Perché fallì il Golpe dell’estrema destra

Focus Storia, dicembre 2020

7 dicembre 1970. In una notte flagellata dalla pioggia inizia la notte dell’operazione “Tora Tora”, chiamata così in ricordo dell’attacco dei giapponesi a Pearl Harbour, il 7 dicembre del 1941. A dirigere il tentativo di colpo di Stato è il principe Junio Valerio Borghese, dalle stanze della sede romana del Fronte Nazionale, il movimento politico di estrema destra che lui stesso aveva fondato due anni prima. Il complotto è stato pianificato nei minimi dettagli per dare l’assalto ai centri nevralgici del Paese: gli obiettivi principali sono il Ministero della Difesa, il Ministero dell’Interno, la Rai, le centrali telefoniche e quelle del telegrafiche. Tra i congiurati ci sono figure affiliate ai movimenti neofascisti e alcuni membri di spicco dell’esercito e della Guardia Forestale. Il comando operativo si trova in un cantiere edile del quartiere di Montesacro ma un altro cospicuo gruppo di uomini è in attesa di ordini nella palestra dell’Associazione Paracadutisti al comando dell’ex tenente Sandro Saccucci. Intorno alle 20 e 30 un commando si introduce nell’armeria del Viminale impossessandosi di armi e mitragliatrici. Nel frattempo il generale dell’Aeronautica Giuseppe Casero e il colonnello Giuseppe Lo Vecchio hanno preso posizione al Ministero della Difesa e una colonna di automezzi con a bordo circa duecento forestali armati è arrivata a poche centinaia di metri dal centro di produzione Rai di via Teulada. Continua a leggere “Perché fallì il Golpe dell’estrema destra”

In difesa di Mimmo Lucano. A prescindere

di Ascanio Celestini

Lo chiedo a tutti. Ai commentatori dei social che in maniera pidocchiosa si mettono a elencare le norme infrante da Mimmo Lucano. Lo fanno col ghigno di chi ha pizzicato il ragazzino mentre ruba le caramelle. Lo chiamano “pasticcione”. Il giornalista sfacciatamente di destra scrive che il sindaco ha falsificato i documenti, mentre il commentatore più perbenista scrive che dava ai “clandestini” dei “documenti farlocchi”. E adesso che hai corretto il compitino con la matita rossa: da quale parte stai?
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Il tragico volo del poeta antifascista Lauro de Bosis

Avvenire, 5 settembre 2021

Una sera d’ottobre di novant’anni fa Icaro volò su Roma e poi sparì per sempre. Volò per gridare la sua rabbia contro il regime fascista, per risvegliare le coscienze e per lanciare un appello al re, affinché rispettasse il “patto sacro” tra la corona e gli italiani. Era partito dalla Costa Azzurra su un velivolo da turismo e dopo aver violato la sicurezza area della capitale aveva fatto piovere dal cielo 400mila volantini antifascisti inneggianti alla libertà che suonavano come una dichiarazione di guerra contro Mussolini. Ma lungo la rotta del ritorno il piccolo aeroplano, forse rimasto a corto di carburante, era scomparso in mare senza lasciare traccia del suo pilota. Lauro de Bosis, il “poeta volante”, una delle figure più romantiche e dimenticate del primo antifascismo aveva suggellato con quel volo tragico una lotta clandestina combattuta a colpi di penna, di ideali e di valori. Quello che poteva sembrare un atto d’ingenuo volontarismo era stato in realtà un gesto di grande coraggio, compiuto negli anni in cui venivano promulgate le leggi contro la libertà di espressione e di stampa, e le voci contrarie al regime erano costrette al silenzio. Continua a leggere “Il tragico volo del poeta antifascista Lauro de Bosis”

La “memoria condivisa” è un ossimoro

Fuori binario, agosto 2021

Per liberare Firenze dal nazifascismo, nell’estate del 1944, non bastò una battaglia ma ne furono necessarie addirittura due, come spiegò a suo tempo Piero Calamandrei. Una di natura strategica, combattuta a distanza tra le artiglierie alleate disposte sui colli a sud dell’Arno contro quelle tedesche schierate sul semicerchio contrapposto delle colline di Fiesole. L’altra tattica, nel cuore di Firenze, che fu combattuta con armi leggere per le strade e le piazze della città, tra il popolo insorto e i nazifascisti che si barricarono tra le rovine dei palazzi, lasciando che i suoi monumenti fossero ridotti in macerie per poter poi incolpare gli Alleati. Continua a leggere “La “memoria condivisa” è un ossimoro”

Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale

(Raffaele Salinari, da Il Manifesto del 7 luglio 2021)

