A Sarajevo il museo dell’infanzia ferita dalla guerra

Avvenire, 8 giugno 2022

Una boccetta di profumo, un fermacapelli colorato, un braccialetto di stoffa. È tutto quello che la piccola Naida è riuscita a conservare della sua amica Tina. I primi mesi dell’assedio di Sarajevo li avevano trascorsi insieme nello stesso palazzo, cercando di nascondere la paura dietro la voglia di vivere dei loro quindici anni. Fino a quella mattina di settembre del 1992, quando Tina fu colpita dalle schegge di una granata che esplose proprio dentro l’androne del palazzo. Naida ha conservato fino ai giorni nostri quei tre piccoli oggetti che le ricordano la loro grande amicizia e le serate trascorse nel seminterrato dell’edificio dove avevano allestito una specie di discoteca usando la batteria di un’automobile. Per Jasmin invece, il ricordo di quella guerra si materializza ancora oggi di fronte ai jeans indossati dal suo fratellino Irfan, che fu ucciso da un cecchino davanti a casa. “Amava il canto e aveva appena vinto un concorso musicale per bambini. Fu sepolto proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto ritirare quel premio”, spiega il racconto che accompagna quel paio di jeans, oggi esposto in una teca di vetro illuminata. Continua a leggere “A Sarajevo il museo dell’infanzia ferita dalla guerra”

Bosnia, il sangue dimenticato dei cronisti di guerra

Avvenire, 1 aprile 2022

Sarajevo, marzo 1996
foto di Mario Boccia

Il primo giornalista che cadde nel conflitto dell’ex Jugoslavia si chiamava Egon Scotland. Era un reporter tedesco di 43 anni, inviato del periodico Sueddeutsche Zeitung. Fu colpito dai paramilitari serbi in Croazia, il 26 luglio 1991, mentre cercava di raccontare la fuga dei civili di fronte ai primi sussulti dell’orrore balcanico. Finora è anche l’unico giornalista assassinato in quegli anni per il quale sia stata fatta giustizia, condannando i responsabili. Le guerre nei Balcani sono state tra le più letali della storia per i giornalisti: alcuni divennero un “danno collaterale” cadendo in attacchi indiscriminati contro i civili, oppure furono colpiti dai cecchini mentre raccontavano gli scontri in prima linea, altri sono stati uccisi nelle strade delle loro città, fuori dalle loro case o nei loro stessi uffici. Continua a leggere “Bosnia, il sangue dimenticato dei cronisti di guerra”

Quei tedeschi che combatterono con i partigiani

Avvenire, 9 novembre 2021

Rudolf Jacobs

Uno dei più recenti filoni della ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale è quello che indaga la presenza dei disertori tedeschi nella Resistenza. Ne avevamo parlato nel luglio scorso, presentando il libro collettaneo Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana curato da due storici dell’università di Bologna, Mirco Carrattieri e Iara Meloni. I saggi contenuti al suo interno fanno il punto su un fenomeno ancora assai poco indagato, partendo dall’analisi delle carte inedite dei processi per diserzione celebrati dai tribunali militari in Germania. Colmare questa importante lacuna storiografica consentirebbe di rispondere a un’esigenza civile: quella di evidenziare la dimensione internazionale della Resistenza smascherando una volta per tutte la tendenza tutta italiana all’auto-assoluzione, che contrappone il falso mito del “buon italiano” a quello – altrettanto artificioso – del “cattivo tedesco”. Continua a leggere “Quei tedeschi che combatterono con i partigiani”

Il tragico volo del poeta antifascista Lauro de Bosis

Avvenire, 5 settembre 2021

Una sera d’ottobre di novant’anni fa Icaro volò su Roma e poi sparì per sempre. Volò per gridare la sua rabbia contro il regime fascista, per risvegliare le coscienze e per lanciare un appello al re, affinché rispettasse il “patto sacro” tra la corona e gli italiani. Era partito dalla Costa Azzurra su un velivolo da turismo e dopo aver violato la sicurezza area della capitale aveva fatto piovere dal cielo 400mila volantini antifascisti inneggianti alla libertà che suonavano come una dichiarazione di guerra contro Mussolini. Ma lungo la rotta del ritorno il piccolo aeroplano, forse rimasto a corto di carburante, era scomparso in mare senza lasciare traccia del suo pilota. Lauro de Bosis, il “poeta volante”, una delle figure più romantiche e dimenticate del primo antifascismo aveva suggellato con quel volo tragico una lotta clandestina combattuta a colpi di penna, di ideali e di valori. Quello che poteva sembrare un atto d’ingenuo volontarismo era stato in realtà un gesto di grande coraggio, compiuto negli anni in cui venivano promulgate le leggi contro la libertà di espressione e di stampa, e le voci contrarie al regime erano costrette al silenzio. Continua a leggere “Il tragico volo del poeta antifascista Lauro de Bosis”

