Ricordo di Enrico Pieri, predicatore laico dell’Europa unita

di Niccolò Rinaldi

Per l’Europa l’anno si conclude con una notizia apparentemente ai margini delle grandi questioni che tengono occupate le istituzioni comunitarie: il 10 dicembre ci ha lasciato Enrico Pieri. Una morte ritardata rispetto all’ora che scoccò per tutta la sua famiglia e per tutta Sant’Anna di Stazzema, il 19 agosto 1944, quando dei soldati tedeschi, guidati da alcuni fascisti “lassù” (il paese è uno di quei posti dove la strada finisce, dopo tanto inerpicarsi) massacrarono tutti. Cinquecentosessanta civili, più che altro donne, bambini e anziani, uccise così, per ragioni mai comprese. Lui si salvò per puro caso, rimanendo dietro la porta che un tedesco spalancò entrando, e mitragliando, in casa sua. A strage compiuta, restò completamente solo; aveva dieci anni.
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L’indifferenza di fronte alla Shoah

Avvenire, 30 settembre 2021

Con un romanzo commovente che ci costringe a interrogarci sulla nostra capacità di distogliere lo sguardo di fronte all’orrore, la scrittrice neozelandese Catherine Chidgey dimostra che esistono ancora modi originali per raccontare l’Olocausto attraverso la letteratura. Nel suo nuovo Vicinanza distante (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pagg. 464, euro 18) Chidgey utilizza tre narrazioni in prima persona per raccontare la storia di altrettanti personaggi i cui destini si intrecciano in una miscela di realtà e finzione che affronta questioni di fede e scienza, di disumanità e speranza con empatia e compassione. Continua a leggere “L’indifferenza di fronte alla Shoah”

I Giusti di Cotignola

Avvenire, 3 marzo 2021

Oltre alla Nonantola di don Arrigo Beccari vi fu un altro comune italiano che durante la Seconda guerra mondiale si mobilitò per salvare gli ebrei dalla ferocia nazi-fascista. Forse meno noto ma ugualmente degno di essere ricordato come esempio di coraggio e resistenza alla barbarie. È Cotignola, piccolo centro della bassa Romagna in provincia di Ravenna, dove tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945 l’intera popolazione – circa seimila abitanti – fece di tutto per impedire la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. E ci riuscì. Tutti uniti in un’impresa eroica che salvò la vita a quarantuno persone sfollate da Bologna e da altre località italiane. Continua a leggere “I Giusti di Cotignola”

Quei piccoli deportati riemersi dalla storia

Avvenire, 20 gennaio 2021

Solo in età adulta Jackie Y. scoprì di aver trascorso la sua prima infanzia in un campo di concentramento. La sua memoria infantile aveva cancellato tutto, spazzando via i ricordi dei suoi primi due anni di vita. I suoi genitori adottivi l’avevano cresciuto senza rivelargli mai le sue vere origini. Neanche un cenno a quanto accaduto durante la guerra. Quando decise di sposarsi, Jackie si mise a cercare la documentazione sulla sua madre biologica e scoprì che il suo vero nome era Jakob Jona Spiegel, era nato a Vienna nel 1942 ed era finito quasi subito nel campo di concentramento nazista di Theresienstadt. In Gran Bretagna l’avevano portato nel 1945 insieme a un gruppo di giovanissimi sopravvissuti all’Olocausto. Continua a leggere “Quei piccoli deportati riemersi dalla storia”

Igiene e distanziamento: così il ghetto di Varsavia sconfisse il tifo

Avvenire, 12 dicembre 2020

Per lo storico polacco Emanuel Ringelblum, fondatore dell’archivio del Ghetto di Varsavia, si trattò di un fenomeno semplicemente inspiegabile. Negli appunti ritrovati dopo la sua fucilazione da parte dei nazisti, lo studioso spiegava che quell’epidemia di tifo scoppiata nel ghetto all’inizio del 1941 doveva aumentare in modo esponenziale fino a raggiungere il suo picco in autunno. Invece la curva dei contagi calò improvvisamente del 40 percento fino a svanire del tutto proprio in concomitanza con l’arrivo del freddo, senza alcuna apparente spiegazione razionale. Continua a leggere “Igiene e distanziamento: così il ghetto di Varsavia sconfisse il tifo”

