Quanto valgono le vite dei palestinesi

Soulayma Mardam Bey (da Internazionale)


Andrey Kozlov, Shlomi Ziv e Noa Argamani. Tre di loro hanno intorno ai vent’anni, uno è sulla quarantina. Sono stati tutti catturati al festival di musica elettronica Nova durante il sanguinoso attacco condotto il 7 ottobre da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi in Israele. Sono stati liberati l’8 giugno durante un’operazione israeliana nel campo di Nuseirat, che si trova nel centro della Striscia di Gaza.

Si chiamano Almog, Andrey, Shlomi e Noa. Sono ebrei israeliani. Hanno nomi e volti. Hanno famiglie, amici e hobby. Come tutti gli esseri umani, possono provare una serie di emozioni: tristezza, paura, gioia, sollievo. Come la maggior parte degli esseri umani, amano i loro genitori, e sono ricambiati. Come tutti gli esseri umani, sono felici di riabbracciarli dopo aver pensato che non li avrebbero più rivisti. I mezzi d’informazione occidentali raccontano storie particolari che possono aspirare all’universale: tutti devono potersi identificare con queste persone, perché rappresentano l’umanità. Si chiamano Almog, Andrey, Shlomi e Noa. Avrebbero potuto essere rilasciati con un accordo tra Israele e Hamas, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi hanno voluto diversamente. <b>Duecentosettantaquattro: secondo il ministero della sanità di Gaza è il numero di palestinesi, in maggioranza civili, uccisi dall’esercito israeliano nei bombardamenti sul campo di Nuseirat. Stando a questa cifra, una vita israeliana vale 68,5 vite palestinesi</b>. Non c’è neanche bisogno di arrotondare. I palestinesi sono abituati alla frammentazione: quella dei loro spazi, della loro nazione, dei loro corpi. Possono avere dei volti, ma restano anonimi. Figure urlanti o affrante che cercano i resti dei parenti sotto le macerie. Danni collaterali senza nome. Le loro passioni, i loro sogni, le loro speranze: non ne sapremo nulla perché non sono nulla. Le fosse comuni di bambini hanno un odore diverso a seconda dell’identità dell’uccisore. Il dolore cambia a seconda della nazionalità della vittima. Dopo l’annuncio della liberazione dei quattro ostaggi, Israele è piombato nell’euforia. “Continueremo ad agire con determinazione e forza, in conformità al nostro diritto a difenderci”, ha dichiarato il ministro degli esteri Israel Katz riferendosi ai 120 ostaggi ancora nel territorio palestinese. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha salutato l’operazione di salvataggio senza commentare il massacro dei palestinesi. Lo stesso hanno fatto il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Rishi Sunak. Questo silenzio non sorprende. Si spiega innanzitutto con l’identificazione di gran parte della classe politica e dei mezzi d’informazione occidentali con Israele. C’era già prima del 7 ottobre, ma si è rafforzata in seguito. È un fatto che riguarda sia le estreme destre, felici di trovare nello stato ebraico il laboratorio del futuro che immaginano per l’occidente – uno spazio in cui “l’altro” un tempo colonizzato rimane un nativo da sottomettere –, sia le correnti liberali “doc” che percepiscono Israele come il paese uscito dal loro grembo, il custode della civiltà e dell’illuminismo in una regione arabofona considerata oscurantista e arretrata. A questo si aggiungono le ferite causate dagli attacchi jihadisti compiuti dal gruppo Stato islamico (Is) contro i civili in diversi paesi europei, a partire dalla Francia. Molti cittadini si riconoscono nelle vittime dei massacri commessi il 7 ottobre perché pensano di poter essere uccisi nello stesso modo. Poco importa che siano contesti diversi e che Hamas e l’Is rispondano a logiche diverse. D’altra parte, questi stessi cittadini europei sanno che non moriranno mai nei bombardamenti, non vivranno assedi, non dovranno subire l’arbitrarietà di un sistema carcerario coloniale come quello israeliano. Spesso tendiamo a credere che quello che ci riguarda sia più grave di quello che riguarda gli altri. A volte pensiamo che quello che non ci tocca non esista. Nel mondo di Biden, Macron e Sunak la violenza dei colonizzati non si spiega. È culturale. È patologica. La violenza dei colonizzatori, invece, ha cause razionali. Obiettivi specifici. E chi vi ricorre lo fa con riluttanza, perché non ha altra scelta. Il fatto che Israele massacri centinaia di civili per liberare quattro ostaggi detenuti nel territorio palestinese è, in fondo, un male a fin di bene. Che Hamas massacri centinaia di civili per liberare le migliaia di prigionieri politici che marciscono nelle carceri dell’occupante è una vergogna. Dal punto di vista occidentale dominante, è impensabile mettere sullo stesso piano ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi. Dietro questo malinteso c’è un pregiudizio duro a morire sulla natura del regime sionista. Nella percezione di Washington, Parigi e Londra, Israele è uno stato di diritto. Il suo sistema giudiziario è forse imperfetto, ma non è arbitrario. Non è governato dalla crudeltà degli stati totalitari o autoritari. Eppure l’inferno delle prigioni israeliane modella la vita dei palestinesi. Dal 1967 quasi il 40 per cento degli uomini palestinesi è stato, in un momento o nell’altro, detenuto. Nei tribunali militari le confessioni sono usate come prova, ma sono ottenute senza un processo equo e facendo notevoli pressioni sugli accusati. Per non parlare della sistematicità dei maltrattamenti. Qualunque cosa pensino i suoi alleati liberali, Israele è guidato dalla stessa logica dei vicini regionali: i popoli arabi capiscono solo la forza. Devono essere controllati, schiacciati, e il loro potenziale rivoluzionario deve essere soffocato. La prigione permette d’impedire qualsiasi alternativa politica all’Autorità nazionale palestinese – i cui esponenti sono considerati dei collaborazionisti da molti palestinesi – e a Hamas. <b>La storia che si sta scrivendo a Gaza parla di vite. Di quelle che contano e di quelle che non contano</b>. La linea oltranzista di Netanyahu racconta la storia del sionismo così come è sempre stato subìto dai palestinesi, anche se la sua brutalità oggi raggiunge livelli senza precedenti: perché alcuni si sentano al sicuro, gli altri devono sentire ogni giorno il fiato dell’occupazione e della colonizzazione sul collo. Perché alcuni possano vivere, gli altri devono morire.

