Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2020
Per salvare la memoria del più lungo conflitto europeo del ‘900 Malcolm Sutton si è sobbarcato da solo un’opera titanica, estenuante, simile a quelle dei monaci del Medioevo. Ha trascorso anni nelle biblioteche di Belfast, scandagliando meticolosamente i giornali locali, incrociando informazioni, numeri e dettagli. In alcuni casi ha raccolto anche testimonianze dirette e atti processuali. Infine ha compilato un elenco completo e definitivo delle circa 3500 vittime del conflitto in Irlanda del Nord: nomi, volti, storie e una breve descrizione delle circostanze delle morti suddivise per età, status, appartenenza confessionale e area geografica. Ma la cosa forse più sorprendente è che abbia portato a termine un’impresa simile in modo del tutto volontario, senza alcun aiuto o sostegno economico, in un’epoca in cui ancora non esistevano né Internet, né la posta elettronica. “È stata quasi una missione ma all’inizio non mi ero reso conto dell’enormità del lavoro che mi aspettava”, ci racconta al telefono dalla sua casa di Belfast. “Alla metà degli anni ‘80 non sopportavo più di sentire il governo, ai tempi guidato da Margaret Thatcher, che attribuiva all’IRA la responsabilità di quasi tutte le morti e definiva terroristi tutti i civili uccisi dall’esercito britannico. Volevo scoprire qual era il bilancio reale delle vittime e dare a ciascuna di esse una collocazione corretta nel contesto del conflitto. È stato anche un modo per rendere loro giustizia”. Inglese originario del Lancashire, 75 anni, Sutton arrivò per la prima volta in Irlanda del Nord da giovane, nel 1974. Trascorse alcuni mesi a Belfast guidando i bus dei bambini per beneficenza, decise di fermarsi in città e non è più andato via. Ci tiene a precisare che il suo lavoro non è stato mosso da alcun intento politico, “ma soltanto dall’interesse nei confronti degli esseri umani”. “Alla metà degli anni ‘80 mi ritrovai senza lavoro, avevo molto tempo libero e decisi di dedicarmi a questa ricerca, anche per rendermi utile alla comunità dove vivevo. Trascorrevo intere giornate nella biblioteca centrale di Belfast e nell’antica Linen Hall Library, di fronte al municipio, per attingere agli archivi dei quotidiani locali. Cominciai dalle vittime del 1969 – anno in cui si contarono i primi omicidi politici – consultando anche libri, opuscoli e altre pubblicazioni”. Il suo lavoro è durato anni, culminando nella pubblicazione di un libro ormai quasi introvabile (Bear in Mind These Dead. Index of Deaths from the Conflict in Ireland) che elenca tutte le morti dal 1969 al 1993 ed è oggi il punto di partenza imprescindibile per ogni ricerca sul conflitto. Un impegno pionieristico che è servito anche a far luce sulla vera natura del conflitto angloirlandese: “col tempo divenne sempre più evidente che a dominare la scena erano la disinformazione e la propaganda britannica – ci spiega -. Molti omicidi venivano raccontati in modo del tutto fuorviante per far passare il messaggio che l’IRA fosse responsabile di circa il 90 percento delle morti. In poco tempo mi accorsi che non era affatto vero”.
Non a caso nella caserma di Lisburn, a pochi chilometri da Belfast, dove aveva sede il quartier generale dell’esercito britannico in Irlanda del Nord, ha funzionato a partire dai primi anni ‘70 quella che è stata definita la “Lisburn Lie Machine” (la macchina delle menzogne di Lisburn), un ufficio dedicato appositamente alla gestione delle informazioni e alla produzione di falsa propaganda contro la resistenza irlandese. Mentre le operazioni dell’IRA godevano sempre di un risalto clamoroso, gli atti di violenza compiuti dai soldati britannici o dai paramilitari lealisti venivano messi a tacere o a malapena citati, e vittime civili innocenti venivano spesso accusate di crimini immaginari. A guidare quell’ufficio fu chiamato il colonnello Maurice Tugwell, un paracadutista esperto di intelligence con un lungo curriculum di servizio in operazioni controinsurrezionali in Palestina, Malesia, Kenya e Cipro. Anche grazie alla sua esperienza gli inglesi perfezionarono un potente apparato di disinformazione che riuscì a trasformare un’insurrezione anticoloniale in una specie di cospirazione criminale e a descrivere l’operato dell’IRA come la causa del conflitto, invece che la sua diretta conseguenza. “Per anni la propaganda britannica ha continuato a descrivere l’esercito come l’arbitro imparziale che cercava di frapporsi tra due comunità in guerra tra loro”, spiega Sutton, che ribadisce di non aver mai fatto parte di alcun partito o gruppo politico. “Non mi sono mai interessato alla politica ma solo alle storie delle persone che hanno perso la vita a causa del conflitto. Tutte, senza alcuna gerarchia, perché credo che ogni vittima abbia la stessa dignità”. Inevitabile però che la memoria resti legata alle storie più strazianti. Come quella di Patrick Rooney, nove anni, il primo bambino ucciso durante il conflitto. Il 14 agosto 1969 fu colpito a morte nella sua casa di Belfast dai colpi di mitragliatrice sparati da un mezzo blindato della polizia.
Dopo la pubblicazione del libro Sutton è stato chiamato a collaborare con il progetto “Cain” (Conflict Archive on the Internet) dell’università dell’Ulster, una banca dati sul conflitto costantemente aggiornata, il cui nome allude volutamente al Caino della Bibbia, che uccise il fratello Abele. Ma non è mai andato in cerca di soldi o di visibilità e non ha neanche voluto che questa intervista – la prima che rilascia a un giornale straniero – fosse corredata da una sua fotografia. Il suo indice delle vittime si ferma al 2001 ed elenca 3532 morti, poco più della metà attribuibili all’IRA (le altre all’esercito britannico, alla polizia e ai paramilitari lealisti). Ancora oggi continua a collaborare con l’università ma senza apparire mai in pubblico. “La fase più significativa del conflitto è terminata ma non credo che sia finito del tutto – ci confida in conclusione -, perché le ragioni che l’hanno innescato, come l’ingiustizia sociale generata dallo stato britannico, sono rimaste in parte irrisolte. E gli sviluppi futuri, anche alla luce della Brexit, sfuggono a qualsiasi previsione”.