Ci ha lasciato Angelo Del Boca, la coscienza critica del colonialismo degli «italiani brava gente». Nato a Novara il 23 maggio del 1925; il padre aveva combattuto come fante nella prima battaglia dell’Isonzo durante la Grande Guerra e dunque già da piccolissimo si era dovuto confrontare con gli interrogativi che immancabilmente attraversano quanti hanno vissuto, più o meno direttamente, un’esperienza così traumatica. Nei libri autobiografici, in particolare in quelli che ricordano la sua esperienza partigiana, il ruolo testimoniale del padre e le ombre gettate sul suo mondo giovanile dalla Grande Guerra, diventano centrali nella formazione di una sensibilità verso i processi storici in generale e quelli coloniali in particolare. Continua a leggere “Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale”

I Giusti di Cotignola

Avvenire, 3 marzo 2021

Oltre alla Nonantola di don Arrigo Beccari vi fu un altro comune italiano che durante la Seconda guerra mondiale si mobilitò per salvare gli ebrei dalla ferocia nazi-fascista. Forse meno noto ma ugualmente degno di essere ricordato come esempio di coraggio e resistenza alla barbarie. È Cotignola, piccolo centro della bassa Romagna in provincia di Ravenna, dove tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 l’intera popolazione – circa seimila abitanti – fece di tutto per impedire la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. E ci riuscì. Tutti uniti in un’impresa eroica che salvò la vita a quarantuno persone sfollate da Bologna e da altre località italiane. Continua a leggere “I Giusti di Cotignola”

Leggere la Divina Commedia sulle lapidi di Firenze

Il dantista Massimo Seriacopi ci guida nelle strade fiorentine dove le pietre parlano delle famiglie della città, spesso in lotta tra loro, che il Poeta celebra nelle tre Cantiche.

«Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva». Basta alzare lo sguardo lungo il Corso, nel pieno centro di Firenze, per scorgere la lapide con i versi della Divina Commedia che descrivono il primo incontro tra Dante e Beatrice. Sono incisi nel marmo della facciata dell’antico palazzo dove un tempo sorgevano le case dei Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice. Siamo nel XXX canto del Purgatorio e il sommo poeta sta assistendo a una processione con carri e canti di lode circondato da angeli e anime pie, quando vede una donna con un velo bianco sulla testa, una corona d’ulivo, una veste rossa e un manto verde. «I colori indossati da Beatrice sono un’allegoria delle virtù teologali, il bianco della fede, il rosso della carità e il verde della speranza, ai quali si somma la sapienza simboleggiata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva», ci spiega il dantista Massimo Seriacopi, che ci accompagna in un percorso attraverso i luoghi fiorentini di Dante solcati dalle lapidi del suo poema monumentale.
Sull’interpretazione allegorica di Beatrice sono state ideate e smontate molte teorie fino ad arrivare alla doppia concezione della donna: da una parte l’ideale stilnovista della bellezza che muove il cuore del poeta, dall’altra la rappresentazione della teologia cristiana. Nella Divina Commedia Beatrice sarà ‘portatrice di Cristo’ e la bellezza che si manifesta pienamente nella sua natura rivelatrice della verità e della carità è per Dante la via per accedere a Dio. Ripercorrere le strade e i vicoli della Firenze medievale è un modo per andare alla riscoperta dei più famosi luoghi danteschi e la partenza da via del Corso non è casuale perché qui si concentra il più alto numero di lapidi, gran parte delle quali raccontano le famiglie della Firenze del tempo di Dante. Quella degli Adimari con Filippo Argenti che sguazza nel fango della palude nel cerchio degli iracondi ( VIII canto dell’Inferno), quella dei Donati con Forese, che predice la futura rovina del fratello Corso Donati capo dei Guelfi neri – nel XXIV canto del Purgatorio, infine quella dedicata alla famiglia dei Cerchi (XVI canto del Paradiso). Basta fare pochi passi in direzione opposta rispetto al Duomo per imbattersi nei resti dell’antica chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, risalente all’XI secolo, meglio nota come ‘chiesa di Dante’. Qui, nel 1285, il poeta sposò Gemma Donati e si ritiene che alcuni anni prima, proprio al cospetto dell’altare, abbia visto per la prima volta la sua Beatrice.
«In questa chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre della giovane, e altri membri della sua famiglia ma è assai controversa l’ipotesi che vi sia anche il sepolcro di Beatrice, che più verosimilmente fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, i Bardi, nel chiostro grande della basilica di Santa Croce», spiega Seriacopi, che è autore tra l’altro del recente saggio Dante tra poesia e teologia (ed. Setteponti). All’estremità opposta di via Santa Margherita si apre un piccolo slargo dove si trova la Casa di Dante, all’interno della replica ottocentesca di un’antica casa-torre. Istituita nel 1965 in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, oggi ospita il museo omonimo che ne documenta la vita e le opere. Svoltato l’angolo siamo in via Alighieri, e una lapide indica il punto dove si presume sorgesse la vera casa natale del poeta. «Io fui nato e cresciuto / Sopra ’l bel fiume d’Arno alla gran villa», recita la pietra, riportando una citazione dal XXIII canto dell’Inferno.
Sono versi che trasudano nostalgia: furono scritti dal poeta durante il sofferto esilio che lo tenne lontano da Firenze fino alla sua morte. Le strade e i vicoli medievali che separano il Battistero di San Giovanni e l’attuale piazza della Signoria furono il palcoscenico dell’infanzia e della giovinezza di Dante, oltre che il collegamento naturale tra il potere religioso e quello politico della città. A unire i due punti c’è via de’ Calzaioli al cui limitare, superata l’antica chiesa di Orsanmichele, una lapide è quasi nascosta in mezzo alle insegne luminose dei negozi. «Cita un verso dal X canto dell’Inferno – precisa Seriacopi -. Qui Dante dialoga con Cavalcante, padre di colui che nella Vita Nova aveva definito il suo primo amico, ovvero Guido Cavalcanti. Era anch’egli un grande poeta e se non fosse morto così presto avrebbe potuto oscurare lo stesso Dante». Proprio negli anni in cui veniva scritta la Divina Commedia, in piazza della Signoria era in corso la realizzazione di Palazzo Vecchio, che venne costruito sulle rovine dei palazzi di proprietà della famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata da Firenze nel 1266. E proprio agli Uberti sono dedicate due delle tre lapidi dantesche affisse all’interno del cosiddetto ‘primo cortile’ di Palazzo Vecchio. Dante si trova adesso nel XVI canto del Paradiso e descrive la superbia che portò quella famiglia alla rovina, oltre a nuocere alla grandezza di Firenze («Oh quali io vidi che son disfatti / per lor superbia!»).
«L’altra lapide – prosegue Seriacopi – cita invece l’episodio in cui il famoso capo ghibellino Farinata degli Uberti, rinchiuso tra gli epicurei nel sesto cerchio del-l’Inferno, racconta al poeta di aver difeso Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 1260, opponendosi poi ai ghibellini senesi che erano intenzionati a distruggerla». Nessuno meglio di Dante riuscì a incarnare appieno lo spirito del suo tempo, quello di un’Italia drammaticamente divisa e faziosa, impegnata in lotte fratricide all’interno degli stessi comuni, e a portare alla luce delitti, passioni e storie oscure di quell’epoca, che altrimenti sarebbero finite nell’oblio. E nella Commedia non perde occasione per scagliarsi contro la civiltà fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale. È quanto fa ancora più avanti, in via del Proconsolo, sulla lapide incisa accanto all’antica chiesa della Badia fiorentina, e poi di nuovo in via del Corso insieme a Cacciaguida, l’avo che incontra in Paradiso, tra le anime dei combattenti per la fede. «Dante era un uomo del Medioevo cristiano che riprendeva l’etica di Aristotele, per il quale la virtù consisteva nel giusto mezzo – conclude Seriacopi -. E Cacciaguida, che fu un guerriero della seconda crociata al seguito dell’imperatore Corrado III, riveste qui un’importante funzione morale. Attraverso di lui Dante esprime tutto il suo sdegno nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze, rievocando la purezza dei costumi antichi’». Continua a leggere “Leggere la Divina Commedia sulle lapidi di Firenze”