6 pensieri riguardo “Quanto valgono le vite dei palestinesi”

  1. Rojhilatê Kurdistanê (Kurdistan iraniano): impiccagione in vista per altre tre donne curde dissidenti

    Gianni Sartori

    COME IN SUDAFRICA ALL’EPOCA DELL’APARTHEID, IN IRAN LE “FORCHE DELLA VERGOGNA”  CONTINUANO A MIETERE VITTIME TRA I DISSIDENTI  (SOPRATTUTTO – ma non solo – QUELLE CURDE)

    Non pare proprio attenuarsi la politica repressiva (al limite del genocidio) del regime iraniano nei confronti dei dissidenti curdi. E contro le donne in particolare.

    Arrestata con alcuni familiari il 6 giugno 2023, Pakhshan Azizi (da anni militante attiva in difesa dei diritti delle donne ) e poi rinchiusa nel carcere di Evin, in questi giorni è stata condannata alla pena capitale dal Tribunale “rivoluzionario” islamico di Teheran. Accusata di far parte del PJAK (Partito per una vita libera del Kurdistan), in oltre 15 mesi di isolamento aveva subito torture sia fisiche che psicologiche.

    Solo un paio di settimane fa (il 14 luglio) la sindacalista curda Mohammadi era stata ugualmente condannata a morte dal tribunale “rivoluzionario” islamico di Rasht (capitale della provincia di Guilan, la località dove era stata arrestata il 5 dicembre 2023) per “partecipazione a ribellione armata”. Attiva da oltre un decennio in un sindacato legale, si era opposta pubblicamente alle torture e alle esecuzioni extragiudiziali nelle carceri iraniane. Anche Sharifeh è stata detenuta in totale isolamento per circa tre mesi, senza possibilità di ricevere visite o di poter avere contatti telefonici con i figli. Inoltre l’11 giugno di quest’anno era stato arrestato anche suo marito.

