La prima vittima della guerra, diceva Eschilo, è la verità. Anche perché in guerra le testate libere e indipendenti vengono di solito costrette a chiudere. Un destino che alcuni mesi fa è toccato anche alla Novaya Gazeta, il più importante organo di informazione indipendente russo, il quotidiano di due premi Nobel per la pace: Dmitrij Muratov che lo dirigeva e Mikhail Gorbaciov che l’aveva finanziato fin dagli albori, nel 1993. Novaya Gazeta era stato il giornale di Anna Politkovskaja, che fu uccisa in un agguato a Mosca nel 2006, e di altri sei giornalisti assassinati negli anni seguenti per aver detto la verità. Un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina il Roskomnadzor, l’agenzia statale delle comunicazioni russa, ha messo a tacere l’ultima voce libera del Paese e poi un tribunale di Mosca gli ha revocato la licenza di stampa. Ma nel frattempo il giornale simbolo della lotta contro Putin era già rinato a Riga, in Lettonia, dove si sono rifugiati centinaia di giornalisti russi invisi al regime. Continua a leggere “Il giornale simbolo della lotta contro Putin è rinato a Riga”
Nel 1931 George Bernard Shaw visitò l’Unione Sovietica su invito di Stalin. Il grande drammaturgo irlandese, che non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie nei confronti del regime di Mosca, tornò da quel viaggio entusiasta e incitò i giovani occidentali a trasferirsi in Russia, dove avrebbero trovato – disse proprio così – “un futuro radioso”. Ai tempi della Grande depressione non pochi gli avrebbero dato ascolto, abbadonando gli Stati Uniti per inseguire ciecamente l’utopia socialista sovietica. È quello che fa anche Florence Fein, la giovane protagonista di I patrioti (traduzione di Velia Februari, Fazi editore, pagg. 790, euro 20), il poderoso romanzo d’esordio della scrittrice statunitense di origini ucraine Sana Krasikov che racconta le vicende di tre generazioni in bilico fra due continenti, intrappolate tra le forze della storia e le conseguenze delle proprie scelte. Continua a leggere “Usa-Urss, attrazione e illusione”
L’ultimo episodio verificato risale al 3 maggio scorso quando, in piena notte, un uomo a volto coperto ha lanciato bottiglie molotov contro il centro di reclutamento dell’esercito della città di Nizhnevartovsk, in Siberia. Qualche giorno prima era accaduto lo stesso anche al commissariato militare di Zubova Polyana, a circa 400 chilometri a sud di Mosca. Il rogo ha distrutto i computer dell’archivio e ha cancellato i database con l’elenco dei coscritti, costringendo le autorità a interrompere gli arruolamenti in diversi distretti della Federazione. Continua a leggere “Sabotaggi, diserzioni, proteste. Il malessere dei soldati russi”
“Un solco profondo divide gli ucraini dai russi. Oggi in Ucraina vediamo il coraggio, la responsabilità, la solidarietà. In Russia soltanto la negazione della realtà, l’impotenza o la lealtà verso i criminali. L’idea di vicinanza, o fratellanza delle Nazioni, come si chiamava ai tempo dell’Unione Sovietica, è stata usata dai russi come strumento di dominio. Adesso parlare di vicinanza è persino irrispettoso nei confronti delle sofferenze degli ucraini”. Lo scrittore moscovita Sergej Lebedev, 41 anni, una delle voci più autorevoli della letteratura russa contemporanea, pronuncia un duro atto d’accusa nei confronti del suo Paese e non lesina critiche neanche nei confronti degli intellettuali russi, spiegando che “negli ultimi vent’anni hanno chiuso gli occhi di fronte al regime”. Continua a leggere ““Troppi intellettuali russi hanno chiuso gli occhi sul regime””
L’attacco russo all’Ucraina rischia di far scoppiare nuovamente il caos nei Balcani occidentali, innescando nuove tensioni in Serbia, in Kosovo e in Bosnia. A preoccupare i servizi di intelligence europei e statunitensi è soprattutto la Serbia, che ha storici legami culturali ed economici con la Russia, dalla quale dipende totalmente per il proprio approvvigionamento energetico. Ma soprattutto, Belgrado vede in Mosca un alleato politico capace di impedire che il Kosovo diventi membro dell’Onu avvalendosi del suo potere di veto in seno al Consiglio di sicurezza. E proprio in sede Onu non è passata inosservata la reazione del presidente serbo Aleksandar Vucic di fronte alla crisi ucraina. Continua a leggere “La guerra in Ucraina rischia di riaccendere il caos nei Balcani?”
