Quei tedeschi che combatterono con i partigiani

Avvenire, 9 novembre 2021

Rudolf Jacobs

Uno dei più recenti filoni della ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale è quello che indaga la presenza dei disertori tedeschi nella Resistenza. Ne avevamo parlato nel luglio scorso, presentando il libro collettaneo Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana curato da due storici dell’università di Bologna, Mirco Carrattieri e Iara Meloni. I saggi contenuti al suo interno fanno il punto su un fenomeno ancora assai poco indagato, partendo dall’analisi delle carte inedite dei processi per diserzione celebrati dai tribunali militari in Germania. Colmare questa importante lacuna storiografica consentirebbe di rispondere a un’esigenza civile: quella di evidenziare la dimensione internazionale della Resistenza smascherando una volta per tutte la tendenza tutta italiana all’auto-assoluzione, che contrappone il falso mito del “buon italiano” a quello – altrettanto artificioso – del “cattivo tedesco”. Continua a leggere “Quei tedeschi che combatterono con i partigiani”

L’indifferenza di fronte alla Shoah

Avvenire, 30 settembre 2021

Con un romanzo commovente che ci costringe a interrogarci sulla nostra capacità di distogliere lo sguardo di fronte all’orrore, la scrittrice neozelandese Catherine Chidgey dimostra che esistono ancora modi originali per raccontare l’Olocausto attraverso la letteratura. Nel suo nuovo Vicinanza distante (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pagg. 464, euro 18) Chidgey utilizza tre narrazioni in prima persona per raccontare la storia di altrettanti personaggi i cui destini si intrecciano in una miscela di realtà e finzione che affronta questioni di fede e scienza, di disumanità e speranza con empatia e compassione. Continua a leggere “L’indifferenza di fronte alla Shoah”

Quei piccoli deportati riemersi dalla storia

Avvenire, 20 gennaio 2021

Solo in età adulta Jackie Y. scoprì di aver trascorso la sua prima infanzia in un campo di concentramento. La sua memoria infantile aveva cancellato tutto, spazzando via i ricordi dei suoi primi due anni di vita. I suoi genitori adottivi l’avevano cresciuto senza rivelargli mai le sue vere origini. Neanche un cenno a quanto accaduto durante la guerra. Quando decise di sposarsi, Jackie si mise a cercare la documentazione sulla sua madre biologica e scoprì che il suo vero nome era Jakob Jona Spiegel, era nato a Vienna nel 1942 ed era finito quasi subito nel campo di concentramento nazista di Theresienstadt. In Gran Bretagna l’avevano portato nel 1945 insieme a un gruppo di giovanissimi sopravvissuti all’Olocausto. Continua a leggere “Quei piccoli deportati riemersi dalla storia”

Sul web il più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo

Avvenire, 18 luglio 2020

Fino a poco tempo fa sembrava una sfida affascinante ma troppo velleitaria per poter essere realizzata in tempi brevi. Poi è arrivata la pandemia e nelle lunghe settimane di isolamento domestico migliaia di persone di tutto il mondo si sono fatte coinvolgere nel progetto che porterà alla completa digitalizzazione del più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo. Era iniziato tutto quasi per caso, all’inizio dell’anno, quando a un gruppo di studenti delle scuole superiori tedesche era stato chiesto di contribuire all’inserimento sul web dei dati degli Arolsen Archives, il cosiddetto “archivio della Shoah”, ovvero ciò che resta dell’ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio. Situato nella piccola cittadina tedesca di Bad Arolsen, l’archivio custodisce un patrimonio di oltre quaranta milioni di documenti sulla persecuzione nazista, il lavoro forzato e i sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. Continua a leggere “Sul web il più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo”