    E presto il cappio potrebbe stringersi al collo anche di un’altra militante curda, Warisheh Moradi.Era stata arrestata un anno fa a Sine (Sanada) in quanto esponente di KJAR (Società delle donne libere del Kurdistan orientale) ora su di lei incombe la concreta minaccia di una condanna a morte.

    Ma naturalmente le forche iraniane non vengono innalzate solo per i dissidenti curdi.

    E’ di questi giorni l’ennesimo appello di Amnesty International (a cui ci associamo) per l’accademico svedese-iraniano Ahmadreza Djalali, docente e ricercatore (in medicina dei disastri e assistenza umanitaria) in diverse università europee (Belgio, Italia, Svezia…).

    Arrestato nell’aprile 2016 e accusato arbitrariamente di “spionaggio e collaborazione con Israele”, avendo ormai esaurito tutte le vie legali per annullare la condanna a morte, si trova in una situazione di rischio imminente di esecuzione.

    Come da manuale, è stato sottoposto a isolamento carcerario, maltrattamenti e torture (per farlo “confessare”). Inoltre le sue condizione di salute si vanno aggravando seriamente.

    Il suo processo è stato definito “iniquo” da A.I. che ne chiede l’immediata scarcerazione.

    Dichiarandosi sempre innocente (e dicendosi convinto che le prove siano state fabbricate ad arte) , il 26 giugno era entrato in sciopero della fame (forse, ma non si sa con certezza, attualmente sospeso).

    Gianni Sartori

  2. CHI HA MAGGIOR INTERESSE AD ALIMENTARE IL CAOS E LE FAIDE TRA LE POPOLAZIONI MEDIO-ORIENTALI ?

    Gianni Sartori

    TRA “GOSSIP” FORSE DI CATTIVO GUSTO E MALCELATE TENTAZIONI COMPLOTTISTE, LA TRAGEDIA DEI BAMBINI DRUSI MASSACRATI NEL GOLAN SOTTO OCCUPAZIONE ISRAELIANA ALIMENTA SIA L’INFINITO ROSARIO DI VITTIME INNOCENTI DELLE GUERRE SPORCHE, SIA LA COMPLESSITA’ (CONFUSIONE?) DEL GROVIGLIO MEDIORIENTALE.

    Probabilmente Walid Jumblatt non era mai assurto agli onori della cronaca (perlomeno non solo di quella “locale”, libanese) come all’epoca della sua presunta relazione adulterina con la moglie di Moravia, conosciuta, pare, nel 1986 alle esequie di Olof Palme. A cui il leader druso libanese presenziava in quanto presidente (dal 1977 al 2023) del Partito Socialista Progressista (fondato da suo padre Kamal Jumblatt) che aderiva alla Internazionale socialista

    Un partito – il PSP – sia laico che confessionale, in quanto rappresentante della maggioranza dei drusi libanesi dello Shuf (regione del SE di Beirut). Solo una piccola minoranza dei drusi libanesi aderisce al partito concorrente Yazbaki (legato ad un’altra importante famiglia drusa, quella degli Arslan).

    Memore del fatto che esistono fondati sospetti sulle responsabilità siriane nella morte del fondatore Kamal Jumblatt (nel 1977), nel 2009 il PSP partecipò alle elezioni legislative con la coalizione anti siriana (“Alleanza del 14 marzo, poi risultata vincitrice) insieme al Movimento del Futuro (sunnita), alle Forze Libanesi e alle Falangi Libanesi (entrambe espressione della comunità cristiano-maronita).

    Tutto questo tornava alla mente ripensando alla strage di minori drusi nel Golan (in contemporanea, va detto, con l’ennesima perpetrata contro i bambini palestinesi di Gaza). Così come veniva da pensare allo scontato “cui prodest ?”.

