Usa-Urss, attrazione e illusione

Avvenire, 12 novembre 2022

Nel 1931 George Bernard Shaw visitò l’Unione Sovietica su invito di Stalin. Il grande drammaturgo irlandese, che non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie nei confronti del regime di Mosca, tornò da quel viaggio entusiasta e incitò i giovani occidentali a trasferirsi in Russia, dove avrebbero trovato – disse proprio così – “un futuro radioso”. Ai tempi della Grande depressione non pochi gli avrebbero dato ascolto, abbadonando gli Stati Uniti per inseguire ciecamente l’utopia socialista sovietica. È quello che fa anche Florence Fein, la giovane protagonista di I patrioti (traduzione di Velia Februari, Fazi editore, pagg. 790, euro 20), il poderoso romanzo d’esordio della scrittrice statunitense di origini ucraine Sana Krasikov che racconta le vicende di tre generazioni in bilico fra due continenti, intrappolate tra le forze della storia e le conseguenze delle proprie scelte. Continua a leggere “Usa-Urss, attrazione e illusione”

Sopravvissuti alla follia di Ceausescu

Avvenire, 9 ottobre 2022

“Folle provenienti da tutto il mondo non smettono di stupirsi di quanto sia stato facile abbattere migliaia di case, una ventina di chiese ortodosse, una decina tra scuole e ospedali per mettere al loro posto un palazzo ispirato alla forma della Luna”. Non molto tempo fa – erano gli anni ‘80 – Nicolae Ceausescu fece costruire la cosiddetta Casa del Popolo di Bucarest per celebrare la sua avidità e la sua megalomania. Quello che secondo i deliri di onnipotenza del satrapo rumeno sarebbe dovuto diventare il lussuoso Pantheon del regime comunista è oggi una banale attrazione turistica, il monumento triste e assai kitsch a un trauma collettivo che i rumeni vorrebbero poter dimenticare. Proprio come i faraoni ai tempi delle piramidi, Ceausescu volle vederlo crescere all’inverosimile, fino a farlo diventare il più grande edificio amministrativo del mondo, secondo per dimensioni soltanto al Pentagono. Continua a leggere “Sopravvissuti alla follia di Ceausescu”

Perhat Tursun, lo scrittore scomparso

Avvenire, 29 settembre 2022

Quello che in tempi recenti è stato definito “un inferno distopico di dimensioni sbalorditive” era già stato immaginato e descritto dal più grande scrittore uiguro contemporaneo. Alcuni anni fa, prima che in Cina iniziasse la feroce persecuzione contro l’etnia turcofona di religione islamica che vive nell’estremo ovest del Paese, Perhat Tursun scrisse un romanzo destinato a rivelarsi tragicamente premonitore e ad anticipare gli orrori perpetrati nella regione autonoma dello Xinjiang. Riecheggiando la sua stessa vita, Tursun ha raccontato la vicenda di un cittadino di seconda classe, vittima dell’esclusione e del razzismo, la cui esistenza precaria ricorda quella di molti uiguri prima del 2014, quando le autorità cinesi avviarono la brutale repressione che avrebbe portato oltre un milione di loro nei campi di rieducazione. Continua a leggere “Perhat Tursun, lo scrittore scomparso”

DDR, quando la poesia divenne un’arma contro l’Occidente

Avvenire, 15 aprile 2022

Berlino est, 1982. Un gruppo di uomini inizia a ritrovarsi una volta al mese all’ora del tè per discutere di poesia e letteratura. Studiano il pentametro giambico utilizzato da Shakespeare, le rime incrociate, i sonetti di Petrarca. Si cimentano nella scrittura di versi e poi li leggono a voce alta. Non sono dissidenti del regime comunista o intellettuali amanti della libertà bensì spie, ex agenti, giovani reclute e veterani della Seconda guerra mondiale. La stanza che li accoglie è infatti tappezzata di ritratti di Lenin e di Erich Honecker, leader della Germania orientale, e si trova all’interno del Ministero per la sicurezza dello Stato nel quartiere di Adlershof, un luogo così segreto da non essere nemmeno presente nelle mappe della città. Continua a leggere “DDR, quando la poesia divenne un’arma contro l’Occidente”

