dire a un’intera categoria di persone che mente? È come se io dicessi che tutti i giornalisti mentono. Pansa è stato un grande giornalista, anni fa lo avevo anche invitato a confrontarci pubblicamente. Non volle».
Lo rifarebbe?
«Se si parla di storia, sono pronto. In questo libro, per esempio, scrive che il comandante “venne assassinato da un complotto politico”. Poi spiega di non avere elementi, che si tratta di una sua convinzione, che “c’erano delle voci”. Non si fa storia così. Io ho studiato i gulag, le vittime vere del comunismo. Le “voci” sono ipotesi di lavoro, poi si cercano i riscontri».
Ma vittime «vere» i comunisti italiani nel Dopoguerra ne hanno fatte.
«Certo. Pansa parla di 800 morti a Genova dopo la Liberazione. Finora risulta, anche da fonti dei fascisti di allora, che furono 2-300. Un numero enorme, intendiamoci, ma perché dire 800? Enfatizzare è da narratori, non da storici».
Pansa pone anche un tema generale: la storia della Resistenza va riscritta.
«In generale riscrivere la storia è importante per ogni generazione. Ma il suo obiettivo polemico non esiste più da decenni. Ha in mente la narrazione che facevano i comunisti negli anni 50-60, ma sono ormai 40 anni che la storia della Resistenza viene “riscritta”».
Sostiene che «il mito» non ci sia più?
«Mi sono laureato nel 1970 proprio in polemica con quella narrazione comunista. Ma l’idea da cui muove Pansa, che i comunisti nel Dopoguerra fossero pronti a un colpo di Stato, è fondata sul nulla dal punto di vista storiografico».
Sul nulla?
«Sì. Avrebbero dovuto disobbedire a Stalin che disse chiaramente al Pci — ci sono fior di studi in merito — di non fare come in Grecia. Anche nelle reazioni dopo l’attentato a Togliatti non c’era niente di organizzato. Qualche comunista, certo, auspicava una presa del potere violenta, ma nessuno dei dirigenti pensava che si dovesse o si potesse fare».
Difende la storia per come è stata «scritta» finora?
«Questa idea che la Resistenza non è mai come ce la raccontano, che è stata una guerra tra italiani, buoni e cattivi in entrambi gli schieramenti, con la maggioranza interessata solo a farsi gli affari suoi, ecco, questa idea di Pansa è profondamente pessimista sulla coscienza civile degli italiani: una sorta di disfattismo morale. Il contrario di ciò che la Resistenza fu».

(da Corriere.it)