Solo la morte di Stalin, nel 1953, salvò Vasilij Grossman dall’arresto e dalla deportazione. Lo scrittore russo era stato uno dei più grandi cronisti della Seconda guerra mondiale, aveva assistito all’assedio di Stalingrado e alla controffensiva sovietica che ribaltò le sorti del conflitto. Ma alla fine degli anni ‘40 era ormai annoverato a tutti gli effetti tra i dissidenti. La sua fama di eroe di guerra era riuscita a salvargli la vita ma non a evitargli di cadere in disgrazia. Secondo i censori sovietici il suo capolavoro Vita e destino era un testo assai più pericoloso del Dottor Živago di Boris Pasternak, che pure era già diventato un best seller negli Stati Uniti e in Europa. L’austero Mikhail Suslov, responsabile dei mezzi informativi del Pcus, gli disse che sarebbero dovuti passare almeno trecento anni per vedere pubblicato il suo libro. “Non importa ciò che è vero o ciò che è falso – gli spiegò – uno scrittore sovietico deve scrivere solo ciò che è necessario per la società”. Il racconto dell’incontro tra Suslov e Grossman è uno dei passaggi centrali della biografia del grande scrittore russo firmata dalla giornalista Alexandra Popoff, Vasily Grossman and the Soviet Century. Era il 1960 e di lì a poco gli agenti del Kgb avrebbero fatto irruzione dell’abitazione di Grossman per confiscargli il manoscritto, gli appunti, le bozze e persino la macchina da scrivere. Il regime decise di non incarcerarlo: si limitò a condannarlo all’oblio, e a non veder mai pubblicato quello che oggi è ritenuto uno dei capolavori della letteratura del XX secolo. Grossman finì i suoi giorni nella povertà e nella solitudine, morendo di cancro nel 1964. Ma fortunatamente una copia del manoscritto di Vita e destino fu recuperata, microfilmata e fatta uscire illegalmente dai confini sovietici con l’intercessione del fisico dissidente Andrej Sacharov. L’opera venne pubblicata per la prima volta da una casa editrice svizzera nel 1980 e l’edizione inglese fece finalmente conoscere al grande pubblico quel grandioso affresco storico dell’era staliniana, che venne definito il “Guerra e pace del XX secolo”. Continua a leggere “Vasilij Grossman ritorna a Stalingrado”
Nessuno scrittore è stato capace di rappresentare la storia recente della Russia con il crudo realismo di Anatolij Pristavkin, la cui vicenda personale è stata anche un barometro dei mutamenti politici in atto nel suo paese negli ultimi cinquant’anni. Romanziere prolifico e di successo ma anche instancabile attivista per i diritti umani, se n’è andato nel 2008, dopo aver ottenuto risultati straordinari nella lotta per l’abolizione della pena di morte. Negli anni del Secondo conflitto mondiale, come tanti orfani di quella che era allora l’Unione Sovietica fu costretto a trascorrere un’infanzia e una giovinezza fatte di lavoro, stenti e paura. Da bambino finì persino in carcere perché la fame l’aveva spinto a rubare un cesto di verdure.