    Come allontanare infatti il sospetto che in fondo una milizia drusa – agguerrita e animata da propositi vendicativi nei confronti dei responsabili della strage – come quella legata al PSP, potrebbe (condizionale d’obbligo) far comodo a “qualcuno” (stabilite voi chi).

    I drusi – ricordo – costituiscono un ben preciso gruppo etno-religioso (arabo, monoteista, di derivazione sciita-ismaelita) e sono presenti, oltre che in Libano, in Siria, Israele, Giordania e nella diaspora. Di quelli che vivono nel Golan (territori siriani sotto occupazione israeliana) si era parlato circa un anno fa quando, il 20 giugno 2023, i militari israeliani avevano impedito manu militari agli abitanti di Al-Hafair (a est di Masada) di accedere ai loro campi.
    Dove si voleva realizzare, malgrado l’opposizione sia dei proprietari dei terreni, sia della stragrande maggioranza degli abitanti (circa 25mila persone), un progetto di “energia pulita” eolica denominato Giant Turbines. Progetto che implica l’esproprio di oltre seimila ettari (per ora) di terreni agricoli per l’installazione di gigantesche turbine alte sui 200 metri. Ovviamente non si tratta dei primi espropri arbitrari dato che molti altri terreni sono già stati confiscati per realizzarvi una trentina di insediamenti coloniali (come avviene regolarmente in Cisgiordania).

    Le proteste degli autoctoni erano presto degenerate in scontri con centinaia di persone intossicate dai gas lacrimogeni (forse, azzardo, i CS spesso impiegati da Israele contro i palestinesi) e altre ferite (anche gravemente) dai proiettili di plastica. Allo sciopero generale indetto per protesta contro la dura repressione, l’esercito israeliano rispondeva mobilitando le forze speciali e istituendo numerosi posti di blocco.

    Sempre l’anno scorso, contro tale progetto il governo siriano era intervenuto duramente presso il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

    In ogni caso appare quantomeno opinabile la presa di pozione di Israele in difesa dei drusi vittime (effetto collaterale involontario o deliberato ?) del tiro incrociato in una guerra che non gli appartiene.

    Gianni Sartori

  3. AFRIN: COME CALPESTARE I DIRITTI DEI CURDI IN NOME DEI PALESTINESI

    Gianni Sartori

    In nome di una malintesa solidarietà con i palestinesi di Gaza, i mercenari filoturchi impongono ulteriori balzelli alla popolazione nei territori occupati della Siria. Meno gradito – pare – l’invio nel nord dell’Iraq contro i curdi del PKK

    Sinceramente bisognerà inventarsi qualcos’altro. Ormai dell’autodeterminazione dei popoli rimane ben poco. Usata (e gettata) in base all’opportunità (a geometria variabile), strumentalizzata, sostanzialmente tradita.

    L’ultimo esempio in ordine di tempo, una “imposta per Gaza” ideata dalla Liwa Sultan Suleiman Shah (Brigata Sultan Suleiman Shah) nel distretto di Mobata (cantone curdo di Afrin sotto occupazione turca dal marzo 2018).

    Tale brigata, fondata nel 2016 e affiliata all’Esercito Siriano Libero, è costituita principalmente da combattenti turcomanni siriani (ma pare sotto il comando di ufficiali turchi). Già nota per essere stata impiegata da Ankara (nel quadro del progetto di espansione turco) in Siria (in particolare contro i curdi), contro gli armeni (v. Alto Karabakh, a fianco degli azeri), e anche in Libia (v. la “Battaglia di Tripoli”).

    E’ probabile che appartengano a tale formazione la maggior parte dei circa 550 mercenari inviati nel Kurdistan del Sud (Bashur, in territorio iracheno) – in base ai recenti accordi intercorsi tra Ankara e Baghdad – per combattere la guerriglia curda (v. quanto segnalava l’Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo – OSDH).

    Del “corpo di spedizione” filoturco farebbero parte, oltre a quelli della Brigata Sultan Suleiman Shah, anche miliziani provenienti da altre formazioni paramilitari come Sultan Murad. A quanto si dice la partecipazione a tale spedizione non sarebbe entusiastica. Tanto che si è dovuto ricorrere ad arruolamenti forzati.