Le baracche di Dachau, laboratorio del Reich

Avvenire, 24 gennaio 2020

Dachau (Germania) – La memoria dell’orrore è in mezzo alle case, a un passo dal centro abitato della cittadina di Dachau, proprio come allora. I muri di cinta del campo di concentramento costeggiano la strada principale che in poco più di venti minuti porta a Monaco di Baviera. Il sentiero che percorriamo a piedi è lo stesso su cui venivano spinti i deportati all’arrivo, la Lagerstrasse, in fondo al quale si trova lo Jourhaus, l’edificio di ingresso principale che ospitava gli uffici amministrativi e di comando del campo. Superato il grande cancello in ferro battuto con la famigerata scritta “Arbeit macht frei” si accede al gigantesco piazzale delle adunate dove ogni giorno, mattino e sera, veniva effettuata la conta e si decideva la sorte dei prigionieri. Quello di Dachau fu il primo campo di concentramento nazista, l’unico che esistette per tutti i dodici anni del Terzo Reich. Heinrich Himmler, all’epoca comandante del presidio SS di Monaco, lo inaugurò il 22 marzo 1933, appena due mesi dopo la nomina a cancelliere di Adolf Hitler. Bastò riconvertire gli spazi di una precedente costruzione, un’ex fabbrica di munizioni in disuso della Prima guerra mondiale, installare torrette di controllo, piantare metri e metri di filo spinato. Fin dagli albori della dittatura Dachau divenne il modello e il centro d’addestramento per tutti gli altri campi di sterminio nazisti. Tra il 1936 e il 1938, sfruttando la manodopera degli stessi prigionieri, il campo fu ampliato fino ad assumere la sua forma definitiva. Al suo interno transitarono circa 200mila persone, oltre il venti percento delle quali – secondo i dati del museo di Dachau – vi persero la vita. Le storie di chi fu costretto a vivere e a morire qui dal 1933 al 1945 riprendono forma nel grande museo allestito all’interno dell’ex palazzo dell’economato, un edificio basso e lungo che costeggia il piazzale. Le sue pareti interne, screziate dal trascorrere dei decenni, sono rimaste intatte come se il tempo si fosse fermato. Lunghe file di visitatori e scolaresche percorrono queste stanze ogni giorno, confrontandosi con l’orrore, alla ricerca di una spiegazione introvabile all’interno della dimensione della razionalità umana. I primi ad arrivare al campo furono gli oppositori politici, seguiti dagli austriaci arrestati dopo l’annessione del loro paese. Poi vi furono imprigionati i rom, i sinti, i disabili, gli omosessuali e tutti coloro che il regime considerava soggetti indesiderabili. Ma a partire dalla fine del 1940 arrivarono in massa i religiosi: nel campo furono deportati 2579 tra preti, seminaristi e monaci cattolici, insieme a 141 pastori protestanti e preti ortodossi. Il Vaticano non poté impedire la loro deportazione ma riuscì almeno a farli mandare tutti insieme a Dachau. Oltre la metà di essi erano polacchi, il resto proveniva da ogni parte d’Europa: Francia, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Italia. Centinaia i tedeschi e gli austriaci. I nazisti li arrestarono perché si opponevano al programma di eutanasia, perché avevano partecipato alla Resistenza o erano anche soltanto sospettati di aver contribuito in qualche modo alla lotta antinazista. Molti vennero deportati semplicemente perché avevano osato condannare il regime dai pulpiti. Furono fin da subito isolati dagli altri prigionieri e alloggiati nella baracca 26, il cosiddetto “Pfarrerblock” (reparto dei preti), che oggi non esiste più. Soltanto due delle trentaquattro baracche che un tempo componevano il campo sono