A Mostar un voto per il futuro della Bosnia

Avvenire, 20 dicembre 2020

C’è voluta una sentenza storica della Corte europea dei diritti dell’uomo per riportare finalmente al voto la città di Mostar, dodici anni dopo le ultime elezioni amministrative svolte nel 2008. I giudici UE hanno stabilito che l’impossibilità di eleggere democraticamente i rappresentanti nelle istituzioni locali costituiva una violazione dei principi fondamentali dello stato di diritto e hanno costretto i due principali partiti nazionalisti – il bosgnacco Sda di Bakir Izetbgovic e il croato Hdz BiH guidato da Dragan Covic – a sbloccare l’impasse trovando un accordo favorito anche dalle pressioni della comunità internazionale. Continua a leggere “A Mostar un voto per il futuro della Bosnia”

Il negazionismo alla fiera del libro di Belgrado

Non fossero bastate le polemiche dopo il premio Nobel assegnato a Peter Handke – criticato per le sue conclamate simpatie nei confronti del regime di Milosevic – il revisionismo storico sulle guerre balcaniche ha trovato ampio spazio anche all’ultima fiera del libro di Belgrado, conclusasi qualche giorno fa. Giunto alla 64esima edizione, il prestigioso appuntamento culturale della capitale serba ha ospitato anche quest’anno lo stand del governo della Republika Srpska, una delle due entità politiche della Bosnia-Erzegovina, nel quale è stato esposto orgogliosamente un libro dal titolo Srebrenica-stvarnosti i manipulacije (“Srebrenica. Realtà e manipolazioni”). Trattasi di un ponderoso volume di oltre ottocento pagine che raccoglie gli scritti di una cinquantina di autori – storici, studiosi, giornalisti ma anche politici e militari – con l’obiettivo dichiarato di “smontare il mito del genocidio e dei crimini serbi a Srebrenica”. Una vera e propria offensiva negazionista finanziata con soldi pubblici e stampata sia in serbo che in inglese. Per presentarla al pubblico della fiera sono intervenuti il curatore del libro, il colonnello Milovan Milutinovic, capo del servizio informazioni dello Stato Maggiore dell’esercito della Republika Srpska, e la ministra dell’istruzione e della cultura dell’entità serbo-bosniaca, Natalija Trivić. Il folto gruppo di autori del volume è allineato in un coro unanime di condanna nei confronti del Tribunale Internazionale per i crimini dell’ex-Jugoslavia. I più accaniti appaiono proprio gli ex militari, alcuni dei quali arrivano a negare che a Sarajevo e a Srebrenica siano stati commessi crimini di guerra, ipotizzando l’esistenza di un complotto internazionale contro il popolo serbo.
La Republika Srpska non è certo nuova a iniziative simili, dal chiaro intento revisionista. Nei mesi scorsi ha nominato due commissioni internazionali per provare a riscrivere la storia delle guerre degli anni ‘90, poi ha finanziato un convegno all’università di Banja Luka per contestare le sentenze del tribunale dell’Aja. D’altra parte sono le stesse posizioni che ribadisce da sempre anche Milorad Dodik, l’ex presidente della Republika Srpska e attuale membro della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina. Quello che stupisce è semmai l’atteggiamento del governo di Belgrado, che almeno in anni recenti era apparso assai più cauto su questi temi. In un altro padiglione della fiera del libro della capitale serba – quello del Ministero della Difesa – è stato presentato con tutti gli onori il libro di memorie del generale Nebojsa Pavkovic, già comandante della Terza Armata dell’esercito serbo durante la guerra del Kosovo, attualmente in carcere con una condanna a 22 anni per crimini contro l’umanità. Lo stesso stand ha poi ospitato un dibattito cui ha preso parte Vinko Pandurevic, uno degli alti ufficiali serbi condannati per il genocidio di Srebrenica, rilasciato nel 2015 dopo aver scontato tredici anni di carcere. Alcuni giorni dopo è stato presentato infine un libro che nega le responsabilità serbe in uno dei più feroci e insensati massacri degli ultimi giorni della guerra: la strage di Tuzla del 25 maggio 1995, nella quale persero la vita 71 persone. La verità giudiziaria da contraddire, stavolta, non era quella dell’Aja ma quella dei giudici di una Corte territoriale bosniaca. La sensazione è che, nonostante il trascorrere del tempo, creare una memoria condivisa sui conflitti etnici che hanno insanguinato i Balcani negli anni ‘90 sia sempre più un’utopia.
RM

