Cento anni senza Michael Collins

Avvenire, 21 agosto 2022

L’imboscata avvenne nella tarda serata del 22 agosto 1922, nel cuore più profondo della contea di Cork, Irlanda meridionale. Il convoglio sul quale stava viaggiando il generale Michael Collins, comandante in capo dell’esercito irlandese, trovò la strada bloccata e fu costretto a fermarsi, diventando un facile bersaglio per i cecchini appostati sulle alture. Il silenzio che circondava la ripida gola di Béal na mBláth fu rotto all’improvviso da una pioggia di spari. Collins fu colpito più volte e morì quella notte stessa, assassinato – proprio come Gandhi – dal fuoco dei suoi connazionali, da uomini che fino a poco tempo prima l’avevano osannato come un leader e un eroe nazionale. Continua a leggere “Cento anni senza Michael Collins”

Addio a Boris Pahor, l’ultima memoria del ‘900

Avvenire, 31 maggio 2022

Il tempo trascorso nei campi di concentramento e la fame patita da bambino l’avevano reso quasi immortale. Invece se n’è andato anche lui, spegnendosi nelle prime ore di ieri nella sua casa che da Trieste porta al Carso, affacciata sul blu dell’Adriatico, dopo una vecchiaia che sembrava non finire mai. Nell’agosto prossimo avrebbe compiuto 109 anni. Nessuno come Boris Pahor ha solcato gli ultimi due secoli della storia europea attraversando confini fisici e spirituali, e riuscendo a dilatare la memoria del ‘900 fino ai giorni nostri.
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Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale

(Raffaele Salinari, da Il Manifesto del 7 luglio 2021)

Ci ha lasciato Angelo Del Boca, la coscienza critica del colonialismo degli «italiani brava gente». Nato a Novara il 23 maggio del 1925; il padre aveva combattuto come fante nella prima battaglia dell’Isonzo durante la Grande Guerra e dunque già da piccolissimo si era dovuto confrontare con gli interrogativi che immancabilmente attraversano quanti hanno vissuto, più o meno direttamente, un’esperienza così traumatica. Nei libri autobiografici, in particolare in quelli che ricordano la sua esperienza partigiana, il ruolo testimoniale del padre e le ombre gettate sul suo mondo giovanile dalla Grande Guerra, diventano centrali nella formazione di una sensibilità verso i processi storici in generale e quelli coloniali in particolare. Continua a leggere “Del Boca, la cattiva coscienza dell’Italia coloniale”

Jovan Divjak: eroe di guerra, costruttore di pace, uomo giusto

Avvenire, 9 aprile 2021

“Non chiamatemi generale, quelli sono tutti all’Aja”: l’umorismo, la modestia e la profonda umanità avevano reso il serbo Jovan Divjak un uomo popolarissimo nella sua Sarajevo, la città che aveva provato a difendere dal più lungo assedio del Novecento. Scomparso ieri all’età di 84 anni dopo una lunga malattia, Divjak è stato un soldato ma soprattutto un costruttore di pace. Continua a leggere “Jovan Divjak: eroe di guerra, costruttore di pace, uomo giusto”

“Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord”

Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2020

Per salvare la memoria del più lungo conflitto europeo del ‘900 Malcolm Sutton si è sobbarcato da solo un’opera titanica, estenuante, simile a quelle dei monaci del Medioevo. Ha trascorso anni nelle biblioteche di Belfast, scandagliando meticolosamente i giornali locali, incrociando informazioni, numeri e dettagli. In alcuni casi ha raccolto anche testimonianze dirette e atti processuali. Infine ha compilato un elenco completo e definitivo delle circa 3500 vittime del conflitto in Irlanda del Nord: nomi, volti, storie e una breve descrizione delle circostanze delle morti suddivise per età, status, appartenenza confessionale e area geografica. Ma la cosa forse più sorprendente è che abbia portato a termine un’impresa simile in modo del tutto volontario, senza alcun aiuto o sostegno economico, in un’epoca in cui ancora non esistevano né Internet, né la posta elettronica. Continua a leggere ““Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord””

Sabra e Shatila: ce lo dissero le mosche

di Robert Fisk – settembre 1982

Robert Fisk, morto ieri all’età di 74 anni, era probabilmente il più grande reporter di guerra vivente. Quello che segue è il celebre reportage che scrisse dal campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, dopo il massacro del 1982.