rimaste a testimoniare, fedelmente ricostruite, di fronte all’edificio del museo, sull’altro lato della piazza delle adunate. Le altre sono state rimosse lasciando però ben visibili i perimetri a terra. Anche un ateo come Primo Levi ebbe modo di riconoscere nelle sue opere l’enorme statura morale dei preti deportati a Dachau, i quali cercarono in tutti i modi di rafforzare la loro fede, non persero la speranza e si dedicarono all’aiuto e all’assistenza spirituale ai malati e ai moribondi. Le pressioni del Vaticano riuscirono perlomeno a far aprire una piccola cappella all’interno del blocco 26, dove il 21 gennaio 1941 venne celebrata la prima messa nel campo. Il tabernacolo fu costruito di nascosto nel laboratorio dei falegnami ma il prete era costretto a celebrare da solo. Ai detenuti era vietato partecipare e la comunione venne distribuita segretamente, a costo di gravi rischi. A Dachau si tenne anche l’ordinazione clandestina di un seminarista in punto di morte. Il tedesco Karl Leisner ricevette il sacramento dal vescovo francese di Clermont-Ferrand, monsignor Gabriel Piguet. Sottoposti allo stesso trattamento disumano di tutti gli altri prigionieri, 1034 religiosi cattolici non uscirono vivi dal campo, morendo di fame, di stenti, di prostrazione e di malattie. Su molti di essi furono anche effettuati esperimenti medici fatali. Fu un lento martirio che ricordò le persecuzioni subite dalla Chiesa dei primi secoli e trasformò il lager bavarese nel più grande cimitero di sacerdoti cattolici del mondo. Tra i tanti volti che compaiono nell’allestimento del museo di Dachau, c’è quello del domenicano Giuseppe Girotti, che morì il giorno di Pasqua del 1945, pochi giorni prima dell’arrivo degli Alleati. Restò accanto ai malati del campo fino alla fine ma poi crollò anche lui: venne trasferito in infermeria dove fu ucciso con un’iniezione letale dai nazisti. Anni fa il museo dello Yad Vashem di Gerusalemme l’ha riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” perché prima del suo arresto era riuscito a salvare la vita di tanti ebrei. A Dachau venne deportato anche Michal Kozal, vescovo della città polacca di Wloclawek. Al suo arrivo, nel 1941, ricevette il numero 24544 e un’uniforme a strisce con un triangolo rosso che lo identificava come prigioniero politico. Quando morì di tifo, due anni dopo, il comandante del campo si oppose alla sua sepoltura nel cimitero di Dachau e stabilì che il suo corpo dovesse finire nel forno crematorio. I registri del museo testimoniano l’accanimento dei nazisti nei confronti dei religiosi polacchi, molti dei quali si rifiutarono di accettare la cittadinanza tedesca che avrebbe garantito loro un trattamento speciale. In un solo giorno, il 5 maggio 1942, furono uccisi ventidue preti polacchi. In fondo al lungo viale che un tempo era costeggiato dalle baracche dei prigionieri sorge la cappella dell’Agonia Mortale di Cristo. Inaugurata in occasione del Congresso Eucaristico Mondiale del 1960, fu il primo monumento religioso eretto nell’ex campo di concentramento. Sul retro della cappella una targa ricorda il martirio dei sacerdoti polacchi. Intorno, a poca distanza dall’area dove sono conservate le camere a gas e il grande crematorio in muratura, si trovano anche il memoriale ebraico, la chiesa protestante e la cappella russo-ortodossa. Può apparire strano, ma la prima storica visita di un capo di governo tedesco a Dachau risale a pochi anni fa. Era il 2013. In quell’occasione la cancelliera Merkel non mancò di collegare l’orrore del passato ai rigurgiti estremisti del presente.
RM