Nel segno di Mao

Focus Storia n. 177, luglio 2021

Cento anni fa, un gruppo di uomini in barca cambiò per sempre le sorti della Cina contemporanea. Il primo congresso nazionale del Partito comunista cinese ebbe inizio il 23 luglio 1921 a Shangai ma i lavori proseguirono su un’imbarcazione ormeggiata in un lago dello Jiaxing. I dodici delegati stilarono la prima costituzione del partito che proponeva un riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e al collasso. Tra i principali obiettivi fissati in quei giorni c’erano il rovesciamento della borghesia e la costruzione di una società socialista attraverso la lotta di classe, la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Continua a leggere “Nel segno di Mao”

Qualcuno salvi la squadra di Ceausescu

Venerdì di Repubblica, 22 gennaio 2021

Forse neanche la Securitate, la polizia segreta di Ceausescu, sarebbe riuscita a organizzare meglio dei tifosi della Dinamo Bucarest il salvataggio della squadra che fu del Ministero dell’Interno romeno ai tempi del regime. In passato i “cani rossi” di Bucarest vincevano uno scudetto dopo l’altro e si facevano rispettare in tutti i campi d’Europa. Continua a leggere “Qualcuno salvi la squadra di Ceausescu”

La resa dei conti

Focus Storia, ottobre 2020

Agosto 1948. Grazie a una soffiata, vengono ritrovati in un campo i resti martoriati dei conti Manzoni Ansidei: la contessa Beatrice e i figli Luigi, Giacomo e Reginaldo insieme alla domestica di famiglia. Tre anni prima erano stati prelevati dalla loro villa a Lugo di Romagna, condotti in un podere a pochi chilometri di distanza e uccisi da un gruppo di partigiani che poi avevano occultato i cadaveri. I Manzoni erano una famiglia di nobili proprietari terrieri, sostenitori del fascismo fin dagli albori, e uno dei figli della contessa aveva fatto carriera nella Repubblica di Salò. Continua a leggere “La resa dei conti”