Anatolij Pristavkin
Nato nel 1931 in una famiglia poverissima dei bassifondi di Mosca, rimase senza genitori a undici anni e fu mandato a lavorare in una fabbrica di conservazione di cibi in scatola. Più tardi, nel suo romanzo di maggior successo, avrebbe cercato di restituire una dimensione letteraria a quell’esperienza: “l’unica cosa che potevamo definire ‘nostra’ – scrisse – eravamo noi stessi e le nostre gambe, sempre pronte a correre via nel caso succedesse qualcosa. E anche le nostre anime, sebbene tutti ci ripetessero che non le avevamo”. Quel romanzo è Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso, che l’editore Guerini ha appena fatto uscire nella sua nuova collana “Narrare la memoria” con la traduzione e la curatela di Patrizia Deotto, colmando un vuoto significativo del panorama editoriale italiano. Un’opera già tradotta in trenta lingue, che Pristavkin terminò nel 1981 ma poté vedere pubblicata soltanto alcuni anni più tardi, nel pieno della Perestrojka, e che racconta con toni autobiografici la vita dei cosiddetti besprizornye, le centinaia di migliaia di bambini e ragazzi senza casa e senza famiglia, abbandonati “come foglie secche, che andavano dove li portava il vento” dopo gli anni della guerra civile, delle carestie, delle epidemie e della collettivizzazione forzata. La storia, sulle orme di Puškin e Tolstoj, è piena di riferimenti ai classici russi e prende forma durante l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, quando una colonia di orfani viene evacuata da Mosca e trasferita nel Caucaso, “una terra dove regna un silenzio profondo, interrotto di tanto in tanto dall’eco di spari ed esplosioni”. I protagonisti sono due gemelli di undici anni, Saska and Kol’ka, davvero inseparabili come recita il titolo e soprattutto costantemente alla ricerca di un modo per contrastare i morsi della fame. Insieme a tanti altri bambini e ragazzi i due fratelli vengono mandati in Cecenia, in un villaggio dove la popolazione è stata appena deportata verso la Siberia con l’accusa – falsa – di collaborazionismo con il nemico nazista. È una pagina crudele e poco conosciuta della storia sovietica, segnata dalla xenofobia e dalle tensioni inter-etniche, nella quale spicca il contrasto tra il mondo scintillante promesso dalla propaganda staliniana e le reali condizioni di vita dei piccoli protagonisti. Orrori che sono spesso stemperati dal senso di leggerezza, talvolta persino dagli spunti di ironia, di una narrazione che non può che sfociare in un finale tragico.
Quasi tutti i ventisei romanzi che hanno solcato l’intensa attività di Anatolij Pristavkin portano i segni della povertà e della disperazione che lo scrittore originario dei dintorni di Mosca visse sulla propria pelle in gioventù, prima manovale poi operaio della centrale elettrica di Bratsk, in Siberia. Il completamento degli studi e i primi successi letterari non gli fecero mai dimenticare quel mondo e la necessità di impegnarsi a fondo per i diritti umani e la giustizia sociale. Nella seconda metà degli anni ‘50, quando Kruscev iniziò a denunciare i crimini di Stalin, Pristavkin aveva già pubblicato i suoi primi scritti e cominciò ad assumere anche un ruolo pubblico, schierandosi apertamente contro il culto della personalità. Un impegno che di lì a poco lo vedrà diventare il capofila di una nuova élite letteraria che non teme di chiedere l’abolizione della pena di morte in uno dei paesi col più elevato numero di condanne eseguite. Nei giorni della caduta del regime sovietico è alla testa del Comitato di Aprile, un gruppo di cinquecento intellettuali desiderosi di promuovere la democrazia e decisi a sfidare il monolitismo del sindacato degli scrittori. Nel novembre 1989 è a Berlino per partecipare alle grandi manifestazioni che precedono la caduta del Muro, in seguito prende posizione a favore dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Ma la vera svolta si compie nel 1991, quando Boris Yeltsin lo chiama a presiedere la Commissione per la Grazia. Per la prima volta giuristi e intellettuali sono incaricati di esaminare le richieste di clemenza dei condannati a morte. Pristavkin decide che da allora in poi la Commissione svolgerà le sue sedute nella stanza dove un tempo i funzionari del Cremlino emettevano le condanne a morte. Sui muri dell’ufficio fa attaccare i disegni della figlia tredicenne e ogni settimana riunisce i quindici membri intorno a un tavolo e a una bottiglia di vodka per esaminare una decina di casi di condanne a morte. Vuole educare un’opinione pubblica che è ancora largamente favorevole alla pena capitale e chiede sempre, anche di fronte ai delitti più efferati, almeno la commutazione della condanna nel carcere a vita. Definisce il suo lavoro “una goccia in un oceano di crudeltà” ma a partire dal 1993 riesce a far diminuire in modo esponenziale il numero di esecuzioni, fino a ridurle ad appena una decina l’anno. In precedenza non erano state mai meno di duecento, con punte massime annuali fino a cinquecento. Durante il suo mandato alla guida della Commissione salva così dal patibolo migliaia di condannati a morte. Il sogno abolizionista si interrompe però bruscamente con l’arrivo di Putin: la Commissione viene prima ostacolata – sostenendo che un suo presunto effetto controproducente sui criminali -, poi delegittimata e infine sostituita nel 2001 con decine di piccole commissioni regionali dagli scarsi poteri. Curiosamente sarà lo stesso Putin a ricordare la “dignità morale” e i “grandi ideali” di Anatolij Pristavkin, nel giorno della sua morte.