La vera storia di Mala, l’angelo di Auschwitz

Avvenire, 27 giugno 2019

La giovane ebrea di origini polacche Mala Zimetbaum ebbe il coraggio di sfidare i nazisti nell’orrore di Auschwitz, si ribellò con tutte le sue forze alla disumanizzazione e riuscì a conservare anche nelle condizioni più estreme i sentimenti di amicizia, affetto, solidarietà e altruismo. La sua storia – già raccontata in passato da libri e film che ne avevano romanzato alcuni tratti – è stata ricostruita nel dettaglio nell’ultimo libro dello storico Frediano Sessi, L’angelo di Auschwitz (Marsilio). Durante la Seconda guerra mondiale Mala viveva con la sua famiglia ad Anversa. Fu lì che il 22 luglio 1942 venne arrestata nel corso di una retata e venne portata nel famigerato forte Breendonk, il centro di raccolta allestito dai nazisti alla periferia della città belga. Aveva 24 anni e parlava già fluentemente il francese, l’inglese, il tedesco e il russo, oltre al polacco e all’yiddish. Una volta deportata ad Auschwitz-Birkenau fu incaricata di svolgere le mansioni di interprete e portaordini dalla responsabile SS del campo femminile, la temutissima Maria Mandel. Ciò comportò per lei condizioni di vita migliori, cibo di buona qualità, vestiti puliti, la dispensa dalla rasatura dei capelli e la possibilità di movimento all’interno del lager. Entrò a far parte dei cosiddetti “Prominenten”, i detenuti privilegiati che – come precisa Sessi – si comportavano spesso con una durezza e un rigore maggiore delle stesse SS. Mala decise invece di sfruttare la sua posizione di privilegio per proteggere chi si trovava in difficoltà e aiutare il maggior numero di donne e uomini a sopravvivere. Svolse gran parte del suo lavoro di soccorso nell’infermeria del lager, che era spesso l’anticamera della morte, ma non si limitò a fornire aiuto, cibo e assistenza alle donne recluse, che in lei trovarono una luce nel buio della segregazione. Riuscì infatti anche a infondere speranza in molte di loro, tramutando il suo operato in una vera azione di resistenza. Già biografo di Primo Levi e Anna Frank, grande esperto dell’universo concentrazionario nazista, Sessi ha raccolto un’enorme quantità di testimonianze e materiale d’archivio per tracciare un profilo il più possibile completo di una donna che il 24 giugno 1944 si rese anche protagonista di una memorabile evasione da Auschwitz dall’esito drammatico. La rocambolesca fuga di Mala e del giovane prigioniero politico Edek Galinski durò tredici giorni, al termine dei quali i due vennero individuati e arrestati di nuovo, riportati al campo e rinchiusi nelle celle di isolamento dove restarono per oltre due mesi tra privazioni, torture e violenze indicibili. La storia di Mala sfuma nella leggenda e la sua drammatica fine resta in parte avvolta dal mistero. Il libro si conclude riportando le varie testimonianze, talvolta discordanti, sulla morte di colei che fu la dimostrazione vivente del fallimento di chi voleva distruggere l’umanità e il senso di solidarietà negli uomini e nelle donne rinchiuse nei campi di sterminio. “L’umanesimo di Mala – conclude Sessi – ha diritto a un posto d’onore, come faro che illumina la storia e le nostre vite, per la sua moralità e serietà che, decisamente, pongono un limite tra ciò che è possibile e ciò che è lecito, e non solo in condizioni estreme, perfino a costo del sacrificio della vita”.
RM

