Scontri a Gerusalemme: la realtà capovolta

Quando i riflettori periodicamente tornano ad accendersi sulla “questione mediorientale“, come veniva chiamata negli anni ’80, riferendosi al conflitto israelo-palestinese, c’è qualcosa che si ripete costantemente. Un frullatore mediatico indistinto in cui l’ordine delle parole, la sequenza dei fatti, nell’apparente confusione, è tutt’altro che casuale. L’uso del linguaggio nei media è fortemente ideologico: non dà informazione, conferma una visione delle cose di una parte, cesella la realtà parziale in un quadro immutabile per la percezione dell’opinione pubblica distratta. Continua a leggere “Scontri a Gerusalemme: la realtà capovolta”

Sabra e Shatila: ce lo dissero le mosche

di Robert Fisk – settembre 1982

Robert Fisk, morto ieri all’età di 74 anni, era probabilmente il più grande reporter di guerra vivente. Quello che segue è il celebre reportage che scrisse dal campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, dopo il massacro del 1982.

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Continua a leggere “Sabra e Shatila: ce lo dissero le mosche”

I palestinesi come gli indiani d’America

di Barbara Spinelli
(Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2020)

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.
Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate. A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.
Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.
Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania- Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.
Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia Saudita.
Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.
In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.
Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).
Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.
RM

La sfida di Battir, il villaggio dell'”Intifada verde”