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Continua a leggere “Sabra e Shatila: ce lo dissero le mosche”

La Scozia saluta il suo “patriota”

Avvenire, 1 novembre 2020

“Alba Gu Bràth” (“Scozia per sempre”): fino all’ultimo dei suoi giorni Séan Connery ha portato con orgoglio la scritta che si era tatuato sul braccio da ragazzino, quand’era solo un cadetto della Marina britannica. Quello dell’indomito indipendentista è il ruolo che ha interpretato con maggior convinzione in tutta la sua lunga e straordinaria carriera. Salvo rifiutarsi di partecipare al film più filoscozzese di sempre, Braveheart di e con Mel Gibson del 1995. La motivazione ufficiale fu che era già impegnato nelle riprese di un’altra pellicola ma di certo non gli dispiacque più di tanto lasciare a Patrick McGoohan il ruolo che gli avevano offerto, quello di Edoardo I Plantageneto, il re britannico noto come “il martello degli scozzesi”. Continua a leggere “La Scozia saluta il suo “patriota””

Addio a padre Des Wilson

Avvenire, 7 novembre 2019

Padre Desmond Wilson se n’è andato per sempre il 5 novembre scorso, all’età di 94 anni, gettando nel lutto i quartiere cattolico-nazionalista di Ballymurphy, a Belfast. Per oltre mezzo secolo era stato il sacerdote di una delle aree più derelitte della città, e durante il conflitto in Irlanda del Nord si era immedesimato totalmente nel desiderio di riscatto della popolazione svolgendo un ruolo cruciale nel processo di pace. Fin dagli anni ‘60 era stato in prima fila nella denuncia delle violazioni dei diritti umani, diventando una delle voci più autorevoli della “Chiesa dei poveri” del suo paese. Nel 1972 aveva reso pubblico un documento – poi sottoscritto da decine di religiosi – nel quale denunciava i gravi soprusi dell’esercito britannico a danno dei civili. In quegli stessi anni fondò poi la Comunità di Springhill, per contrastare l’analfabetismo e la disoccupazione dei ghetti cattolici. Non ebbe mai paura di assumere posizioni scomode, arrivando talvolta anche a sfidare le gerarchie ecclesiastiche, e attaccando ripetutamente Londra “per aver creato in Irlanda del Nord – come scrisse – il sistema di potere più antidemocratico di tutta l’Europa”.
Gli anni ‘80 lo videro protagonista della svolta: insieme al padre redentorista Alec Reid promosse i colloqui segreti che riuscirono finalmente a far dialogare i paramilitari delle opposte fazioni, favorendo il primo storico avvicinamento tra due mondi fino ad allora inconciliabili. Il suo silenzioso ma incessante lavoro di tessitura convinse infine la leadership dell’IRA a cessare la lotta armata, finché i suoi sforzi non furono coronati nel cessate il fuoco del 1994 che aprì la strada all’Accordo del Venerdì Santo, quattro anni più tardi. Gerry Adams, storico presidente del Sinn Féin, l’ha definito “una leggenda vivente”, spiegando che senza di lui non sarebbe stato possibile alcun processo di pace. In estate Father Des aveva festeggiato i settant’anni di sacerdozio, quasi tutti trascorsi alla parrocchia del Corpus Christi di Ballymurphy, che domattina ospiterà le sue esequie.
RM