Nella mente di Pol Pot

Avvenire, 17 marzo 2020

“Uomini e donne vestiti di nero. Con la pelle grigia per la malaria e gli anni di stenti passati nella giungla. Con i fucili a tracolla e gli sguardi assenti. Giovanissimi, quasi bambini. Ai cittadini i guerriglieri comunisti sembrano arrivare da un altro pianeta. Ma lo stesso pensarono i khmer rossi dei cittadini, con non troppo celato disdegno. Finalmente si trovano di fronte ai “nemici” di cui tanto avevano sentito parlare, i “capitalisti” che rifiutavano di entrare nella Rivoluzione”. Tiziano Terzani raccontò così l’entrata dei khmer rouge a Phnom Penh, la mattina del 17 aprile 1975. I guerriglieri arrivarono nella capitale cambogiana a piedi, in bicicletta e con qualche camion, senza incontrare alcuna resistenza. Dagli edifici del centro cittadino iniziarono a spuntare bandiere bianche, simbolo di resa, e la popolazione scese in strada per dare il benvenuto ai “liberatori” che avevano abbattuto l’odiato regime filo-statunitense del generale Lon Nol. Nessuno poteva immaginare che quei rivoluzionari di ispirazione comunista e nazionalista avrebbero di lì a poco trasformato il destino del paese in modo apocalittico. Ma poche ore dopo, i khmer rossi iniziarono l’evacuazione forzata di tutti gli abitanti di Phnom Penh, dicendo che si trattava di una misura temporanea per ridurre il sovraffollamento e difendersi da possibili bombardamenti americani. Chi si rifiutava di abbandonare la propria casa veniva fucilato sul posto. Nessuno era autorizzato a restare in città: anche gli ospedali dovevano essere svuotati. Quasi due milioni di persone furono costrette a marciare verso le campagne sotto un caldo infernale. I più partirono a piedi, in bici o su carri trainati da buoi. Vecchi e malati vennero portati via sui lettini degli ospedali. Il trasferimento fu talmente repentino e violento che non mancò di provocare vittime, soprattutto tra i disabili e gli infermi, anch’essi ugualmente obbligati alla marcia forzata. In pochi giorni Phnom Penh venne svuotata completamente e si trasformò in una città fantasma. Era appena iniziata una delle più feroci dittature del XX secolo, che si rese responsabile di un genocidio epocale e senza precedenti nella storia dell’umanità.
I khmer rossi erano nati alcuni anni prima come costola dell’esercito popolare del Vietnam del Nord. Il loro obiettivo era quello di creare una repubblica socialista agraria completamente autosufficiente, in cui i vertici del partito controllavano tutti gli aspetti della vita dei cambogiani. Sotto la guida del loro leader, Pol Pot (detto anche “Fratello numero uno”), avviarono un programma di ingegneria sociale di stampo maoista che prevedeva l’azzeramento della famiglia, del denaro e della religione al fine di creare “l’uomo nuovo”, un rivoluzionario ateo, etnicamente “puro”, privo di affetti o inclinazioni borghesi e dedito esclusivamente al lavoro dei campi, alla patria e alla rivoluzione. Per cercare di comprendere uno dei più grandi drammi dell’era contemporanea, il giornalista britannico Philip Short, già corrispondente della Bbc, ha compiuto un’approfondita indagine sulla vita di Pol Pot intervistando i capi superstiti dei khmer rossi, e passando in rassegna gli archivi cinesi, russi, vietnamiti e cambogiani. Il risultato del suo lavoro è confluito in uno dei testi-chiave sul genocidio cambogiano, Anatomia di un genocidio. Pol Pot e i crimini dei Khmer rossi (già uscito alcuni anni fa per Rizzoli e adesso riproposto dalle edizioni Res Gestae), che traccia il destino di una nazione e di un popolo che quell’uomo portò alla rovina. Continua a leggere “Nella mente di Pol Pot”