    La notizia del nuovo balzello è filtrata solo recentemente e ovviamente richiederebbe ulteriori accertamenti. Ma quello che è dato per certo da fonti locali è che le milizie mercenarie della Divisione del Sultano Suleiman Shah (al-Amshat), in stretta collaborazione con il mukhtar del distretto e con qualche esponente del cosiddetto “consiglio locale”, costituito da miliziani filoturchi (tra cui Aref Mohammad Ali Bilal, nome di battaglia “Aref orecchio mozzato”), hanno imposto il versamento – entro 24 ore – di 100 dollari statunitensi per ogni abitazione del distretto. Ufficialmente per “sostenere i palestinesi di Gaza”. Chiunque osasse rifiutarsi di subire supinamente l’estorsione, verrebbe sottoposto (stando a quanto viene diffuso con un minaccioso messaggio audio di Aref Mohamed Ali Bilal) alle “peggiori forme di tortura fisica e psicologica”.

    Sempre stando a quanto sostengono le fonti locali, in questi giorni si va intensificando e inasprendo il controllo degli abitanti da parte delle milizie di al-Amshat. Con verifiche dell’identità dei cittadini in base alle liste in mano dei mercenari. E chiunque non paga le imposte arbitrariamente stabilite rischia di venir sequestrato in modo da costringere i familiari a pagarne il riscatto.

    Particolarmente disgustoso che tutto questo avvenga (sotto la supervisione turca ovviamente) in nome del popolo palestinese. Un popolo oppresso e calpestato così come quello curdo (anche se da governi contrapposti). Un modo per allargare ulteriormente (vedi in precedenza i rifugiati palestinesi insediati nei territori curdi del nord della Siria attualmente sotto occupazione turca) la frattura tra le due popolazioni, in passato unite dalla comune lotta internazionalista e antimperialista.

    Del resto non questa la prima tassazione arbitraria imposta dalle milizie mercenarie nei distretti di Shehra e Mobata: 500 lire turche per ogni albero di noce, 300 dollari statunitensi per ogni pozzo artesiano, 200 dollari statunitensi per ogni negozio.

    Gianni Sartori

  4. PAKISTAN: TERRORISMO DI MARCA SETTARIA O STRATEGIA DELLA TENSIONE?

    Gianni Sartori

    Sempre più spesso ci tocca consatare come molte lotte di natura indipendentista (di “liberazione”) vengano strumentalizzate (degenerando rispetto alle rivendicazioni originarie) per qualche “regolamento di conti” tra le varie potenze regionali. Forse è anche il caso del Belucistan

    Per cui appare arduo collocare i recenti massacri di natura settaria perpetrati in Pakistan da un presunto (soidisant…?) Fronte di Liberazione del Belucistan.

    Quantomeno bisogna ricordare altri avvenimenti, non necessariamente collegati, ma in qualche modo “sincronici”.

    Dalla ribellione innescata dai giovani in Bangladesh che ha portato alla cacciata e fuga (in India) della prima ministra Sheikh Hasina (e sui cui aleggia – così come aleggiava sulla defenestrazione nel 2022 del leader pakistano Imran Khan e del suo PTI – il sospetto di “rivoluzione colorata”, manovrata fomentando anche movimenti islamisti) alla recente visita del leader indiano Shri Narendra Modi a Kiev interpretata come una “andata a Canossa” per espiare (dopo la tirata d’orecchi di Washington) in qualche modo l’eccesso di equidistanza (pendente verso Mosca) nella guerra tra Russia e Ucraina. Osservando quel che accade in Pakistan e in Bangladesh si deve sempre tener conto di un possibile ruolo dell’India (e viceversa). Non solo quando si tratta del conteso Kashmir, ma anche per la regione del Punjab (divisa in due dalla frontiera indo-pakistana).