Niccioleta, quella strage dimenticata

Avvenire, 25 aprile 2019

I rastrellamenti iniziarono all’alba del 13 giugno 1944. Decine di soldati tedeschi e milizie fasciste sorpresero nel sonno gli abitanti di Niccioleta, un piccolo villaggio di minatori della Maremma toscana ritenuti colpevoli di aver organizzato turni di guardia armati alla miniera di pirite. A pochi giorni dall’arrivo delle truppe statunitensi al comando del generale Clark, i nazifascisti fucilarono sei minatori nel piccolo cortile dietro al forno della dispensa. Altri centosessanta li deportarono nel vicino paese di Castelnuovo Val di Cecina, ammassandoli all’interno del teatro cittadino. L’accusa nei loro confronti era quella di essere partigiani. Il pretesto fu fornito dagli elenchi dei turni di guardia alla miniera. L’epilogo del feroce massacro andò in scena la sera del 14 giugno, quando altri settantasette minatori vennero condotti nei pressi di una centrale geotermica poco distante e abbattuti a raffiche di mitra. Le vittime furono complessivamente ottantatre e fecero di Niccioleta il luogo del più grave eccidio di lavoratori compiuto dai nazifascisti durante l’ultima fase della loro ritirata verso la Linea gotica.
A lungo dimenticata anche dalla storiografia sulla Resistenza, quella strage è stata oggetto di una capillare ricerca che rivela con testimonianze orali di prima mano il tragico destino dei familiari delle vittime, i costi materiali, emotivi e psichici pagati dagli orfani e dalle vedove. Frutto del lavoro certosino della storica Nadia Pagni, La strage e gli innocenti. Figlie e figli dei martiri della Niccioleta (edizioni Effigi) indaga le conseguenze drammatiche di quell’eccidio raccogliendo piccole storie intime e personali di infanzie non vissute, di vedove abbandonate dallo Stato e di famiglie senza più i padri che all’improvviso vennero espulse dal villaggio e furono costrette a tornare alla miseria della montagna da cui erano scappate. Chi si ostinò a restare – sia le donne che i figli minorenni – fu invece costretto a sua volta ad andare in miniera. Colpevolmente ignorate dallo Stato italiano uscito dalla guerra, le vedove soffrirono per il resto della loro vita di depressione, di crisi epilettiche, fino a rasentare in alcuni casi la follia. Alcune si suicidarono, altre manifestarono disinteresse e indifferenza nei confronti dei figli fino ad abbandonarli negli orfanotrofi. Il libro contiene decine di interviste raccolte tra gli orfani – in gran parte ancora vivi – nelle quali emergono ferite che sanguinano a distanza di settant’anni e un senso di frustrazione che si trascina inesorabilmente da allora. Unanimi sono le denunce che affiorano dai racconti. L’assoluta mancanza di aiuto da parte delle istituzioni che nel Dopoguerra li lasciarono soli condannandoli all’oblio. Le colpe della Società Montecatini (proprietaria della miniera), che nascose ai familiari delle vittime il diritto a ottenere i certificati di orfanità che avrebbe consentito loro di accedere ai concorsi pubblici invece che alla miniera. Infine l’amnistia di Togliatti, che mise a tacere tutto riducendo definitivamente le vittime al silenzio. Un libro di testimonianze doloroso ma necessario, che analizza sotto una luce inedita uno dei tanti drammi dimenticati della Seconda guerra mondiale.
RM

La Bestia dei lager uccide ancora?