Avvenire, 3 gennaio 2020

Lungo la strada che collega Betlemme a Hebron, a sudovest di Gerusalemme, un palcoscenico di rara bellezza domina la valle di Makhrour. Il verde della vegetazione e degli ulivi si alterna alla terra color ocra lasciando intravedere file di terrazzamenti antichissimi che si srotolano a perdita d’occhio. Appoggiato sulla schiena di due colline sorge il villaggio di Battir: chilometri di terrazzi sostenuti da muretti a secco risalenti al III millennio avanti Cristo, al tempo dei Cananei. Appezzamenti di terra irrigati da un acquedotto romano scavato nella roccia e alimentato da sorgenti millenarie. L’acqua scorre all’ombra di alberi di ulivo e frutteti, lungo piccoli percorsi ricavati nella pietra, raggiunge le terrazze e irriga centinaia di ettari di orti. Nel vasto assortimento di verdure locali, il frutto più apprezzato è la melanzana, la “betinjan battiri”, famosa in Palestina e in tutto il Medioriente per il suo sapore e la sua qualità. Secondo molti libri di storia Battir è il luogo dove si insediarono la comunità bizantina e quella islamica dopo la sconfitta della rivolta ebraica contro i romani (132-136 d.C.). In un passato più recente il villaggio fu soprannominato “il cestino di verdure” di Gerusalemme perché attraverso la ferrovia costruita dagli ottomani ai piedi della valle riforniva i mercati della Città Vecchia con grandi quantitativi di frutta e ortaggi. Anche le donne del villaggio camminavano per ore trasportando in città grandi cesti con i prodotti della terra. Oggi Battir è il cuore della cosiddetta “Intifada verde”, una forma di resistenza nonviolenta basata sulla tutela dell’ambiente e del patrimonio storico dell’area. I suoi abitanti combattono da anni una battaglia silenziosa e ostinata senza armi, né pietre, né manifestazioni ma impugnando carte topografiche, strumenti di rilevazione, pale e picconi. “Tutto ciò che ci circonda è la prova dell’esistenza di un insediamento nell’antichità e rappresenta una ricchezza di valore mondiale che dobbiamo conservare”, ci dice Hassan Muamer, giovane ingegnere ambientale che ci accompagna a visitare il suo villaggio. Da tempo sia la testimonianza di un lontano passato che le terre agricole circostanti sono in grave pericolo. Battir è infatti situato in prossimità del confine con la Linea Verde stabilita dall’Onu del 1948. Da quasi vent’anni vive sotto la costante minaccia che il muro costruito da Israele in Cisgiordania possa arrivare fin qua, privando gli abitanti delle loro terre e danneggiando irreparabilmente l’antico sistema di irrigazione. Anni fa Muamer guidò un gruppo di professionisti, ingegneri ambientali, tecnici e attivisti del villaggio che iniziò a presentare petizioni e ricorsi alla Corte Suprema israeliana per prevenire la confisca delle terre e la costruzione del muro. Con la loro caparbietà riuscirono ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e ottennero persino il sostegno di un organismo governativo, la Israel Nature and Parks Authority. “Denunciammo i danni che il muro avrebbe causato al sistema sociale ed ecologico di Battir, alle sue terrazze di epoca romana, al sistema idrico, all’agricoltura e alla popolazione che se ne è presa cura per generazioni”, spiega. Se la barriera di cemento alta otto metri che serpeggia ovunque in Cisgiordania fosse arrivata anche qua avrebbe privato gli abitanti di parte delle terre agricole che si trovano al di là della Linea Verde, in territorio israeliano. In base a un accordo firmato dopo la guerra del 1948-1949 i residenti di Battir hanno il diritto di raggiungere quelle terrazze coltivate attraversando i binari del treno. “Ci fu assicurato che il muro non avrebbe bloccato l’accesso alle terre ma noi preferimmo non fidarci, perché nei villaggi vicini aveva già provocato lo sradicamento di centinaia di ulivi e la confisca di molti terreni”. Per fermare la costruzione del muro e salvaguardare l’antico sistema di irrigazione del villaggio e le sue terrazze coltivate c’era un unico modo: ottenere l’inserimento di Battir tra i siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco in pericolo. “Sembrava un’impresa quasi impossibile”, ricorda Muamer. “Gli ostacoli burocratici erano talmente tanti, ed erano aggravati dal fatto che la Palestina non è uno stato sovrano. Eppure ci siamo riusciti: è stato quasi un miracolo”. L’ostinazione degli abitanti di questo piccolo villaggio contadino fu premiata nell’estate del 2014, quando arrivò finalmente il riconoscimento da parte dell’agenzia dell’Onu per l’educazione e la cultura. L’Unesco si pronunciò “con urgenza”, poiché si rese conto che le valli terrazzate rischiavano danni irreversibili e comprese che quel paesaggio era diventato vulnerabile sotto l’impatto delle trasformazioni socio-culturali e geopolitiche. Da allora, la speranza dei seimila abitanti di Battir è che questo riconoscimento ponga fine una volta per tutte alla lunga battaglia contro il muro. Ma il villaggio resta un obiettivo strategico, perché nella valle sottostante passa ancora oggi la tratta ferroviaria che collega Gerusalemme a Tel Aviv. “Il nostro futuro continua a essere a rischio”, ci confessa Muamer, mostrandoci una piscina romana dalle pareti rivestite di mosaici, di fronte alla quale una vista mozzafiato si spalanca sulla valle. “La burocrazia militare israeliana ci vieta di costruire in gran parte della vallata allora noi continuiamo a seminare e a coltivare piante da frutto, e restauriamo vecchi sentieri abbandonati per incentivare la gente a tornare nelle proprie terre”. Gli abitanti proseguono la loro battaglia silenziosa attraverso le attività dell’“ecomuseo del paesaggio”, un progetto gestito dalla comunità locale che vuole preservare l’eredità storico-culturale del luogo sviluppando progetti di ecoturismo e di turismo sostenibile, promuovendo la coltivazione di prodotti biologici, i percorsi turistici a piedi e in bicicletta tra i resti archeologici. “Battir rappresenta un modello di speranza nel futuro – conclude Muamer – e noi ci impegniamo ogni giorno per far sì che continui a esserlo”.
RM