    E poi, dato che qui si parla di Belucistan, non si può trascurare ovviamente l’Iran. Se il Belucistan “pakistano” costituisce circa il 48% del Paese (la più vasta provincia del Pakistan con ben 347.190 km²), in Iran (province di Sīstān e Balūcistān) arriva a coprire 181.785 km² del territorio (a cui va aggiunta una piccola porzione delle aree meridionali dell’Afghanistan). E come in Pakistan, ormai da decenni anche le province iraniane di Sīstān e Balūcistān sono percorse da fermenti separatisti dei Beluci.

    Il 16 febbraio di quest’anno Teheran aveva bombardato con aerei e droni il territorio pakistano per colpire le basi di un gruppo separatista del Belucistan Jaish ul-Adl. Gruppo considerato salafita e jihadista e già noto in quanto responsabile nel 2019 dell’uccisione di 27 membri del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica.

    L’operazione iraniana sul territorio pakistano era avvenuta a un giorno di distanza da un’altra analoga condotta in Irak.

    Entrambe come risposta agli attacchi rivendicati dallo Stato islamico a Kermal (3 gennaio 2024) e a quello di Rask del 15 dicembre 2023 (undici poliziotti uccisi) rivendicato da Jaish ul-Adl.

    Ovviamente il Pakistan aveva protestato vigorosamente per questa violazione dello spazio aereo. Accusando l’Iran di aver provocato la morte di alcuni bambini.

    Insomma un bel casino, un groviglio. Non contate comunque su chi scrive per sbrogliare il bandolo della matassa.

    Cerco solo di “contestualizzare” quanto è avvenuto nel Belucistan “pakistano” alla fine di agosto.

    Questi i tragici eventi.

    Il 26 agosto oltre una ventina di persone (23 quelle accertate, per la maggior parte originarie del Punjab) sono state uccise nel distretto di Musakhail (sud-ovest del Pakistan, Belucistan).

    Stando alle rivendicazioni, i responsabili dell’eccidio appartengono a un gruppo di separatisti beluci, il BLA (Baloch Liberation Army). Una trentina di terroristi avevano installato posti di blocco lungo l’autostrada costringendo a scendere i passeggeri di una ventina di autobus e di alcuni camion e furgoni (poi incendiati). Dopo averne controllato i documenti e l’identità, avevano aperto il fuoco.

    In un’altro attacco (sempre nella nella provincia di Monday), evidentemente coordinato con il primo, una quindicina di persone, ugualmente provenienti dal Punjab, venivano assassinate.

    In un comunicato il BLA aveva rivendicato il grave atto terroristico sostenendo che in realtà sarebbero stati uccisi “soldati in abiti civili” in quanto “la lotta è contro l’esercito pakistano occupante”.

    Una presa di posizione poco convincente se pensiamo ad altri episodi simili.

    Come in aprile quando, nei pressi della città di Naushki, una decina di lavoratori provenienti dal Punjab (e impiegati nell’estrazione delle risorse minerarie), dopo essere stati fatti scendere, venivano ammazzati brutalmente.

    Nelle ore immediatamente precedenti il gruppo separatista aveva assaltato anche una caserma nei pressi di Kalat uccidendo sei agenti e quattro civili. Inoltre erano stati distrutti con l’esplosivo alcuni tratti della rete ferroviaria.

    Da un comunicato del ministro dell’Interno Mohsin Naqvi si è poi appreso che le forze dell’ordine avevano ucciso una dozzina di miliziani (mentre altre fonti dell’esercito pachistano parlavano di una ventina).

    Alla fine le vittime complessive (compresi militari e miliziani beluci) superavano come minimo la settantina.

    Gianni Sartori

  5. KHALIDA JARRAR ANCORA IN ISOLAMENTO
    Gianni Sartori

    Arrestata nel dicembre dell’anno scorso e posta in “detenzione amministrativa”, la femminista palestinese Khalida Jarrar subisce un trattamento inumano

    Risale al 26 dicembre 2023 l’ennesimo arresto per Khalida Jarrar, femminista palestinese e ricercatrice all’Istituto Muwatin dell’Università di Birzeit (oltre che esponente del FPLP già nota per il suo impegno per i prigionieri politici). Ancora una volta, in “detenzione amministrativa” ossia senza accuse né processo. Una eredità del mandato britannico che attualmente viene applicata a 3432 detenuti palestinesi. Solo una parte dei circa diecimila palestinesi – donne, uomini, bambini – detenuti da Israele (per non parlare delle migliaia di abitanti di Gaza rinchiusi nei campi di detenzione).