Quando i nazisti entrarono nella Resistenza

Avvenire, 21 luglio 2021

Ci sono voluti più di settant’anni per riabilitare i soldati tedeschi che si ribellarono all’idea distorta di patria inculcata dal nazismo. Coloro che in nome di valori universali seppero dire “no” agli orrori del Terzo Reich e si fecero guidare dalla coscienza verso una scelta rischiosa, spesso mortale: abbandonare la divisa e passare dalla parte del nemico, trasformando il proprio dissenso in resistenza attiva. Per la Germania è stata una delle pagine del passato più difficili da affrontare. Fino a poco tempo fa quelli che avevano trovato nella diserzione l’unica scelta morale possibile erano stati relegati nell’oblio oppure erano rimasti sepolti sotto il peso di uno stigma quasi incancellabile. Continua a leggere “Quando i nazisti entrarono nella Resistenza”

Kjasif, testimone e vittima dei crimini serbi

Avvenire, 12 settembre 2020

“Temo che stiano venendo a prendere anche me. Eccoli, stanno arrivando, sento i loro passi. Temo che questa sia la mia ultima corrispondenza…”. Si conclude con queste poche righe strazianti l’ultimo manoscritto che il giornalista bosniaco Kjasif Smajlovic riuscì a trasmettere la mattina del 9 aprile 1992 alla redazione del quotidiano Oslobodenje dalla sua città, Zvornik, stretta sotto assedio dalle truppe irregolari serbe. Sembra di sentirli, i calci alla porta del suo ufficio, le grida e gli improperi, le inutili richieste d’aiuto e di pietà, a precedere i colpi, gli spari, il sangue. Sembra di rivedere al rallentatore gli ultimi e interminabili istanti di vita di un uomo che aveva deciso di non scappare di fronte alla violenta aggressione del suo paese. Avrebbe potuto andarsene, come avevano fatto molti altri. Ma scelse di restare. Fino all’ultimo rimase nel suo ufficio per inviare corrispondenze alla redazione di Sarajevo. Continua a leggere “Kjasif, testimone e vittima dei crimini serbi”

Flores contesta Pansa. “Per riscrivere la Resistenza servono prove”