Curdi e palestinesi: due popoli, medesima repressione

di Gianni Sartori

Avevano protestato contro l’invasione turca del Rojava. Ora sono in isolamento e sotto inchiesta per “propaganda a favore di un’organizzazione terrorista”. La decisione nei confronti di 57 prigionieri politici curdi è stata presa dalla Direzione di Sakran, centro di detenzione ad alta sicurezza situato nella provincia di Izmir (Turchia occidentale). Condannati a undici giorni di isolamento, verranno anche indagati per apologia di terrorismo. Sanzioni di cui si è venuti a conoscenza, il 31 ottobre, per le dichiarazioni di Fatma Cig. La madre del prigioniero politico Huseyin Cig ha anche spiegato che i prigionieri vengono regolarmente sottoposti a sanzioni disciplinari del tutto arbitrarie. Una reazione delle autorità carcerarie per lo sciopero della fame (costato la vita a otto prigionieri) avviato in primavera per protestare contro l’isolamento a cui è sottoposto Abdullah Ocalan.
Nella stessa giornata, alle tre del mattino di giovedì 31 ottobre, a Ramallah le forze di occupazione israeliane sono entrate brutalmente nell’abitazione di una esponente palestinese, la femminista Khalida Jarrar. Almeno settanta soldati e 12 veicoli militari, quasi un’operazione di guerra. La militante di sinistra era uscita di prigione appena otto mesi fa, dopo una carcerazione amministrativa (ossia senza specifiche accuse e senza processo) di 20 mesi. Del resto non era la prima volta. Nel 2017, a 13 mesi da una precedente liberazione, era stata ugualmente imprigionata di nuovo. E ancora nel 2015 era stata posta in detenzione amministrativa per 20 mesi. La sua colpa? Aver sempre lottato per i diritti dei prigionieri palestinesi anche come vicepresidente e direttrice esecutiva dell’associazione Addameer. Membro del Consiglio legislativo palestinese, eletta nell’aggregazione di sinistra Abu Ali Mustafa (legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) Khalida Jarrar aveva presieduto il Comitato dei prigionieri del PLC. Contribuendo inoltre a denunciare i crimini di guerra (in particolare: gli attacchi a Gaza, la confisca di terre palestinesi e la costruzione di colonie, gli arresti di massa e indiscriminati…) di cui si sarebbero resi responsabili alcuni esponenti politici israeliani. Inoltrando formale richiesta di portarli in giudizio davanti alla Corte penale internazionale.
Qualche considerazione. Amara ma necessaria. Brilla per particolare miopia (se non per autentica malafede) la posizione di alcuni nostrani ”campisti” (ovvero, “antimperialisti” e pure di “sinistra”) che continuano ad accusare i curdi (tutti indiscriminatamente: senza la capacità – o la volontà – di distinguere tra PDK e YPG) di aver “collaborato con l’imperialismo” (quello a stelle e strisce) “tradendo” la patria (quella con capitale Damasco, beninteso). Qualcuno, non tanto tempo fa, si augurava addirittura che per questo venissero adeguatamente puniti. Adesso forse sarà contento…
ben diversamente, dicono, si sono comportati i palestinesi. Più realisti del re, fingono di ignorare che una sostanziale solidarietà nei confronti del popolo curdo da parte di molte organizzazioni palestinesi si è mantenuta nel tempo. Vedi le dichiarazioni di vari esponenti del FPLP durante lo sciopero della fame dei prigionieri curdi e contro l’invasione del Rojava. Ugualmente YPG e PKK hanno solidarizzato con le manifestazioni palestinesi, duramente represse, del venerdì al confine della Striscia di Gaza.
Due domande: cosa avrebbero dovuto fare i curdi mentre l’Isis massacrava, stuprava, rapiva… le donne e i bambini curdi yazidi? Allearsi acriticamente con Assad che cedendo ai ricatti turchi aveva scacciato Ocalan dalla Siria (dando così un contributo non indifferente alle difficoltà in cui ora versa il movimento di liberazione)? O forse affidarsi a Putin che non aveva voluto accogliere come rifugiato il leader curdo – braccato dai servizi, non solo da quelli turchi – quando era atterrato all’aeroporto di Mosca?
Speculare la posizione di alcuni – tardivi – sostenitori dei diritti del popolo curdo che però sembrano vole ignorare sistematicamente quanto avviene settimanalmente ai confini della Striscia di Gaza o nelle galere israeliane. Entrambi questi personaggi (filo curdi o filo palestinesi, ma in esclusiva) sembrano applicare le regola del “due pesi, due misure” (o anche, come sottolineava uno studioso catalano quella delle “indipendenze a geometria variabile”). Pur tra mille difficoltà, incongruenze e talvolta contraddizioni – dovrebbe invece rimanere saldo un principio: “Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre!”. Certo, talvolta è difficile orientarsi, ma è comunque necessario. Senza allinearsi con qualche regime (laico o teocratico che sia) che mentre magari sostiene – altrove – una lotta di liberazione, a casa propria reprime duramente. Vedi Israele, Turchia e Iran, per fare qualche esempio.
Gianni Sartori