Visegrad, il genocidio 25 anni dopo

Avvenire, 13.6.2017

“E il ponte continuava a stare, tale quale era da secoli, con la sua eterna giovinezza di perfetto disegno e di buona e grande opera umana, una di quelle opere che non conoscono vecchiaia e trasformazioni e che, almeno così sembra, non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo”. Chissà cos’avrebbe pensato Ivo Andrić se avesse visto il meraviglioso “ponte vecchio” della cittadina bosniaca di Višegrad trasfigurato in un gigantesco patibolo, in uno dei luoghi dell’orrore del conflitto balcanico degli anni ’90. Quel gioiello architettonico in pietra bianca, costruito nel XVI secolo per volere del gran visir Mehmed Pascià Sokolović e oggi considerato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, fece da sfondo al suo capolavoro assoluto, Il ponte sulla Drina, nel quale aveva narrato tre secoli di storia di una Bosnia crocevia di popoli e religioni, un mosaico di vicende corali e private costruite intorno alle sue undici arcate, “sotto le quali rumoreggia il fiume verde, rapido e profondo”. La sua narrazione, scandita dal ritmo delle rivolte e delle guerre intercorse nei secoli tra serbi, turchi e austriaci, si era interrotta bruscamente nel fatale 1914. “Se Dio ha tolto la sua mano da questa sventurata cittadina sulla Drina – aveva scritto – l’ha tolta forse anche da tutto il mondo e da tutta la terra che si trova sotto il cielo? Costoro non continueranno in eterno a comportarsi così”. Nel 1961, anche grazie a quel romanzo straordinario, Andrić era passato alla storia diventando il primo e finora l’unico vincitore del premio Nobel per la letteratura dell’area ex-jugoslava. Appena tre decenni più tardi le acque della Drina, a lungo simbolo di convivenza tra i popoli, si sarebbero trasformate nella più grande fossa comune di tutta la Bosnia. Višegrad, a causa della sua posizione strategica, divenne una delle tante città-martiri di quel conflitto: l’inferno cominciò esattamente venticinque anni fa, quando l’esercito regolare jugoslavo, dopo averla bombardata, l’abbandonò nelle mani del gruppo paramilitare delle Aquile bianche guidato da due cugini, Milan e Sredoje Lukic, che vi avrebbero instaurato un lungo regime di terrore e morte. Quelle vicende – che rappresentarono la prova generale del genocidio di Srebrenica e di altri luoghi tristemente passati alla storia in quegli anni – sono state ricostruite nel dettaglio dal giornalista Luca Leone in uno splendido reportage dal titolo Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio (Infinito edizioni). I rastrellamenti, le deportazioni, i massacri e gli stupri di massa iniziarono alla fine di maggio del 1992 con un ritmo e una brutalità mai visti prima d’allora, che culminarono il 14 giugno nel rogo della casa di Pionirska Ulica, dove gli ultranazionalisti serbi rinchiusero decine di musulmani, perlopiù donne, vecchi e bambini, barricarono porte e finestre e poi appiccarono il fuoco. Sessantasei persone morirono bruciate vive, la più anziana aveva 75 anni, la più giovane appena due giorni. Mentre le fiamme si levavano nel cielo i cugini Lukic e i loro uomini aspettavano fuori, pronti a falciare a colpi di fucile chi tentava di scappare. Pochi giorni dopo lo stesso tragico destino toccò a un’altra settantina di musulmani, in un’altra casa alla periferia della città. Nel breve volgere di alcune settimane la pulizia etnica ai danni dei musulmani bosniaci (che costituivano il 63 per cento della popolazione locale) portò alla morte o alla scomparsa di almeno tremila persone. Molte vittime avrebbero trovato l’eterno riposo nelle acque della Drina: i carnefici usavano proprio quel ponte “voluto da Dio” per sgozzarle e poi liberarsi dei cadaveri. I corpi gettati nel fiume erano così tanti che già alla fine di giugno il direttore della diga di Višegrad fu costretto a inviare una comunicazione ufficiale chiedendo di rallentarne il flusso, altrimenti le turbine della diga rischiavano di incepparsi. Quelle stesse acque che oggi dividono la Bosnia dalla Serbia e che per oltre quattro secoli erano state confine naturale tra due mondi, linea di demarcazione tra l’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente, si tramutarono in un’enorme cimitero, mentre lo stupro etnico divenne una pratica comune in luoghi come il Vilina Vlas, il terrificante albergo trasformato in un lager, dove circa duecento donne e bambine furono sottoposte a stupri di massa prima di essere uccise.
Luca Leone, già autore di opere fondamentali sul dopoguerra bosniaco, raccoglie in questo libro le testimonianze dirette dei sopravvissuti e di coloro che in questi anni si sono battuti – spesso invano – per ottenere giustizia. Oltre alla minuziosa ricostruzione di un orrore che può risultare inconcepibile per una normale mente umana, quello che colpisce maggiormente del suo racconto è la situazione nella quale si trova oggi Višegrad, una città “sonnolenta e omertosa”, dove le istituzioni cercano per prime di nascondere ciò che è accaduto. Un luogo che ha visto la maggior percentuale di donne e bambini uccisi in proporzione alla popolazione di tutta la Bosnia, che tuttora si regge su un equilibrio solo apparente, dove il revisionismo e il negazionismo hanno raggiunto livelli parossistici. Appena tre anni fa, tra lo sgomento e la rabbia dei sopravvissuti, un’ordinanza comunale ha imposto la rimozione della parola “genocidio” dal monumento che ricorda le vittime nel cimitero musulmano della città. Qualche anno prima Bakira Hasecic, fondatrice dell’associazione delle donne vittime di stupro etnico, aveva messo sul ponte una targa in ricordo delle tremila persone uccise e scomparse, ma qualcuno l’ha subito rimossa. Nella geografia del genocidio bosniaco Višegrad rappresenta l’inizio e Srebrenica la fine, ma nel primo caso nessun tribunale ha ancora riconosciuto ufficialmente il genocidio perché – spiega Leone – “coloro che non sono stati ammazzati sono stati deportati oppure indotti a scappare e a non ritornare più, modificando per sempre la composizione demografica della città e di tutto il territorio circostante”. Di conseguenza, il percorso verso la giustizia appare ancora assai lungo e tortuoso: Milan Lukic, considerato uno dei più atroci criminali di guerra dell’epoca, ribattezzato “Lucifero” dagli atti del Tribunale dell’Aja, è stato condannato all’ergastolo solo nel 2009, suo cugino Sredoje Lukic a 27 anni di carcere mentre i pochi altri condannati hanno beneficiato di sconti di pena e sono già tornati a vivere in città. Dove una parte della popolazione continua a considerarli degli eroi.
RM