di Massimo Rebotti

Lo storico Marcello Flores è direttore scientifico degli Istituti per la storia della Resistenza. Quella storia che secondo Giampaolo Pansa, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere, andrebbe «riscritta» perché «falsa». Flores ha letto immediatamente l’ultimo libro di Pansa, Uccidete il comandante bianco, sulla morte di Aldo Gastaldi, l’unico comandante partigiano non comunista in Liguria.
Cosa ne pensa?
«È un libro disonesto dal punto di vista storico, non vengono indicate le fonti. Pansa stesso scrive che “molti passaggi sono ideati da me”. Questo lo rende più simile a un romanzo».
L’autore ha accusato voi storici di avere mentito. Si è sentito punto sul vivo?
«Come si può dire a un’intera categoria di persone che mente? È come se io dicessi che tutti i giornalisti mentono. Pansa è stato un grande giornalista, anni fa lo avevo anche invitato a confrontarci pubblicamente. Non volle».
Lo rifarebbe?
«Se si parla di storia, sono pronto. In questo libro, per esempio, scrive che il comandante “venne assassinato da un complotto politico”. Poi spiega di non avere elementi, che si tratta di una sua convinzione, che “c’erano delle voci”. Non si fa storia così. Io ho studiato i gulag, le vittime vere del comunismo. Le “voci” sono ipotesi di lavoro, poi si cercano i riscontri».
Ma vittime «vere» i comunisti italiani nel Dopoguerra ne hanno fatte.
«Certo. Pansa parla di 800 morti a Genova dopo la Liberazione. Finora risulta, anche da fonti dei fascisti di allora, che furono 2-300. Un numero enorme, intendiamoci, ma perché dire 800? Enfatizzare è da narratori, non da storici».
Pansa pone anche un tema generale: la storia della Resistenza va riscritta.
«In generale riscrivere la storia è importante per ogni generazione. Ma il suo obiettivo polemico non esiste più da decenni. Ha in mente la narrazione che facevano i comunisti negli anni 50-60, ma sono ormai 40 anni che la storia della Resistenza viene “riscritta”».
Sostiene che «il mito» non ci sia più?
«Mi sono laureato nel 1970 proprio in polemica con quella narrazione comunista. Ma l’idea da cui muove Pansa, che i comunisti nel Dopoguerra fossero pronti a un colpo di Stato, è fondata sul nulla dal punto di vista storiografico».
Sul nulla?
«Sì. Avrebbero dovuto disobbedire a Stalin che disse chiaramente al Pci — ci sono fior di studi in merito — di non fare come in Grecia. Anche nelle reazioni dopo l’attentato a Togliatti non c’era niente di organizzato. Qualche comunista, certo, auspicava una presa del potere violenta, ma nessuno dei dirigenti pensava che si dovesse o si potesse fare».
Difende la storia per come è stata «scritta» finora?
«Questa idea che la Resistenza non è mai come ce la raccontano, che è stata una guerra tra italiani, buoni e cattivi in entrambi gli schieramenti, con la maggioranza interessata solo a farsi gli affari suoi, ecco, questa idea di Pansa è profondamente pessimista sulla coscienza civile degli italiani: una sorta di disfattismo morale. Il contrario di ciò che la Resistenza fu».

(da Corriere.it)

Un ricordo di Norma Parenti su Radio 3

Norma Parenti è una delle figure femminili più straordinarie della Resistenza italiana, insignita della medaglia d’oro al valor militare. Visse a Massa Marittima, in provincia di Grosseto, una delle prime aree dove venne organizzata la resistenza armata contro gli occupanti nazisti: è proprio qui che il 23 giugno 1944 i nazifascisti in ritirata consumarono la loro vendetta contro di lei, uccidendola la sera prima dell’arrivo degli Alleati.
Ho curato una puntata di Wikiradio dedicata a lei, che è andata in onda su Radio Rai 3 nell’anniversario della sua morte