RM
Nulla al mondo è più invisibile dei monumenti, diceva Robert Musil. Ma gli ungheresi sembrano pensarla diversamente. Fino a qualche anno fa le strade e le piazze di Budapest erano ancora solcate da decine di gigantesche statue risalenti all’era sovietica. Ingombranti riproduzioni di Stalin, di Lenin, di Marx e un numero imprecisato di monumenti celebrativi, come il soldato russo alto sei metri che incombeva sulla città dalla collina di Géllert, di fronte al Danubio. Il problema si pose subito dopo il ritiro definitivo delle truppe sovietiche, nel giugno del 1991. Cosa fare dei simboli di un mondo che ormai apparteneva al passato? Distruggerli sarebbe stato come non voler fare i conti con una memoria storica da elaborare e tramandare alle nuove generazioni. La municipalità di Budapest stabilì dopo accesi dibattiti che oltre quarant’anni di dittatura non potevano essere semplicemente abbattuti a colpi di ruspa e bandì un concorso pubblico per la creazione di un parco-museo sui generis. Non un pantheon ma piuttosto un cimitero delle statue dell’era sovietica. Fu selezionato il progetto di un giovane architetto emergente e nel 1993 venne inaugurato il Memento park, che proprio quest’anno celebra i suoi primi venticinque anni di attività. Si trova all’estrema periferia di Budapest e la sua collocazione rappresenta già una metafora del rapporto ambivalente che gli ungheresi hanno nei confronti del comunismo. Allontanare ma non rimuovere. Ricordare ma non rimpiangere una dittatura che causò milioni di morti. Poco più di mezz’ora di viaggio dal centro cittadino e il bus si ferma davanti a un podio sormontato dagli stivali di Stalin. È la replica di quello che un tempo si trovava in piazza degli Eroi, il luogo delle grandi parate del Primo maggio. La statua del dittatore, alta otto metri, fu abbattuta dalla popolazione durante la rivolta del 1956. Soltanto gli stivali rimasero al loro posto. Il resto del corpo fu fatto a pezzi e portato via come souvenir. Molti ungheresi conservano ancora in casa un frammento di quella statua.
La statua di Stalin al centro della piazza degli Eroi fino al 1956
L’entrata del parco è un muro perimetrale con gli elementi caratteristici tipici dell’architettura socialista. Su uno dei portoni in ferro battuto sono stati incisi i versi della poesia “Una frase sulla tirannia” composta dallo scrittore ungherese Gyula Illyés nel periodo più buio dello stalinismo. Ai lati, due nicchie centinate ospitano a sinistra una grande statua di Lenin, a destra Marx e Engels in stile cubista. Un tempo, i monumenti ai due filosofi si trovavano davanti alla sede centrale del partito comunista. Il grande parco è privo di alberi, circondato dal silenzio che avvolge le 42 statue, grandiose, inquietanti, alcune dall’indubbio valore artistico. Molte furono realizzate dallo scultore ungherese Zsigmond Kisfaludi Strobl, che il partito dichiarò “artista del popolo”. Ritraggono Lenin, Marx ma anche celebrità locali come Bela Kun, il leader della breve repubblica comunista del 1919, e Ilya Ostapenko, il soldato sovietico che cadde nel 1944 durante l’assedio di Budapest. La sua statua è rimasta per anni all’imbocco dell’autostrada che scende a sud verso il lago Balaton, segnando la geografia urbana della capitale. “Era un luogo di incontro abituale, da dove partivano le gite degli studenti ed è forse l’unico monumento di cui gli ungheresi non più giovani sentono in qualche modo la mancanza”, spiega Ákos Réthly, direttore del parco. Assai meno rimpianta è invece la statua del soldato sovietico “liberatore” che fu realizzata per commemorare la fine dell’occupazione nazista, il 4 aprile 1945. Mostra il soldato semplice dell’Armata Rossa Vasili Ivanovich Golovcov con un mitra PPSh-41 a tracolla e una bandiera con la falce e il martello in mano. Fino al 1991 faceva parte del grandioso monumento alla liberazione che sormonta ancora la collina più alta di Budapest. Nel vicino memoriale all’amicizia ungherese-sovietica l’eloquenza della pietra appare inequivocabile. Il lavoratore ungherese mostra gratitudine stringendo la mano del soldato sovietico con entrambe le sue, mentre il militare risponde freddamente con una mano sola. Ma la statua più imponente è quella dedicata alla repubblica dei Soviet del 1919. Ispirata al famoso poster di propaganda di Róbert Berény che incoraggiava al reclutamento (“Alle armi! Alle armi!”), un tempo si trovava nel parco Városliget, in pieno centro, dov’è stata a lungo dileggiata dagli abitanti di Budapest. “Osservandola dalla giusta prospettiva si poteva vedere un gigante in corsa in mezzo agli alberi”, ricorda Réthly. “Fu ribattezzato il ‘guardarobiere’ perché sembrava che rincorresse un cliente per restituirgli la sciarpa”.