La voce di Darwish risuona ancora sulla collina di Ramallah

Avvenire, 31 agosto 2019

Mahmoud Darwish riposa sulla collina più alta di Ramallah. Bisogna salire fin lassù, in un punto che domina i nuovi quartieri e i luoghi di culto della città palestinese, per confrontarsi con il lascito del poeta che diceva di avere dentro di sé un milione di usignoli per cantare la propria canzone di lotta. Darwish fu sepolto qua nel 2008, con tutti gli onori, e oggi questo è uno dei luoghi più amati da un popolo che considera da sempre la cultura anche uno strumento di riscatto politico. Al bardo nazionale palestinese sono stati dedicati un monumento e un museo celebrativo ma anche un teatro e uno spazio per le arti e la creatività. Colpisce la quantità di giovani che ogni giorno si arrampicano sull’imponente scalinata dell’Al-Birweh park per rendere omaggio al suo mausoleo, due grandi pietre rettangolari circondate da un giardino rigoglioso, ai cui lati si trovano un teatro e un piccolo museo, opera dell’architetto palestinese Jafar Tukan. La mostra permanente all’interno contiene numerosi manoscritti originali del poeta – tra cui spicca la Dichiarazione d’indipendenza che Darwish stesso scrisse nel 1988 – gli oggetti personali, le foto, i documenti. Piccoli frammenti della sua vita che ce lo fanno sentire più vicino, come il biglietto aereo per il suo ultimo viaggio terreno, a Houston, dove si recò per curarsi nell’estate del 2008, e si spense in seguito alle complicazioni post-operatorie di un delicato intervento al cuore. Le pareti del museo sono tappezzate dai suoi versi e dalle copertine dei suoi libri – tradotti in decine di lingue – mentre la sua scrivania vuota, nella penombra della sala, sembra quasi attendere il suo ritorno. I numerosi premi che si aggiudicò durante la carriera sono stati disposti invece al lato della scrivania, in un’installazione realizzata con l’argilla di Al-Birweh, il villaggio della Galilea dove nacque nel 1941. Considerato uno dei più grandi poeti contemporanei in lingua araba, Mahmoud Darwish ha raccontato l’orrore della guerra, dell’occupazione e dell’esilio vissuto dal popolo palestinese riuscendo a trasformare la causa di una nazione in un simbolo universale di lotta per la libertà. Il suo villaggio natale fu raso al suolo durante la guerra del 1948, quando lui era ancora un bambino. Per scampare alle persecuzioni sioniste fuggì in Libano con la famiglia e poté tornare in patria – divenuta nel frattempo terra dello stato d’Israele – solo clandestinamente. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese divenne uno dei capisaldi della sua produzione artistica. Nel 1960, all’età di diciannove anni, pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza ali. Il governo israeliano lo tenne a lungo sotto stretta sorveglianza, lo arrestò più volte (spesso solo per aver recitato poesie in pubblico) e lo costrinse infine all’esilio, ma non riuscì a impedirgli di scrivere ben ventisei volumi di poesia e undici di prosa. “Potete legarmi mani e piedi / togliermi il quaderno e le sigarette / riempirmi la bocca di terra: – scrisse – la poesia è sangue del mio cuore vivo / sale del mio pane, luce nei miei occhi”. Non avendo il permesso di vivere nella propria patria vagò a lungo, da esule, vivendo e lavorando in Unione Sovietica, in Egitto, in Libano, in Giordania, in Francia. Poté ritornare nel suo paese soltanto nel 1996, dopo ventisei anni di esilio, per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita. Tutti i tentativi di inserirlo nei curriculum obbligatori delle scuole israeliane sono falliti miseramente di fronte all’intransigenza della politica. Mahmoud Darwish continua a essere una voce scomoda anche da morto. Tre anni fa una nota emittente radiofonica israeliana mandò in onda un approfondimento sulla sua opera e lesse in diretta una delle sue poesie più famose, scatenando le ire del governo di Israele. Il ministro della difesa, Avigdor Lieberman, non esitò a paragonare i versi del poeta palestinese al Mein Kampf di Adolf Hitler. La poesia incriminata era “Carta d’identità”, uno struggente atto d’amore per la sua terra.
RM