Ci ha pensato il presidente della Repubblica d’Irlanda, Michael D. Higgins, a suggellare il fallimento delle celebrazioni per il centenario della nascita dell’Irlanda del Nord in programma quest’anno. Respingendo al mittente l’invito alla cerimonia interconfessionale che si terrà il 21 ottobre prossimo ad Armagh, nella cattedrale anglicana di Saint Patrick, il presidente irlandese ha preso una posizione coraggiosa e controversa – come dimostra il coro di critiche innescate – ma ha anche scoperto definitivamente il vaso di Pandora sulle contraddizioni di un centenario costellato dalle polemiche, svolto finora in sordina non soltanto a causa della pandemia. La storica ricorrenza ha evidenziato il profondo solco che ancora oggi divide le due principali comunità irlandesi: quella cattolico-nazionalista e quella unionista-protestante, facendo riemergere i fantasmi di uno stato che fu creato artificialmente dagli inglesi nel 1921.
Il governo di Boris Johnson voleva promuovere una commemorazione condivisa e aveva finanziato una serie di iniziative lungo l’intero arco dell’anno, anche per consolidare il ruolo dell’Irlanda del Nord all’interno del Regno Unito. Ma l’entrata in vigore della Brexit – con le sue inevitabili conseguenze sul confine interno dell’Irlanda – ha contribuito a vanificare del tutto uno sforzo che appariva comunque improbo. All’inizio dell’anno era stato annunciato un corposo programma di celebrazioni ed eventi che dovevano coinvolgere scuole, università ed enti culturali. Molte sedi dell’Ordine d’Orange, la potente loggia massonica protestante che da sempre controlla la vita politico-economica in Irlanda del Nord, erano state addobbate con striscioni celebrativi nel maldestro tentativo di far passare una visione unilaterale della storia. All’interno della comunità cattolica ha prevalso però un sentimento di indifferenza e di fastidio, talvolta persino di avversione nei confronti di questo centenario, e con il trascorrere dei mesi le restrizioni imposte dalla pandemia sono diventate l’alibi perfetto per cancellare buona parte del programma. D’altra parte era più che lecito chiedersi come sarebbe stato possibile celebrare l’anniversario di una frattura geopolitica, storica, sociale ed economica dalla quale sono scaturiti decenni di sangue e dolore celandone gli aspetti ancora fortemente divisivi. Sia gli esponenti del Sinn Féin che quelli del partito socialdemocratico SDLP hanno boicottato fin dall’inizio il gruppo di lavoro ministeriale incaricato di organizzare le commemorazioni mentre i deputati repubblicani hanno bloccato la realizzazione della lapide celebrativa che gli unionisti protestanti volevano apporre fuori dal parlamento di Stormont. “La spartizione dell’Irlanda è stata una catastrofe per il nostro popolo e per il nostro Paese, un dramma che ci divide ancora oggi”, ha spiegato la presidente del Sinn Féin, Mary Lou McDonald, definendo giusta la decisione di Higgins di non partecipare all’appuntamento di Armagh.
Per comprendere le parole di McDonald basta ricordare quanto accadde cento anni fa quando, con la creazione di un’entità geopolitica artificiale mai esistita fino ad allora – l’Irlanda del Nord -, Londra pose i presupposti per il proseguimento del conflitto fino ai giorni nostri. La divisione nacque con l’intento di risolvere una volta per tutte la questione irlandese ma avrebbe innescato altri decenni di violenza interrotti solo in tempi recenti, con l’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Il governo britannico tracciò quei confini in modo del tutto arbitrario, mantenendo il controllo della zona industrializzata dell’isola e assicurando complessivamente una maggioranza di due terzi ai protestanti. Ma l’unico effetto che ottenne fu quello di incancrenire la crisi, poiché fin dalla sua nascita lo stato dell’Irlanda del Nord è stato fondato sulla pesante discriminazione della minoranza cattolica. A Belfast e dintorni è viva ancora oggi la memoria popolare dei terribili pogrom che accompagnarono la nascita del nuovo stato. Nel suo recente libro A Difficult Birth lo storico britannico Alan Parkinson ha ricostruito quella fase nel dettaglio: in meno di due anni, tra il 1920 e il 1922, la violenza settaria causò quasi seicento morti (in gran parte cattolici) e costrinse circa quindicimila famiglie al trasferimento forzato, mentre i lavoratori cattolici furono espulsi in massa dalle fabbriche e dai cantieri navali.