Il rischio secessione va al voto in Bosnia

Avvenire, 24.9.2016

de490dbf-cb17-40c6-b05e-732764f709bd_w987_r1_sÈ alta la tensione in Bosnia-Erzegovina in vista del referendum che si terrà domani nel territorio della Repubblica Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese balcanico. Una consultazione referendaria soltanto consultiva e con un quesito apparentemente innocuo (“volete che il 9 gennaio sia celebrato come Giorno della Republika Srpska?”) ma che in realtà riporta alla memoria vecchi fantasmi e rischia di mettere in discussione gli Accordi di Dayton, che vent’anni fa fecero cessare il brutale conflitto etnico nella regione. La Corte Costituzionale bosniaca ha dichiarato “discriminatoria nei confronti degli altri popoli costitutivi” la festività voluta dai serbi e ha chiesto alle autorità di Banja Luka di sospendere il referendum ma il nazionalista Milorad Dodik, presidente della RS che da anni minaccia la secessione da Sarajevo, è deciso comunque ad andare avanti anche in vista delle elezioni locali che si terranno tra due settimane. A niente sono servite finora le critiche mosse da Washington e da Bruxelles mentre il Peace Implementation Council, il comitato di 55 stati e organizzazioni internazionali che vigila sul rispetto di Dayton, ha fatto sapere che non tollererà alcuna violazione degli accordi. Chiamando alle urne circa 1,2 milioni di elettori Dodik ha ribadito che la consultazione referendaria non è un’attività contraria a Dayton, sebbene il suo svolgimento comprometta inevitabilmente l’autorevolezza della Corte Costituzionale. Ma la data scelta per la festività serba ha un significato ben preciso: il 9 gennaio, giorno di Santo Stefano per il calendario ortodosso, è anche l’anniversario della proclamazione unilaterale della Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia-Erzegovina voluta nel 1992, alla vigilia della guerra, da Radovan Karadzic, il teorico della pulizia etnica condannato a 40 anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità.
Nell’ex Jugoslavia i referendum sono sempre stati usati come arma politica fin da quando l’area iniziò a disintegrarsi, e quelli su indipendenza e identità nazionale hanno quasi sempre innescato scontri e spargimenti di sangue. I politici di Sarajevo temono che il voto di domani sia soltanto il primo passo di un piano secessionista pericolosissimo per i fragili equilibri interni della Bosnia. Timori condivisi anche da Valentin Inzko, Alto Rappresentante internazionale che detiene ancora i poteri esecutivi nella regione. Belgrado ha affermato di non sostenere il referendum e lunedì scorso, durante i lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, il premier serbo Aleksandar Vucic ha ribadito la necessità di preservare la pace a ogni costo. A soffiare sul fuoco ci ha pensato però l’ex generale Sefer Halilovic, comandante delle forze bosniache durante il conflitto degli anni ’90, secondo il quale la consultazione violerà gli accordi di Dayton e provocherà scontri che segneranno la fine della Repubblica Srpska. Dodik ha replicato minacciando l’immediata separazione dell’entità serbo-bosniaca dal resto della Bosnia in caso di violenze e atti ostili al referendum. “Siamo in grado di difenderci militarmente in caso di attacco”, ha sottolineato il presidente della RS, che due giorni fa ha incontrato Vladimir Putin a Mosca, ufficialmente per discutere di questioni economiche. La Russia è finora l’unico stato che si è detto favorevole alla consultazione popolare. In questo quadro, è di buon auspicio almeno la decisione del Consiglio UE, che ha appena dato il via libera alla procedura d’adesione della Bosnia.
RM