    Dal 12 agosto Khalida Jarrar si trova (a quanto pare ancora in isolamento) nel carcere di Neve Tirsa, mentre in precedenza era rinchiusa in quello di Damon. In una cella di due metri per 1,5 m. Senza areazione né acqua nonostante le temperature elevate. Ovviamente la sua situazione non costituisce un caso isolato ma è la stessa in cui si trovano gran parte dei prigionieri palestinesi. In particolare (stando alla recente inchiesta della Commissione incaricata della questione dei Prigionieri ed Ex-detenuti) le 84 donne rinchiuse a Damon. Per una ventina di loro la “detenzione amministrativa” è stata recentemente rinnovata. E’ questo il caso della studentessa Layan Kayed. Altre sono state arrestate recentemente, come altre due studentesse, Dania Hanatsheh e Shata Jaraba. Stando a quanto viene riportato nei comunicati della campagna di sostegno ai prigionieri Smantellare Damon, numerose detenute qui stanno scontando condanne di molti anni (come Shatela Abu Ayad dall’aprile 2016 e Nawal Fatiha dal febbraio 2020).

    Il 24 giugno 2024 Khalida Jarrar si è vista rinnovare la “detenzione amministrativa” per un altro periodo di sei mesi.

    Da una dichiarazione del suo avvocato apprendiamo che “i servizi penitenziari israeliani hanno mantenuto Khalida Jarrar (militante per i diritti umani, femminista ed ex membro del Consiglio legislativo palestinese) in isolamento per sette giorni nel carcere di Neve Tirza a Ramleh.

    Qui la prigioniera “soffre di una condizione di isolamento e di detenzione molto dura, in un contesto di severe restrizioni e sottoposta a una sistematica campagna di abusi condotta dalle autorità di occupazione contro i prigionieri (…)”.

    In un comunicato del 20 agosto dell’associazione di difesa dei diritti umani Addameer si denunciava che “il 12 agosto 2024, i servizi di polizia avevano assalito la cella di Khalida Jarrar nel carcere di Damon tirandola fuori a forza e mettendola in un’altra cella sporca e infestata di pulci dove è rimasta a lungo senza essere interrogata”. Il giorno dopo, proseguiva il comunicato “senza preavviso, né spiegazioni” Khalida veniva nuovamente trasferita “senza dirle dove e privata dei suoi indispensabili occhiali che le erano stati sottratti”.

    Tenuta per cinque ore nel Bosta (il veicolo per il trasporto dei detenuti), veniva poi trasferita a Neve Tirza. In isolamento, senza spiegazioni e senza la possibilità di ricevere la visita del suo avvocato, in una cella soffocante con soltanto lo spazio per un materasso. Completamente chiusa, senza finestre (e quindi senza un minimo di aria fresca) con soltanto una minuscola toilette.

    Gianni Sartori

  6. Belgio: le ong protestano per la repressione dei movimenti pro-Palestina

    Gianni Sartori

    Anche Amnesty International e Greenpeace (oltre a un’altra dozzina di associazioni, media e sindacati) contestano la politica repressiva adottata in Belgio nei confronti delle manifestazioni pro-Palestina

    E’ una lista di sigle ben note nel campo della difesa dei diritti sociali, dei diritti umani e dell’ambiente quella di chi ha sottoscritto l’appello del 20 settembre: ABVV-FGTB (Algemeen Belgisch Vakverbond – Fédération Générale du Travail de Belgique), Kif Kif (movimento interculturale antirazzista), Associatione Belgio-Palestina, Greenpeace del Belgio, Soralia, Amnesty International del Belgio, Mouvement Présence et Action Culturelles, Liga voor mensenrechten, Ligue des droits humains, Mouvement Ouvrier Chrétien (MOC), ZIN TV, BelRefugees, CNCD-11.11.11. (Assemblea volontaria per lo sviluppo della cittadinanza mondiale e solidale), Avocats sans frontières.

