Il socialismo ungherese è un affare per piccioni

Venerdì di Repubblica, 5.10.2018

Nulla al mondo è più invisibile dei monumenti, diceva Robert Musil. Ma gli ungheresi sembrano pensarla diversamente. Fino a qualche anno fa le strade e le piazze di Budapest erano ancora solcate da decine di gigantesche statue risalenti all’era sovietica. Ingombranti riproduzioni di Stalin, di Lenin, di Marx e un numero imprecisato di monumenti celebrativi, come il soldato russo alto sei metri che incombeva sulla città dalla collina di Géllert, di fronte al Danubio. Il problema si pose subito dopo il ritiro definitivo delle truppe sovietiche, nel giugno del 1991. Cosa fare dei simboli di un mondo che ormai apparteneva al passato? Distruggerli sarebbe stato come non voler fare i conti con una memoria storica da elaborare e tramandare alle nuove generazioni. La municipalità di Budapest stabilì dopo accesi dibattiti che oltre quarant’anni di dittatura non potevano essere semplicemente abbattuti a colpi di ruspa e bandì un concorso pubblico per la creazione di un parco-museo sui generis. Non un pantheon ma piuttosto un cimitero delle statue dell’era sovietica. Fu selezionato il progetto di un giovane architetto emergente e nel 1993 venne inaugurato il Memento park, che proprio quest’anno celebra i suoi primi venticinque anni di attività. Si trova all’estrema periferia di Budapest e la sua collocazione rappresenta già una metafora del rapporto ambivalente che gli ungheresi hanno nei confronti del comunismo. Allontanare ma non rimuovere. Ricordare ma non rimpiangere una dittatura che causò milioni di morti. Poco più di mezz’ora di viaggio dal centro cittadino e il bus si ferma davanti a un podio sormontato dagli stivali di Stalin. È la replica di quello che un tempo si trovava in piazza degli Eroi, il luogo delle grandi parate del Primo maggio. La statua del dittatore, alta otto metri, fu abbattuta dalla popolazione durante la rivolta del 1956. Soltanto gli stivali rimasero al loro posto. Il resto del corpo fu fatto a pezzi e portato via come souvenir. Molti ungheresi conservano ancora in casa un frammento di quella statua.

La statua di Stalin al centro della piazza degli Eroi fino al 1956

L’entrata del parco è un muro perimetrale con gli elementi caratteristici tipici dell’architettura socialista. Su uno dei portoni in ferro battuto sono stati incisi i versi della poesia “Una frase sulla tirannia” composta dallo scrittore ungherese Gyula Illyés nel periodo più buio dello stalinismo. Ai lati, due nicchie centinate ospitano a sinistra una grande statua di Lenin, a destra Marx e Engels in stile cubista. Un tempo, i monumenti ai due filosofi si trovavano davanti alla sede centrale del partito comunista. Il grande parco è privo di alberi, circondato dal silenzio che avvolge le 42 statue, grandiose, inquietanti, alcune dall’indubbio valore artistico. Molte furono realizzate dallo scultore ungherese Zsigmond Kisfaludi Strobl, che il partito dichiarò “artista del popolo”. Ritraggono Lenin, Marx ma anche celebrità locali come Bela Kun, il leader della breve repubblica comunista del 1919, e Ilya Ostapenko, il soldato sovietico che cadde nel 1944 durante l’assedio di Budapest. La sua statua è rimasta per anni all’imbocco dell’autostrada che scende a sud verso il lago Balaton, segnando la geografia urbana della capitale. “Era un luogo di incontro abituale, da dove partivano le gite degli studenti ed è forse l’unico monumento di cui gli ungheresi non più giovani sentono in qualche modo la mancanza”, spiega Ákos Réthly, direttore del parco. Assai meno rimpianta è invece la statua del soldato sovietico “liberatore” che fu realizzata per commemorare la fine dell’occupazione nazista, il 4 aprile 1945. Mostra il soldato semplice dell’Armata Rossa Vasili Ivanovich Golovcov con un mitra PPSh-41 a tracolla e una bandiera con la falce e il martello in mano. Fino al 1991 faceva parte del grandioso monumento alla liberazione che sormonta ancora la collina più alta di Budapest. Nel vicino memoriale all’amicizia ungherese-sovietica l’eloquenza della pietra appare inequivocabile. Il lavoratore ungherese mostra gratitudine stringendo la mano del soldato sovietico con entrambe le sue, mentre il militare risponde freddamente con una mano sola. Ma la statua più imponente è quella dedicata alla repubblica dei Soviet del 1919. Ispirata al famoso poster di propaganda di Róbert Berény che incoraggiava al reclutamento (“Alle armi! Alle armi!”), un tempo si trovava nel parco Városliget, in pieno centro, dov’è stata a lungo dileggiata dagli abitanti di Budapest. “Osservandola dalla giusta prospettiva si poteva vedere un gigante in corsa in mezzo agli alberi”, ricorda Réthly. “Fu ribattezzato il ‘guardarobiere’ perché sembrava che rincorresse un cliente per restituirgli la sciarpa”.
Ma fin dalla sua apertura il Memento park si è trovato su un crinale scivoloso, poiché per molti ungheresi queste statue restano il simbolo di un passato fatto di paura e repressione. “In realtà questo non è un monumento al comunismo, bensì al crollo del comunismo – sostiene Réthly – ai visitatori non abbiamo mai imposto alcuna lettura specifica del nostro passato”. Il parco è di proprietà del governo ma è gestito da un’associazione che non percepisce alcun finanziamento pubblico e in un quarto di secolo non ha mai attirato eventi o raduni politici. In compenso vengono organizzate visite guidate in più lingue, programmi pedagogici per le scuole e ogni anno arrivano circa quarantamila visitatori, con la stessa proporzione di stranieri e locali. “Il disprezzo degli ungheresi per quell’epoca non nasce da una generica opposizione nei confronti del socialismo ma dalla perdita dell’autonomia nazionale causata dal dominio sovietico”, ci spiega László, attivista 38enne del partito operaio ungherese nato dalle ceneri del Magyar Szocialista Munkáspárt di János Kádár, rimasto al potere oltre trent’anni dopo che Mosca soffocò nel sangue la rivolta del 1956. Oggi è un piccolo partito che non ha mai ottenuto alcun seggio in parlamento. Ma le elezioni della primavera scorsa hanno condannato a un ruolo marginale anche i socialisti, lanciando le destre populiste al 70%. Un tempo gli ungheresi si battevano per riconquistare contro l’Urss quella sovranità nazionale che adesso il governo di Viktor Orban vuole difendere dall’Ue. A qualsiasi costo. Persino litigando con Bruxelles su un progetto di legge presentato dal parlamento magiaro che vorrebbe bandire la stella rossa dal logo della birra Heineken, poiché ritenuto un simbolo del totalitarismo. E come se non bastasse, la mostra di Frida Kahlo in corso alla Galleria nazionale di Budapest è stata attaccata duramente dal giornale di destra Magyar Idők perché “promuoverebbe il comunismo”. Ai pochi nostalgici del tempo che fu non resta che consolarsi nel piccolo negozio di souvenir del Memento park, che vende i cd con le canzoni dell’era sovietica insieme a vari oggetti a tema, spesso declinati in modo ironico.
RM

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