L’ultimo testimone di Treuenbrietzen

Avvenire, 25.9.2016

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Antonio Ceseri (foto di R.Michelucci)

Un silenzio lungo quasi mezzo secolo ha avvolto la storia dell’ultimo sopravvissuto della strage nazista di Treuenbrietzen. Il 23 aprile 1945, nel lager poco distante da Berlino dove il Terzo Reich produceva munizioni, gli uomini della Wehrmacht fucilarono 130 soldati italiani. “Ci fecero camminare a lungo per scappare dai russi che erano arrivati al campo due giorni prima, poi ci costrinsero a scendere in una cava di sabbia che era già piena di cadaveri, e ci spararono addosso”. Mentre ci racconta la sua storia, lo sguardo di Antonio Ceseri si vela di commozione, ancora una volta. Fiorentino, classe 1924, dunque all’epoca poco più che ventenne, Ceseri rimase miracolosamente illeso perché i corpi dei suoi compagni gli fecero da scudo e lui, con la sua corporatura minuta, restò sepolto da quei corpi sanguinanti per tutta la notte, senza che i tedeschi se ne accorgessero. Dei tre superstiti di quella barbara e immotivata esecuzione è l’unico tuttora rimasto in vita ma la sua storia terribile è rimasta sepolta dentro di lui per lungo tempo. Sono dovuti passare esattamente 45 anni, prima che decidesse che era arrivato il momento di raccontarla. Da allora ha iniziato a portare nelle scuole la sua incredibile testimonianza, che è stata ricostruita anche nel libro In silenzio di Mario Cristiani, recentemente uscito per Giunti. Ceseri è uno degli oltre seicentomila internati militari italiani – i cosiddetti Imi -, quei soldati che dopo l’armistizio del 8 settembre 1943 dissero “no” ai tedeschi e ai fascisti e furono per questo deportati nei campi di lavoro forzato in Germania. Almeno 50mila di loro non avrebbero più fatto ritorno a casa. Ma la memoria collettiva italiana ha tardato a fare i conti con questa tragedia, riconoscendola con grave ritardo appena una decina d’anni fa, con una medaglia conferita dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A lungo gli Imi sono stati considerati dei traditori, degli “imboscati” – così riporta testualmente anche il foglio matricolare di Ceseri -, senza che nessuno riconoscesse il valore del loro rifiuto e le sofferenze patite nei campi di lavoro dove furono privati dello status di prigionieri di guerra, torturati, deportati, uccisi. “Ci chiesero se volevamo tornare in Italia per combattere per la Repubblica Sociale e io mi rifiutai, come la maggior parte dei miei compagni. Non volevamo combattere dalla parte dei tedeschi. E lo rifarei ancora oggi”, assicura Ceseri, che nonostante l’età ha conservato uno spirito straordinario e una memoria di ferro che gli consente di ricordare ogni singolo dettaglio della sua incredibile vicenda. Continua a leggere “L’ultimo testimone di Treuenbrietzen”