Sul web il più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo

Avvenire, 18 luglio 2020

Fino a poco tempo fa sembrava una sfida affascinante ma troppo velleitaria per poter essere realizzata in tempi brevi. Poi è arrivata la pandemia e nelle lunghe settimane di isolamento domestico migliaia di persone di tutto il mondo si sono fatte coinvolgere nel progetto che porterà alla completa digitalizzazione del più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo. Era iniziato tutto quasi per caso, all’inizio dell’anno, quando a un gruppo di studenti delle scuole superiori tedesche era stato chiesto di contribuire all’inserimento sul web dei dati degli Arolsen Archives, il cosiddetto “archivio della Shoah”, ovvero ciò che resta dell’ossessione nazista di documentare e catalogare ogni singolo aspetto dello sterminio. Situato nella piccola cittadina tedesca di Bad Arolsen, l’archivio custodisce un patrimonio di oltre quaranta milioni di documenti sulla persecuzione nazista, il lavoro forzato e i sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale. Continua a leggere “Sul web il più grande archivio mondiale sulle vittime del nazismo”

Dall’Etiopia a Salò, le galere del fascismo

Avvenire, 18 luglio 2020

“Fui sbattuto in cella nel campo di prigionia di Danane insieme ai criminali comuni. C’era una sola latrina per quasi duecento prigionieri, da mangiare ci davano cibo avariato e pieno di vermi. Se ci lamentavamo, le guardie dicevano che stavano eseguendo ordini ricevuti dall’alto”. Nel 1937 il giudice della Corte Suprema di Addis Abeba, Michael Bekele Hapte, fu arrestato insieme a molti suoi connazionali dopo il fallito attentato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Tra gli etiopi incarcerati nella rappresaglia c’erano persino bambini come Imru Zelleke, che aveva appena dodici anni quando fu assegnato alle pulizie dell’infermeria del carcere. “Molti detenuti si ammalarono di malaria, di tifo, di scorbuto e di dissenteria”, ricorda Zelleke, che in seguito sarebbe diventato ambasciatore del suo paese. “Oltre seimila persone furono detenute a Danane e meno della metà di esse riuscì a sopravvivere in quelle condizioni”. Le memorie e le testimonianze dirette della vergognosa campagna fascista in Etiopia sono uno dei tasselli che compongono l’approfondito database del centro di documentazione on-line “I campi fascisti. Dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò” consultabile su internet all’indirizzo www.campifascisti.it. Continua a leggere “Dall’Etiopia a Salò, le galere del fascismo”

Quella “città ideale” chiamata Auschwitz

Avvenire, 27 giugno 2020

L’Italia era appena entrata in guerra a fianco di Hitler quando il primo carico di prigionieri arrivò ad Auschwitz, il 14 giugno 1940. Dai carri piombati scesero 732 esseri umani del tutto ignari della sorte mostruosa che il regime nazista aveva deciso per loro. La storia del più famigerato Lager del Terzo Reich inizia ufficialmente in quei giorni ma non si conclude il 27 gennaio 1945 con l’arrivo dell’Armata rossa. Terminata la sua funzione di sterminio, l’ombra di Auschwitz ha attraversato i decenni arrivando fino ai giorni nostri, entrando a far parte della nostra contemporaneità come sinonimo del male assoluto. Ancora oggi, a ottant’anni esatti di distanza, quella “rottura di civiltà” di cui parlò Primo Levi ci costringe a confrontarci con la natura dell’uomo, con il senso della vita e della morte, senza fornirci risposte definitive. Secondo lo storico Frediano Sessi, tra i massimi studiosi italiani dell’Olocausto, “le tensioni, le incomprensioni, le strumentalizzazioni e tutte quelle piccole e grandi fratture che si producono attorno ad Auschwitz denunciano il fatto che esso è ancora un luogo vivo, che interagisce con il presente destabilizzandolo e immettendo inquietudine, come fosse un mostro non ancora sconfitto, solo dormiente, perciò minaccioso”. Continua a leggere “Quella “città ideale” chiamata Auschwitz”