Fame di ideali

BobbySands375_300“Se morirò, Dio capirà”: è quanto disse Bobby Sands al giornalista dell’Irish Times Brendan Ó Cathaoir che andò a intervistarlo in carcere il 3 marzo del 1981, il terzo giorno dello sciopero della fame che l’avrebbe portato alla morte due mesi più tardi. Appena 27enne, rinchiuso nel braccio di massima sicurezza di Long Kesh, a Belfast, dove stava scontando una pena a quattordici anni per possesso di arma da fuoco, Sands chiarì in quell’occasione di essere disposto a morire per i suoi ideali. A qualunque costo. Non servì a niente neanche l’appello di papa Woytjla, che tramite il vescovo John Magee gli recapitò un messaggio chiedendogli d’interrompere il digiuno. Quello sciopero che attirò l’attenzione del mondo intero culminò il 5 maggio di quell’anno con la fine di Sands ma proseguì anche nei mesi successivi con la morte di altri nove detenuti irlandesi, cambiando per sempre la natura del conflitto anglo-irlandese, avviandolo verso un lungo ma irreversibile processo conclusivo. Da quel momento in poi, Bobby Sands e gli altri martiri del ‘blocco H’ furono trasfigurati in icone della lotta di liberazione irlandese, in parte disumanizzati per divenire simboli universali di quel terribile scontro carcerario. Esattamente 35 anni più tardi, ormai trascorso un periodo di tempo sufficiente per garantire il giusto distacco emotivo da quei fatti, è uscito in Gran Bretagna 66 Days, uno splendido documentario firmato dal regista Brendan J. Byrne che riesce per la prima volta a raccontare Bobby Sands per immagini anche attraverso un uso innovativo dei diari nei quali annotò le ultime memorie dalla prigione. Prima che le sue condizioni di salute iniziassero ad aggravarsi in modo irreversibile, il rivoluzionario-poeta raccontò i primi diciassette giorni del suo sciopero della fame scrivendo in clandestinità, su minuscoli pezzi di carta igienica, alcune delle pagine più toccanti della letteratura carceraria del ‘900. “Sto qui, sulla soglia di un altro mondo palpitante. Possa Dio avere pietà della mia anima”, scrisse all’inizio del suo diario, “Sono pieno di tristezza perché so di aver spezzato il cuore della mia povera madre e perché la mia famiglia è stata colpita da un’angoscia insopportabile. Ma ho considerato tutte le possibilità e ho cercato con tutti i mezzi di evitare ciò che è divenuto inevitabile: io e i miei compagni vi siamo stati costretti da quattro anni e mezzo di vera e propria barbarie. Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra”. Costruito come un conto alla rovescia verso la fine, 66 Days scorre giorno per giorno gli oltre due mesi di autoprivazione del cibo che condussero Sands alla morte. Lo fa alternando in modo magistrale una drammatica ricostruzione scenica interpretata dall’attore originario di Belfast Martin McCann, uno straziante repertorio iconografico e una serie di interviste non solo agli amici e agli ex compagni di prigionia di Sands ma anche ad alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex secondino di Long Kesh Dessie Waterworth e il giornalista Charles Moore, biografo di Margaret Thatcher. Trovando un giusto equilibrio tra le voci repubblicane e l’analisi storica, 66 Days ha dunque il grande merito di riuscire per la prima volta a inquadrare quei fatti in una prospettiva storica. Non ci erano riuscite, per la loro stessa natura, due importanti opere di finzione realizzate in passato, il recente Hunger – interpretato da Michael Fassbender con la regia di Steve McQueen, premiato a Cannes nel 2008 – e Some Mother’s Son (La scelta d’amore) di Terry George, del 1996. Rispetto a queste due pur intense prove cinematografiche, il lavoro di Byrne rende finalmente giustizia appieno alla figura di Sands e alla sua lotta per la libertà.
Nato nel 1954 alla periferia di Belfast e costretto giovanissimo, insieme alla sua famiglia, ad abbandonare la propria abitazione a causa delle violenze e degli attacchi settari contro la comunità cattolico-nazionalista dell’Irlanda del Nord, poi costretto ad abbandonare il lavoro per lo stesso motivo, si avvicina all’IRA appena diciottenne, nel 1972, durante l’anno più nero del conflitto angloirlandese. Quando finisce in carcere è un giovane volontario come tanti altri e niente fa presagire che di lì a poco, ristretto in un brutale regime carcerario, emergerà la sua statura di leader che lo porterà a guidare i compagni alla riscoperta delle loro tradizioni, della loro cultura, attraverso un percorso interiore che diventerà tutt’uno con la lotta carceraria, esprimendosi con l’arma nonviolenta e ancestrale del rifiuto del cibo, come gli antichi eroi gaelici. Durante lo sciopero, a poche settimane da una fine che appare ogni giorno sempre più ineluttabile, Sands viene eletto al parlamento di Westminster nel corso di una drammatica tornata elettorale suppletiva, che lo vede aggiudicarsi il seggio di Fermanagh South Tyrone con oltre trentaduemila preferenze. Ma neanche quello basta a salvargli la vita – poiché Londra non cede alle richieste dei prigionieri irlandesi – ma riesce invece a cambiare il corso della storia irlandese, portandola una volta per tutte verso una dinamica elettorale che arriverà infine a escludere l’uso delle armi. Il film di Byrne ricostruisce in modo esemplare quelle settimane drammatiche senza dimenticare che in quegli stessi giorni l’IRA uccise una giovane madre, Joanne Mathers, solo per aver contribuito alla campagna elettorale dell’avversario di Sands. I decenni trascorsi da allora hanno favorito un certo distacco ma non sono stati sufficienti a sopire del tutto le tensioni dell’epoca. Alcuni parlamentari unionisti-protestanti hanno contestato la concessione di fondi pubblici per la realizzazione del documentario nel quale colpisce, ancora una volta, l’assenza di alcune voci. Anche in questa occasione la famiglia di Sands si è infatti rifiutata di partecipare al progetto. La madre, le sorelle e il figlio Gerard, oggi quarantenne, non hanno voluto prendere parte a un lavoro orchestrato dal Bobby Sands Trust, la fondazione che detiene i diritti d’autore sugli scritti di Sands, e che loro accusano da tempo di agire con scarsa trasparenza e a scopo di lucro.
RM

(“Avvenire”, 28.8.2016)