“La ricostruzione dell’Irpinia non fu solo sinonimo di sprechi”

Avvenire, 20 novembre 2020

È il 23 novembre 1980: alle 19,34 una violenta scossa di magnitudo 6.9 della durata di circa novanta secondi colpisce le province di Avellino, Salerno e Potenza e in parte anche Napoli. In pochi istanti sono rase al suolo case, scuole, ospedali e interi paesi. Il sisma coinvolge in totale 679 comuni in tre regioni, Campania, Puglia e Basilicata, un’area di sei milioni di abitanti. “Ho visto morire il sud”, commentò Alberto Moravia. Ma a fare del terremoto dell’Irpinia l’evento più disastroso del Secondo dopoguerra è il bilancio spaventoso delle vittime: quasi tremila morti, novemila feriti, oltre trecentomila senzatetto. Continua a leggere ““La ricostruzione dell’Irpinia non fu solo sinonimo di sprechi””

La resa dei conti

Focus Storia, ottobre 2020

Agosto 1948. Grazie a una soffiata, vengono ritrovati in un campo i resti martoriati dei conti Manzoni Ansidei: la contessa Beatrice e i figli Luigi, Giacomo e Reginaldo insieme alla domestica di famiglia. Tre anni prima erano stati prelevati dalla loro villa a Lugo di Romagna, condotti in un podere a pochi chilometri di distanza e uccisi da un gruppo di partigiani che poi avevano occultato i cadaveri. I Manzoni erano una famiglia di nobili proprietari terrieri, sostenitori del fascismo fin dagli albori, e uno dei figli della contessa aveva fatto carriera nella Repubblica di Salò. Continua a leggere “La resa dei conti”