Nella mente di Pol Pot

Avvenire, 17 marzo 2020

“Uomini e donne vestiti di nero. Con la pelle grigia per la malaria e gli anni di stenti passati nella giungla. Con i fucili a tracolla e gli sguardi assenti. Giovanissimi, quasi bambini. Ai cittadini i guerriglieri comunisti sembrano arrivare da un altro pianeta. Ma lo stesso pensarono i khmer rossi dei cittadini, con non troppo celato disdegno. Finalmente si trovano di fronte ai “nemici” di cui tanto avevano sentito parlare, i “capitalisti” che rifiutavano di entrare nella Rivoluzione”. Tiziano Terzani raccontò così l’entrata dei khmer rouge a Phnom Penh, la mattina del 17 aprile 1975. I guerriglieri arrivarono nella capitale cambogiana a piedi, in bicicletta e con qualche camion, senza incontrare alcuna resistenza. Dagli edifici del centro cittadino iniziarono a spuntare bandiere bianche, simbolo di resa, e la popolazione scese in strada per dare il benvenuto ai “liberatori” che avevano abbattuto l’odiato regime filo-statunitense del generale Lon Nol. Nessuno poteva immaginare che quei rivoluzionari di ispirazione comunista e nazionalista avrebbero di lì a poco trasformato il destino del paese in modo apocalittico. Ma poche ore dopo, i khmer rossi iniziarono l’evacuazione forzata di tutti gli abitanti di Phnom Penh, dicendo che si trattava di una misura temporanea per ridurre il sovraffollamento e difendersi da possibili bombardamenti americani. Chi si rifiutava di abbandonare la propria casa veniva fucilato sul posto. Nessuno era autorizzato a restare in città: anche gli ospedali dovevano essere svuotati. Quasi due milioni di persone furono costrette a marciare verso le campagne sotto un caldo infernale. I più partirono a piedi, in bici o su carri trainati da buoi. Vecchi e malati vennero portati via sui lettini degli ospedali. Il trasferimento fu talmente repentino e violento che non mancò di provocare vittime, soprattutto tra i disabili e gli infermi, anch’essi ugualmente obbligati alla marcia forzata. In pochi giorni Phnom Penh venne svuotata completamente e si trasformò in una città fantasma. Era appena iniziata una delle più feroci dittature del XX secolo, che si rese responsabile di un genocidio epocale e senza precedenti nella storia dell’umanità.
I khmer rossi erano nati alcuni anni prima come costola dell’esercito popolare del Vietnam del Nord. Il loro obiettivo era quello di creare una repubblica socialista agraria completamente autosufficiente, in cui i vertici del partito controllavano tutti gli aspetti della vita dei cambogiani. Sotto la guida del loro leader, Pol Pot (detto anche “Fratello numero uno”), avviarono un programma di ingegneria sociale di stampo maoista che prevedeva l’azzeramento della famiglia, del denaro e della religione al fine di creare “l’uomo nuovo”, un rivoluzionario ateo, etnicamente “puro”, privo di affetti o inclinazioni borghesi e dedito esclusivamente al lavoro dei campi, alla patria e alla rivoluzione. Per cercare di comprendere uno dei più grandi drammi dell’era contemporanea, il giornalista britannico Philip Short, già corrispondente della Bbc, ha compiuto un’approfondita indagine sulla vita di Pol Pot intervistando i capi superstiti dei khmer rossi, e passando in rassegna gli archivi cinesi, russi, vietnamiti e cambogiani. Il risultato del suo lavoro è confluito in uno dei testi-chiave sul genocidio cambogiano, Anatomia di un genocidio. Pol Pot e i crimini dei Khmer rossi (già uscito alcuni anni fa per Rizzoli e adesso riproposto dalle edizioni Res Gestae), che traccia il destino di una nazione e di un popolo che quell’uomo portò alla rovina. Continua a leggere “Nella mente di Pol Pot”