Ma fin dalla sua apertura il Memento park si è trovato su un crinale scivoloso, poiché per molti ungheresi queste statue restano il simbolo di un passato fatto di paura e repressione. “In realtà questo non è un monumento al comunismo, bensì al crollo del comunismo – sostiene Réthly – ai visitatori non abbiamo mai imposto alcuna lettura specifica del nostro passato”. Il parco è di proprietà del governo ma è gestito da un’associazione che non percepisce alcun finanziamento pubblico e in un quarto di secolo non ha mai attirato eventi o raduni politici. In compenso vengono organizzate visite guidate in più lingue, programmi pedagogici per le scuole e ogni anno arrivano circa quarantamila visitatori, con la stessa proporzione di stranieri e locali. “Il disprezzo degli ungheresi per quell’epoca non nasce da una generica opposizione nei confronti del socialismo ma dalla perdita dell’autonomia nazionale causata dal dominio sovietico”, ci spiega László, attivista 38enne del partito operaio ungherese nato dalle ceneri del Magyar Szocialista Munkáspárt di János Kádár, rimasto al potere oltre trent’anni dopo che Mosca soffocò nel sangue la rivolta del 1956. Oggi è un piccolo partito che non ha mai ottenuto alcun seggio in parlamento. Ma le elezioni della primavera scorsa hanno condannato a un ruolo marginale anche i socialisti, lanciando le destre populiste al 70%. Un tempo gli ungheresi si battevano per riconquistare contro l’Urss quella sovranità nazionale che adesso il governo di Viktor Orban vuole difendere dall’Ue. A qualsiasi costo. Persino litigando con Bruxelles su un progetto di legge presentato dal parlamento magiaro che vorrebbe bandire la stella rossa dal logo della birra Heineken, poiché ritenuto un simbolo del totalitarismo. E come se non bastasse, la mostra di Frida Kahlo in corso alla Galleria nazionale di Budapest è stata attaccata duramente dal giornale di destra Magyar Idők perché “promuoverebbe il comunismo”. Ai pochi nostalgici del tempo che fu non resta che consolarsi nel piccolo negozio di souvenir del Memento park, che vende i cd con le canzoni dell’era sovietica insieme a vari oggetti a tema, spesso declinati in modo ironico.
RM
Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow, uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ‘30. Da allora il dibattito storiografico ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause scatenanti di quella carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla ‘un atto di genocidio’, con le implicazioni politiche che ne deriverebbero. Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dalla strenua opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini – alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ‘90 -, nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.
Com’è già stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di “spezzare la schiena alla classe contadina”, e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan. Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti – come racconta Applebaum – affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanoff. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina – essenzialmente conservatrice e anti-comunista – non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ‘20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano nelle case e nelle fattorie, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga della popolazione. Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Unione Sovietica non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini.
Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche soltanto di una buccia di patata era passato per le armi. Applebaum spiega che la carestia non fu causata direttamente dalla collettivizzazione ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, nonché delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare. Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma poi su tutti gli aspetti storiografici e politici della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a questa tragedia, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che per decenni hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e infine manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono neanche di provare a raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del Christian Science Monitor scrisse che i cronisti stranieri “lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa”. Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la Convenzione sul genocidio. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.
RM