Berlino, ricucita dall’arte, 30 anni dopo il Muro

Avvenire, 12 luglio 2019

Una passeggiata lungo la Karl-Marx-Allee, nel cuore di quella che un tempo fu Berlino est, dà ancora la sensazione di trovarsi in una città sovietica. Tutto intorno restano ben visibili i segni dell’urbanistica socialista. Il viale scelto come vetrina di rappresentanza del regime ospitò anche la grande parata commemorativa del quarantennale della Repubblica Democratica tedesca, il 7 ottobre 1989. Quel giorno niente lasciava immaginare che il Muro sarebbe stato abbattuto appena un mese dopo. Adesso la prima cosa che si nota è l’enorme palazzo di cemento della Haus der Statistik. Ultimata nel 1970, ospitava la sede degli uffici statistici della Repubblica democratica tedesca ma i tre piani più alti erano riservati alla Stasi, la temutissima organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania est che teneva sotto stretto controllo i propri cittadini. Sulla facciata dell’edificio – in disuso da anni – troneggia a caratteri rossi la gigantesca scritta “Stop wars”. Non è una delle tante installazioni artistiche disseminate per la città ma un monito lanciato da chi ha visto la fine della Seconda guerra mondiale solo alla fine del ‘900. Nonostante siano passati trent’anni dal crollo del Muro, Berlino è ancora una città in costante cambiamento, che cerca di metabolizzare il suo doloroso e ingombrante passato anche attraverso un’incessante mutazione urbanistica. Alcuni simboli di quella distopia orwelliana che si materializzò nella Germania est sono rimasti al loro posto, come la maestosa Fernsehturm di Alexanderplatz, l’antenna televisiva alta 368 metri che il regime fece costruire nel 1969 per far credere di essere all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e architettonico. Da tempo i berlinesi l’hanno ribattezzata “la vendetta del Papa”, perché nei giorni di sole la sfera metallica della torre crea uno strano gioco di luci che lascia intravedere una croce. Quel presunto segno divino non piacque affatto ai funzionari del regime socialista, che avevano messo all’indice ogni religione e distrutto i luoghi di culto in favore dell’ateismo universale. Persino il presidente statunitense Ronald Reagan, in un discorso pronunciato nel 1987 di fronte alla porta di Brandeburgo, citò l’aneddoto spiegando che “a Berlino i simboli di pace e di culto, non possono essere soppressi”.
Oggi nella capitale tedesca l’arte si è presa la rivincita definitiva di fronte all’orrore della guerra, della dittatura e della privazione dei più elementari diritti umani. All’angolo tra Friedrichstrasse e Zimmerstrasse, all’altezza del Checkpoint Charlie, si trova l’installazione dell’artista Yadegar Asisi, una costruzione cilindrica d’acciaio che racconta la vita quotidiana nella città divisa. Il concetto centrale dell’opera è la capacità delle persone di adattarsi alle condizioni più difficili pur di cercare di condurre una vita normale. Per anni la geometria della Guerra fredda divise strade e intere famiglie. La mattina del 13 agosto 1961 i berlinesi dell’est si svegliarono circondati da una barriera di mattoni sormontata dal filo spinato, issata per impedire le sempre più frequenti fughe nell’ovest. Per costruire il Muro era bastata una sola notte. Nei giorni successivi fu rinforzato con il cemento armato e alzato fino a cinque metri. Tutto intorno, mine e congegni d’allarme bloccavano i tentativi di fuga. Ogni forma di comunicazione fu resa impossibile: chi provava a spostarsi da una parte all’altra rischiava la vita. Per buttarlo giù fu necessario attendere ventotto anni e il crollo dell’Impero sovietico. Ma nel frattempo il Muro aveva fatto oltre un centinaio di vittime. L’ultima fu il ventenne Chris Gueffroy, abbattuto dai proiettili delle guardie di frontiera pochi mesi prima di quel fatidico 9 novembre mentre tentava di scappare in Occidente. Ai Mauertoten (le morti causate dal Muro) è dedicato il “Parlamento degli alberi contro la violenza e la guerra”, il luogo commemorativo ideato dall’artista tedesco Ben Wagin nella zona dell’ex striscia di confine, vicino al Reichstag. Tra i quartieri un tempi divisi di Friedrichshain e Kreuzberg si trova invece la “East Side Gallery”, una grandiosa galleria d’arte a cielo aperto. Sul più lungo pezzo di muro tuttora in piedi, esteso per circa un chilometro e mezzo, è stato creato negli anni un straordinario memoriale alla libertà composto da centosei murales realizzati da artisti di tutto il mondo. Tra i graffiti presenti – tutti incentrati sul tema della pace e della fine della Guerra fredda – i più noti sono quello della Trabant che sfonda il Muro e quello che riproduce il famoso “bacio fraterno” del 1979 fra i due leader comunisti Erich Honecker e Leonid Brežnev. Proprio qui, quasi per un curioso contrappasso storico, nel 2013 i berlinesi scesero in strada per protestare contro un colosso immobiliare che voleva abbattere una parte di muro per far spazio a nuove costruzioni. Dopo essere stato per tanti anni sinonimo di morte e negazione della libertà, oggi ciò che resta del Muro di Berlino è diventato un simbolo da difendere e preservare per le nuove generazioni. Non a caso proprio quest’anno, nel trentennale della caduta, il governo cittadino ha stanziato dodici milioni di euro per il restauro delle parti conservate, dei percorsi commemorativi e delle iniziative dedicate alla memoria. Quella barriera lunga oltre 162 chilometri, oggi riflessa sul selciato nella scritta “Berliner Mauerweg”, è diventata una grande attrazione turistica. Lo confermano le schiere di visitatori che si radunano ogni giorno sulla Bernauer Strasse, in un quartiere che vide molte case divise in due tra est e ovest, e dove dal 2011 si trova il Memoriale del Muro, una mostra multimediale che soltanto l’anno scorso è stata visitata da oltre un milione e 100mila persone.
RM