Cento anni fa nessuno in Irlanda voleva la divisione. I cattolico-nazionalisti aspiravano all’autogoverno e poi all’indipendenza mentre gli unionisti avrebbero preferito che l’intera isola restasse saldamente nell’orbita della Gran Bretagna. Subito dopo la firma dell’accordo anglo-irlandese che nel 1921 sancì la divisione, il leader indiscusso degli unionisti duri e puri dell’Ulster, Sir Edward Carson, riconobbe di essere stato ingannato dai conservatori inglesi. “Sono stato un pazzo”, affermò in un famoso discorso pronunciato alla Camera dei Lord. “Sono stato solo un burattino e lo stesso sono stati l’Ulster e l’Irlanda nel gioco politico che serviva a portare il partito conservatore al potere”. Un secolo più tardi, il senso di sconfitta vissuto da gran parte della comunità unionista nordirlandese è più forte che mai e ha trovato un’espressione eloquente nei gravi disordini scoppiati la primavera scorsa nei quartieri protestanti. Il Protocollo dell’Irlanda del Nord promosso da Boris Johnson non ha in alcun modo risolto i problemi causati dalla Brexit e molti irlandesi si sentono di nuovo traditi da Westminster. Il confine marittimo lungo il Mare d’Irlanda allontana commercialmente Belfast da Londra e delinea anche una curiosa simmetria con quanto accadde esattamente un secolo fa. A farne le spese è stato il primo ministro nordirlandese Arlene Foster, ritenuta responsabile della débacle politica e scaricata nel giugno scorso dal DUP, il maggior partito unionista che tuttora detiene la maggioranza relativa nell’assemblea di Belfast. L’assenza dell’esecutivo ha creato da allora un vuoto politico nel quale proliferano le frange più estremiste e i gruppuscoli paramilitari. La rabbia degli unionisti è amplificata dai timori di un sempre più probabile rovesciamento della dinamica demografica del Paese. Nei prossimi mesi saranno infatti resi noti i dati dell’ultimo censimento nazionale e per la prima volta da secoli i cattolici dovrebbero risultare più numerosi dei protestanti nella provincia dell’Ulster. Lo storico “sorpasso” avvicinerà quel referendum popolare sul futuro della provincia, che potrebbe recidere definitivamente il legame con Londra per unirsi alla Repubblica di Dublino. Lo stesso accordo di pace del 1998 obbliga il governo britannico a concedere un referendum sulla riunificazione irlandese quando sarà la maggioranza della popolazione a volerlo.
L’anno prossimo si terranno anche le elezioni in Irlanda del Nord e i repubblicani indipendentisti del Sinn Féin che da sempre chiedono a gran voce quella consultazione popolare – ormai diventati il maggior partito politico di tutta l’isola – guideranno con ogni probabilità il prossimo governo a nord del confine. L’ultimo sondaggio della Bbc ha rilevato che il 43% della popolazione dell’Irlanda del Nord e il 51% dei cittadini della Repubblica è a favore di un’Irlanda unita. Secondo lo stesso sondaggio la maggioranza assoluta degli abitanti dell’isola è convinta che l’Irlanda del Nord abbandonerà il Regno Unito nei prossimi 25 anni. Ormai non si tratta più di capire se si voterà sull’unità irlandese ma solo di stabilire quando. Il dibattito sul futuro dell’Irlanda del Nord – molto più del suo passato – non poteva non condizionare l’irrequieto centenario celebrato in questi mesi.
RM