(Raffaele Salinari, da Il Manifesto del 7 luglio 2021)
Ci ha lasciato Angelo Del Boca, la coscienza critica del colonialismo degli «italiani brava gente». Nato a Novara il 23 maggio del 1925; il padre aveva combattuto come fante nella prima battaglia dell’Isonzo durante la Grande Guerra e dunque già da piccolissimo si era dovuto confrontare con gli interrogativi che immancabilmente attraversano quanti hanno vissuto, più o meno direttamente, un’esperienza così traumatica. Nei libri autobiografici, in particolare in quelli che ricordano la sua esperienza partigiana, il ruolo testimoniale del padre e le ombre gettate sul suo mondo giovanile dalla Grande Guerra, diventano centrali nella formazione di una sensibilità verso i processi storici in generale e quelli coloniali in particolare.
Angelo Del Boca partecipa alla Seconda Guerra Mondiale e dopo essere stato deportato in Germania a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, si arruola nella Repubblica di Salò, nella divisione alpina Monte rosa, dalla quale però diserta per entrare a far parte della Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà.
Fu il primo studioso italiano a gettare uno sguardo critico sul periodo coloniale italiano ed in particolare a documentare le atrocità compiute dalle nostre truppe in Libia e in Etiopia. Le sue denunce sui bombardamenti aerei sui centri abitati e l’impiego di armi chimiche come l’iprite, il fosgene e l’arsina, fecero molto scalpore nel mondo accademico ma, forse ancor più, in quello politico, dato il diffuso negazionismo che nel secondo dopo guerra imperava nella narrativa sulle vicende italiane in Africa Orientale. Per queste sue posizioni Angelo Del Boca è stato per lungo tempo avversato sia dalla stampa conservatrice sia dalle associazioni di reduci dall’Africa Orientale italiana.
Indicativa, nel merito e anche nei toni, la polemica che lo contrappose per anni, sulle pagine del Corriere della Sera, ad Indro Montanelli che sosteneva, al contrario delle evidenze storiche raccolte da Del Boca, l’opinione agiografica e falsamente consolatoria secondo la quale quello italiano «fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all’azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene». Una visione alquanto «romantica» di cosa significa essere in guerra e soprattutto in una guerra coloniale. A questo proposito bastino le riflessioni di Frantz Fanon, autore molto amato da De Boca, e dei molti resistenti africani alle brutalità di tutti gli eserciti coloniali, per far capire la profondità e l’attualità quasi scandalosa del suo pensiero già negli anni Sessanta.
Alla fine, però, nel 1996 lo stesso Montanelli si scusò pubblicamente con lui quando lo studioso dimostrò, attraverso documenti inoppugnabili, le brutalità commesse dell’Esercito della «brava gente» in Etiopia. La denuncia su base storica ed etica della retorica del «Paese di pace che però è costretto a fare la guerra» ha attraversato tutto il suo apparato critico gettando così nuova luce sulle relazioni tra politica e guerra anche nel periodo post coloniale. Da qui la posizione di Angelo del Boca contro le nuove avventure dell’Italia in Libia, sostenuta dalla consapevolezza che la verità storica servisse anche come faro per orientare l’opinione pubblica italiana a fare chiarezza su quelle che chiama più volte «le nostre responsabilità rispetto alle popolazioni che avevamo aggredito», convinto per questo del fatto che «bisognava evidenziare in primo luogo i crimini italiani», come ebbe modo di dire durante una intervista al Corriere nel gennaio del 2011.
Questa sua ricerca della verità storica, e soprattutto la capacità di porsi dalla parte dei popoli che avevano subito la colonizzazione, e delle relativa azioni di resistenza specie in Etiopia, serviva dunque ad illuminare le vicende attuali ed il rischio di nuovi coinvolgimenti militari in quell’Africa che già ci aveva visto come colonizzatori. Posizioni che gli valsero nel 2014 la Laurea honoris causa in Storia Africana da parte dell’Università di Addis Abeba.
Nel corso degli anni le sue pubblicazioni hanno dunque spaziato dal primissimo L’Africa aspetta il 1960, al poderoso Gli italiani in Africa orientale edito già negli anni Settanta, sino al recentissimo Gheddafi – Una sfida dal deserto, del 2014.
Come un altro studioso appassionato e sensibile recentemente scomparso, Calchi Novati, del quale era amico ed estimatore, Del Boca ha accompagnato dunque la storia politica e culturale del continente africano sin dalle prime avvisaglie dei movimenti indipendentisti, che lui aveva già ravvisato nel fenomeni di resistenza delle popolazioni al giogo coloniale. La sterminata bibliografia disegna dunque un percorso inesausto che rileggendo le vicende coloniali del nostro Paese allarga gli orizzonti a tutto il fenomeno delle relazioni tra Europa e Africa, attraverso la ricerca di documenti di prima mano, spesso non solo sconosciuti ma deliberatamente nascosti. Anche la sua storia partigiana è tematizzata in diversi libri, tra cui l’ultimo, del 2015 Nella notte ci guidano le stelle: La mia storia partigiana. Ma forse il suo contributo più importante rimane quello sull’attualità della questione libica. Conoscitore profondo non solo della storia ma dell’antropologia del Paese africano, De Boca ha più volte espresso – proprio sulle pagine de il manifesto – il suo estremo e motivato disaccordo sulle relazioni italo libiche in particolare e di quelle tra Europa e Libia in generale dopo quello che lui giustamente chiamava l’assassinio di Gheddafi. Il suo criticismo è divenuto ancora più radicale in relazione alla possibilità che l’Italia potesse essere direttamente coinvolta in un intervento militare nel Paese africano. La sua denuncia di una Libia allo sbando di cui, come disse in una recente intervista «almeno 140 gruppi si contendono il territorio, si sono divisi il potere e i depositi di petrolio», lo portava ad esprimere una dura critica alla posizione europea in quanto l’abbattimento del regime di Gheddafi aveva «riportato il tribalismo, sono scomparsi i confini amministrativi, si è tornati indietro di due secoli, a prima dell’Impero Ottomano». Anche se il suo giudizio su Gheddafi non era positivo, lo riteneva un dittatore, per Del Boca, d’altra parte farlo cadere così, senza alternative, era stato un errore, perché «lui almeno faceva da cintura contro l’estremismo». In particolare la sua preoccupazione, che nel recente periodo è apparsa più che giustificata, era legata alla quantità enorme di armi che si potevano trovare ovunque e che inevitabilmente sarebbero finite nelle mani di chiunque. Facile profeta, inascoltato, Del Boca sin dalla caduta di Gheddafi alzò la voce per mettere in guardia dal fatto che una Libia fuori controllo sarebbe diventato un santuario per il nascente radicalismo di matrice islamica e che dal suo territorio oramai disarticolato sarebbero stati alimentati i conflitti nel Mali e nel Ciad.
L’ultimo monito, sempre sulla base storica dei campi di concentramento nelle zone più aride del paese, dove il nostro Esercito coloniale aveva raccolto intere popolazioni della Cirenaica, con un bilancio finale di 40 mila morti a causa delle malattie, il cattivo nutrimento e le continue percosse o fucilazioni, Del Boca lo ha dedicato alla gestione esternalizzata dei flussi migratori. Esattamente come le recenti decisioni a livello europeo sembrano volere fare.