Avvenire, 27 gennaio 2019

È possibile confrontarsi con l’orrore senza rimanerne annichiliti soverchiati, schiacciati? Oppure la Shoah è un fardello che alla lunga può divenire insostenibile, fino a condurre alla perdita della ragione persino chi non l’ha vissuta in prima persona? In un prossimo futuro potrebbe persino essere diagnosticato un disturbo che colpisce chi è costretto a fare i conti con la dimensione umana dell’irrazionalità, a misurarsi con l’inimmaginabile fino a provarne un fastidio fisico e un terribile senso di colpa. Nei suoi libri indimenticabili, Primo Levi analizzò il rimorso e la depressione dei sopravvissuti, la condizione psicologica che in molti casi compromise gravemente l’adattamento sociale e lavorativo dei superstiti dell’Olocausto. Oggi, a distanza di oltre settant’anni da allora, lo scrittore israeliano Yishai Sarid ci costringe invece a riflettere sul rischio che il peso interiore della Shoah possa farsi alla lunga insopportabile anche per gli studiosi. A chiederci se l’arte, la cultura e l’avanzamento scientifico rappresentino antidoti sufficienti per proteggerci di fronte a questo rischio. Del protagonista del suo nuovo, sorprendente romanzo Il mostro della memoria (uscita per e/o con la traduzione di Alessandra Shomroni) non conosciamo il nome. Potrebbe essere chiunque, ciascuno di noi. Sappiamo però che è un esperto del processo di sterminio, un israeliano che dopo aver abbandonato il sogno di una carriera diplomatica ha intrapreso il lavoro di storico cimentandosi con una tesi di dottorato sui meccanismi di sterminio dei lager. Per incrementare le sue entrate si ritrova poi, quasi senza volerlo, a lavorare come guida prima allo Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme, poi accompagnando gruppi di visitatori ai campi di concentramento nazisti, in Polonia. Si considera “un fedele e scrupoloso agente della memoria” e vede il suo lavoro come un modo per tramandare questa memoria alle giovani generazioni. È un uomo che con i suoi studi e la sua preparazione scientifica crede di aver sviluppato la giusta distanza nei confronti degli orrori del passato ed è quindi convinto di essere immune allo stress di un lavoro simile. Proprio per questo non si accorge di aver imboccato invece una strada senza uscita che lo farà sprofondare verso un abisso interiore. Decine di visite con le scolaresche ad Auschwitz, a Treblinka, a Bélzec, a Majdanek, a Sobibor lo portano prima a scontrarsi con la difficoltà di conciliare la verità storica con il messaggio educativo. Poi comincia a vedere riflesso sé stesso nelle scolaresche, “attribuivo a loro tutto ciò che mi passava per la testa e non mi dava pace. E cercavo di ovviare a tutto questo con la conoscenza”. Con il trascorrere del tempo diventa la guida più richiesta dei viaggi nei campi polacchi e inizia ad accompagnare gruppi di ufficiali dell’esercito israeliano e politici, tra cui un frettoloso ministro preoccupato perlopiù di farsi fotografare. Si convincerà persino di essersi assuefatto a quell’orrore: “da tre anni giravo la Polonia e non ero mai riuscito a versare una sola lacrima”. Invece non riuscirà più a staccarsi da quella routine lavorativa nei campi. Affitta un appartamento a Varsavia e resta lontano da casa per lunghi periodi di tempo, allontanandosi sempre più dalla moglie e dal figlio piccolo rimasti in Israele. Quella memoria si è trasformata in un mostro che a poco a poco ha scavato un solco profondo dentro di lui fino a fargli perdere il senno, con un effetto quasi paragonabile a quello della sindrome di Stendhal di fronte alle opere d’arte di straordinaria bellezza, (“tenni lontano a forza le grida dei prigionieri, i loro lamenti disperati, perché non mi disturbassero”).
Costruito sotto forma di lettera-confessione, il romanzo di Yishai Sarid vede il giovane studioso ricostruire la sua storia raccontando al direttore dello Yad Vashem le gravi conseguenze psichiche del suo lavoro. Il flusso di coscienza generato dalla narrazione in prima persona crea un effetto catartico che conferisce al libro un’esemplare semplicità. In un passaggio cruciale, il protagonista si trova di fronte al figlio che gli chiede qual è il suo lavoro. “Papà racconta alla gente quello che è successo”, è la sua risposta. “In passato c’era un mostro che uccideva le persone”. “E tu lotti contro questo mostro?” “No, il mostro è già morto, è rimasto solo il suo ricordo”. A schiacciarlo sarà proprio il peso emotivo di quel ricordo. Per quanto lui cerchi di mantenere un atteggiamento distaccato verso gli orrori che descrive, per quanto si sforzi di spiegare la Shoah da un punto di vista esclusivamente tecnico e privo di coinvolgimenti emotivi, ben presto si accorge che addentrarsi nelle sofferenze del suo popolo gli è diventato insopportabile. Dietro alle fredde cifre sulle vittime e le tecniche di sterminio comincia a vedere le persone, i drammi umani, le atrocità del passato in un crescendo di insicurezza e di orrore. Qualcosa si è incrinato dentro di lui e quando le scuole interromperanno la collaborazione a causa della sua manifesta instabilità, sarà costretto a portare nei campi le gite organizzate per turisti generici, che non hanno alcuna intenzione di ascoltare le sue descrizioni. Infine, i suoi nervi cederanno definitivamente di fronte a un regista tedesco che lo coinvolge ingannevolmente in un progetto cinematografico. Il finale può lasciare interdetti, ma rappresenta in realtà un ulteriore invito alla riflessione. Considerato uno dei più significativi romanzi recenti sulla Shoah, Il mostro della memoria analizza in profondità la percezione dell’Olocausto nella società israeliana contemporanea riuscendo a sollevare interrogativi etici cruciali. Sul modo di affrontare la memoria, sulle lezioni storiche da trarne, sui rapporti tra gli ebrei di oggi e quelli di allora, sul fascino dei potere e sulla sua capacità di trasformare gli individui in carnefici. Yishai Sarid ha già vinto importanti riconoscimenti con le sue opere precedenti tra le quali spicca Il poeta di Gaza, un thriller psicologico già pubblicato in Italia sempre da e/o. Oggi uno dei più interessanti scrittori emergenti in un paese da poco rimasto orfano del grande Amos Oz.
RM

