Avvenire, 13.6.2017
“E il ponte continuava a stare, tale quale era da secoli, con la sua eterna giovinezza di perfetto disegno e di buona e grande opera umana, una di quelle opere che non conoscono vecchiaia e trasformazioni e che, almeno così sembra, non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo”. Chissà cos’avrebbe pensato Ivo Andrić se avesse visto il meraviglioso “ponte vecchio” della cittadina bosniaca di Višegrad trasfigurato in un gigantesco patibolo, in uno dei luoghi dell’orrore del conflitto balcanico degli anni ’90. Quel gioiello architettonico in pietra bianca, costruito nel XVI secolo per volere del gran visir Mehmed Pascià Sokolović e oggi considerato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, fece da sfondo al suo capolavoro assoluto, Il ponte sulla Drina, nel quale aveva narrato tre secoli di storia di una Bosnia crocevia di popoli e religioni, un mosaico di vicende corali e private costruite intorno alle sue undici arcate, “sotto le quali rumoreggia il fiume verde, rapido e profondo”. La sua narrazione, scandita dal ritmo delle rivolte e delle guerre intercorse nei secoli tra serbi, turchi e austriaci, si era interrotta bruscamente nel fatale 1914. “Se Dio ha tolto la sua mano da questa sventurata cittadina sulla Drina – aveva scritto – l’ha tolta forse anche da tutto il mondo e da tutta la terra che si trova sotto il cielo? Costoro non continueranno in eterno a comportarsi così”. Nel 1961, anche grazie a quel romanzo straordinario, Andrić era passato alla storia diventando il primo e finora l’unico vincitore del premio Nobel per la letteratura dell’area ex-jugoslava. Appena tre decenni più tardi le acque della Drina, a lungo simbolo di convivenza tra i popoli, si sarebbero trasformate nella più grande fossa comune di tutta la Bosnia. Višegrad, a causa della sua posizione strategica, divenne una delle tante città-martiri di quel conflitto: l’inferno cominciò esattamente venticinque anni fa, quando l’esercito regolare jugoslavo, dopo averla bombardata, l’abbandonò nelle mani del gruppo paramilitare delle Aquile bianche guidato da due cugini, Milan e Sredoje Lukic, che vi avrebbero instaurato un lungo regime di terrore e morte. Quelle vicende – che rappresentarono la prova generale del genocidio di Srebrenica e di altri luoghi tristemente passati alla storia in quegli anni – sono state ricostruite nel dettaglio dal giornalista Luca Leone in uno splendido reportage dal titolo Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio (Infinito edizioni). I rastrellamenti, le deportazioni, i massacri e gli stupri di massa iniziarono alla fine di maggio del 1992 con un ritmo e una brutalità mai visti prima d’allora, che culminarono il 14 giugno nel rogo della casa di Pionirska Ulica, dove gli ultranazionalisti serbi rinchiusero decine di musulmani, perlopiù donne, vecchi e bambini, barricarono porte e finestre e poi appiccarono il fuoco. Sessantasei persone morirono bruciate vive, la più anziana aveva 75 anni, la più giovane appena due giorni. Mentre le fiamme si levavano nel cielo i cugini Lukic e i loro uomini aspettavano fuori, pronti a falciare a colpi di fucile chi tentava di scappare. Pochi giorni dopo lo stesso tragico destino toccò a un’altra settantina di musulmani, in un’altra casa alla periferia della città. Nel breve volgere di alcune settimane la pulizia etnica ai danni dei musulmani bosniaci (che costituivano il 63 per cento della popolazione locale) portò alla morte o alla scomparsa di almeno tremila persone. Molte vittime avrebbero trovato l’eterno riposo nelle acque della Drina: i carnefici usavano proprio quel ponte “voluto da Dio” per sgozzarle e poi liberarsi dei cadaveri. I corpi gettati nel fiume erano così tanti che già alla fine di giugno il direttore della diga di Višegrad fu costretto a inviare una comunicazione ufficiale chiedendo di rallentarne il flusso, altrimenti le turbine della diga rischiavano di incepparsi. Quelle stesse acque che oggi dividono la Bosnia dalla Serbia e che per oltre quattro secoli erano state confine naturale tra due mondi, linea di demarcazione tra l’Impero Romano d’Oriente e d’Occidente, si tramutarono in un’enorme cimitero, mentre lo stupro etnico divenne una pratica comune in luoghi come il Vilina Vlas, il terrificante albergo trasformato in un lager, dove circa duecento donne e bambine furono sottoposte a stupri di massa prima di essere uccise.
Luca Leone, già autore di opere fondamentali sul dopoguerra bosniaco, raccoglie in questo libro le testimonianze dirette dei sopravvissuti e di coloro che in questi anni si sono battuti – spesso invano – per ottenere giustizia. Oltre alla minuziosa ricostruzione di un orrore che può risultare inconcepibile per una normale mente umana, quello che colpisce maggiormente del suo racconto è la situazione nella quale si trova oggi Višegrad, una città “sonnolenta e omertosa”, dove le istituzioni cercano per prime di nascondere ciò che è accaduto. Un luogo che ha visto la maggior percentuale di donne e bambini uccisi in proporzione alla popolazione di tutta la Bosnia, che tuttora si regge su un equilibrio solo apparente, dove il revisionismo e il negazionismo hanno raggiunto livelli parossistici. Appena tre anni fa, tra lo sgomento e la rabbia dei sopravvissuti, un’ordinanza comunale ha imposto la rimozione della parola “genocidio” dal monumento che ricorda le vittime nel cimitero musulmano della città. Qualche anno prima Bakira Hasecic, fondatrice dell’associazione delle donne vittime di stupro etnico, aveva messo sul ponte una targa in ricordo delle tremila persone uccise e scomparse, ma qualcuno l’ha subito rimossa. Nella geografia del genocidio bosniaco Višegrad rappresenta l’inizio e Srebrenica la fine, ma nel primo caso nessun tribunale ha ancora riconosciuto ufficialmente il genocidio perché – spiega Leone – “coloro che non sono stati ammazzati sono stati deportati oppure indotti a scappare e a non ritornare più, modificando per sempre la composizione demografica della città e di tutto il territorio circostante”. Di conseguenza, il percorso verso la giustizia appare ancora assai lungo e tortuoso: Milan Lukic, considerato uno dei più atroci criminali di guerra dell’epoca, ribattezzato “Lucifero” dagli atti del Tribunale dell’Aja, è stato condannato all’ergastolo solo nel 2009, suo cugino Sredoje Lukic a 27 anni di carcere mentre i pochi altri condannati hanno beneficiato di sconti di pena e sono già tornati a vivere in città. Dove una parte della popolazione continua a considerarli degli eroi.
RM