    Si tratta di alcune delle associazioni che nelle ultime settimane in Belgio hanno manifestato per l’intensificarsi di quella che considerano un’ingiusta repressione dei movimenti a sostegno della popolazione palestinese. Ritenendo che si configuri come una vera e propria violazione del diritto della libertà di espressione.
    Sia le intimidazioni nei confronti di persone che espongono simboli di sostegno alla Palestina (vedi la proibizione di indossare una kefiah), sia le multe per chi ha partecipato alle manifestazioni. Così come la repressione nei confronti di coloro che avevano occupato istituti universitari. Quello che attualmente viene messo in discussione – per Amnesty International e le le altre associazioni firmatari – è nient’altro che “il diritto a protestare”, al dissenso. Con un richiamo esplicito nei confronti delle istituzioni per la vigilanza democratica.

    Nel comunicato si ricorda che dai primi di settembre almeno una settantina di persone (per l’occupazione del campus di Solbosch nell’Universté Libre de Bruxelles – ULB ) hanno ricevuto una convocazione giudiziaria per “appartenenza a un gruppo che sostiene la segregazione e la discriminazione razziale”. Un reato che potrebbe comportare il carcere.

    Al di là delle accuse specifiche (di cui non si è ancora a conoscenza), ciò che preoccupa Amnesty International e le altre ONG è non solamente la grande quantità di persone denunciate, ma la natura stessa delle denunce. L’occupazione, denominata “Université populaire de Bruxelles”, si era conclusa con l’espulsione dei manifestanti il 25 luglio. Oltre a denunciare il gran numero di vittime (circa 40mial) conseguenza dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, sollecitava le autorità accademiche a sospendere le collaborazioni con “le istituzioni accademiche e le aziende sioniste che prendono parte all’oppressione sistematica del popolo palestinese”.

    Inoltre, ricordano sempre le associazioni, negli ultimi tempi diverse decine di persone hanno ricevuto sanzioni amministrative comunali per aver partecipato a manifestazioni pro-palestina (a Bruxelles, a Gand e a Lovanio).

    Ricordano inoltre come i manifestanti siano stati duramente sottoposti alla repressione a Uccle il 28 maggio (manifestazione non autorizzata davanti all’ambasciata israeliana) con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Per le ONG questo potrebbe configurarsi come “contrario al diritto internazionale” in quanto “la mancanza di notifica preventiva alle autorità di un raduno, qualora tale notifica sia richiesta, non rende illegale la partecipazione alla riunione e non è un motivo valido per disperdere la riunione stessa o per arrestare partecipanti e organizzatori o per infliggere sanzioni ingiustificate”.

    La Ligue des droits humains (LDH) si dice particolarmente preoccupata per le pressioni ingiustificate da parte della polizia nei confronti di chi indossa segni di riconoscimento palestinesi (bandiere palestinesi, kefieh…) nei luoghi pubblici

    Minacciandole di arresto qualora si rifiutino di toglierli come è accaduto a Bruxelles e Anversa. Ritenendo che “portare una bandiera palestinese rientri nella libertà di espressione e non costituisca né una minaccia all’ordine pubblico, né un incitamento alla violenza o all’odio”.

    Viene poi ricordato come nel marzo 2024 ZIN TV abbia subito forti pressioni dopo aver ospitato una conferenza sulla “criminalisation des voix palestiniennes dans l’Union européenne”. Analogamento a quanto è capitato ad altri media alternativi.

    Per cui, concludono, a questo punto “è in pericolo il diritto stesso di protestare”.

    Messi tutti insieme questi eventi inviano un “segnale preoccupante”.

    Con singolare tempismo, il giorno successivo alla pubblicazione del comunicato (il 21 settembre) il deputato Denis Ducarme (esponente del Mouvement reformateur- MR e che prende parte ai negoziati per la formazione del nuovo governo) annunciava che avrebbe promosso una legge per interdire l’organizzazione filopalestinese Samidoun.
    Gianni Sartori

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