Il mediano che non tornò da Mathausen

Avvenire, 23 gennaio 2019

Se fosse nato appena qualche anno più tardi Vittorio Staccione, di professione mediano, avrebbe potuto far parte del Grande Torino, magari persino diventare la riserva del mitico Giuseppe Grezar. Era cresciuto nelle giovanili della squadra granata e con la stessa maglia aveva vinto lo scudetto nel 1927, poi revocato in seguito al famoso “caso Allemandi”. Staccione aveva ormai smesso di calcare i campi da gioco da qualche anno quando fu catturato a Torino dalle SS, con l’accusa di essere un oppositore del regime fascista. Nel 1944, alla fine di marzo, fu infine deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, dal quale non sarebbe tornato mai più. È dedicata a lui la prima delle quindici nuove “pietre d’inciampo” che il Museo diffuso della Resistenza, la Comunità Ebraica e l’Aned hanno deciso di posare quest’anno a Torino in occasione della Giornata della Memoria. La piccola targa in onore di Vittorio Staccione è stata collocata ieri mattina sul selciato di via San Donato 27, dove si trovava l’ultima abitazione del calciatore. Nato nel 1904 in una famiglia di operai torinesi, Staccione aveva iniziato a giocare nei campetti di periferia insieme al fratello Eugenio. Era entrato nelle giovanili granata all’età di tredici anni, debuttando in prima squadra nel 1924. Fin da giovane aveva iniziato anche a frequentare i circoli socialisti torinesi e a subire aggressioni da parte degli squadristi locali. La sua carriera di calciatore, dopo un anno in prestito alla Cremonese, decollò proprio sotto la Mole nella stagione 1925-26. L’anno successivo fu protagonista del primo scudetto granata insieme al cosiddetto “trio delle meraviglie” (Baloncieri, Libonatti e Rossetti), un titolo che fu poi revocato a causa di una presunta combine tra un dirigente granata e un giocatore della Juventus. Passò dunque alla Fiorentina, dove rimase dal 1927 al 1931 collezionando 94 presenze. A Firenze fu colpito da un gravissimo dramma familiare: Giulia, la sua giovane sposa, morì di parto insieme alla bambina che portava in grembo. Una tragedia dalla quale non si sarebbe mai più ripreso. Ad appena trent’anni Staccione conclude la sua carriera calcistica a Cosenza, in serie B. Tornato a Torino, inizia a lavorare come operaio alla Fiat e riprende a frequentare i circoli della sinistra cittadina. La sua convinta adesione all’antifascismo lo porta a essere spesso fermato e schedato dall’Ovra, la polizia segreta fascista. Il 13 marzo 1944 viene infine catturato dalle SS e poi internato nel campo di concentramento di Mauthausen, dov’è classificato come Schutzhäftling, prigioniero politico.

I nazisti gli tatuano sul braccio il numero di matricola 59160 e lo destinano alla cosiddetta “scala della morte”, una cava attraversata da 186 gradini, lungo i quali i detenuti devono trasportare pesanti blocchi di granito. Resiste per un anno, finché un violento pestaggio delle guardie non gli procura una profonda ferita alla gamba. Privato delle cure necessarie, muore di setticemia e cancrena il 13 febbraio 1945, poche settimane prima che gli Alleati riescano a liberare il campo.
RM