La voce di Darwish risuona ancora sulla collina di Ramallah

Avvenire, 31 agosto 2019

Mahmoud Darwish riposa sulla collina più alta di Ramallah. Bisogna salire fin lassù, in un punto che domina i nuovi quartieri e i luoghi di culto della città palestinese, per confrontarsi con il lascito del poeta che diceva di avere dentro di sé un milione di usignoli per cantare la propria canzone di lotta. Darwish fu sepolto qua nel 2008, con tutti gli onori, e oggi questo è uno dei luoghi più amati da un popolo che considera da sempre la cultura anche uno strumento di riscatto politico. Al bardo nazionale palestinese sono stati dedicati un monumento e un museo celebrativo ma anche un teatro e uno spazio per le arti e la creatività. Colpisce la quantità di giovani che ogni giorno si arrampicano sull’imponente scalinata dell’Al-Birweh park per rendere omaggio al suo mausoleo, due grandi pietre rettangolari circondate da un giardino rigoglioso, ai cui lati si trovano un teatro e un piccolo museo, opera dell’architetto palestinese Jafar Tukan. La mostra permanente all’interno contiene numerosi manoscritti originali del poeta – tra cui spicca la Dichiarazione d’indipendenza che Darwish stesso scrisse nel 1988 – gli oggetti personali, le foto, i documenti. Piccoli frammenti della sua vita che ce lo fanno sentire più vicino, come il biglietto aereo per il suo ultimo viaggio terreno, a Houston, dove si recò per curarsi nell’estate del 2008, e si spense in seguito alle complicazioni post-operatorie di un delicato intervento al cuore. Le pareti del museo sono tappezzate dai suoi versi e dalle copertine dei suoi libri – tradotti in decine di lingue – mentre la sua scrivania vuota, nella penombra della sala, sembra quasi attendere il suo ritorno. I numerosi premi che si aggiudicò durante la carriera sono stati disposti invece al lato della scrivania, in un’installazione realizzata con l’argilla di Al-Birweh, il villaggio della Galilea dove nacque nel 1941. Considerato uno dei più grandi poeti contemporanei in lingua araba, Mahmoud Darwish ha raccontato l’orrore della guerra, dell’occupazione e dell’esilio vissuto dal popolo palestinese riuscendo a trasformare la causa di una nazione in un simbolo universale di lotta per la libertà. Il suo villaggio natale fu raso al suolo durante la guerra del 1948, quando lui era ancora un bambino. Per scampare alle persecuzioni sioniste fuggì in Libano con la famiglia e poté tornare in patria – divenuta nel frattempo terra dello stato d’Israele – solo clandestinamente. La sua condizione di “alieno” e di “ospite illegale” nel suo stesso paese divenne uno dei capisaldi della sua produzione artistica. Nel 1960, all’età di diciannove anni, pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Uccelli senza ali. Il governo israeliano lo tenne a lungo sotto stretta sorveglianza, lo arrestò più volte (spesso solo per aver recitato poesie in pubblico) e lo costrinse infine all’esilio, ma non riuscì a impedirgli di scrivere ben ventisei volumi di poesia e undici di prosa. “Potete legarmi mani e piedi / togliermi il quaderno e le sigarette / riempirmi la bocca di terra: – scrisse – la poesia è sangue del mio cuore vivo / sale del mio pane, luce nei miei occhi”. Non avendo il permesso di vivere nella propria patria vagò a lungo, da esule, vivendo e lavorando in Unione Sovietica, in Egitto, in Libano, in Giordania, in Francia. Poté ritornare nel suo paese soltanto nel 1996, dopo ventisei anni di esilio, per trascorrervi gli ultimi anni della sua vita. Tutti i tentativi di inserirlo nei curriculum obbligatori delle scuole israeliane sono falliti miseramente di fronte all’intransigenza della politica. Mahmoud Darwish continua a essere una voce scomoda anche da morto. Tre anni fa una nota emittente radiofonica israeliana mandò in onda un approfondimento sulla sua opera e lesse in diretta una delle sue poesie più famose, scatenando le ire del governo di Israele. Il ministro della difesa, Avigdor Lieberman, non esitò a paragonare i versi del poeta palestinese al Mein Kampf di Adolf Hitler. La poesia incriminata era “Carta d’identità”, uno struggente atto d’amore per la sua terra.
RM

“Sumud”, la meglio gioventù della Palestina

È una calda notte d’estate senza stelle e la musica risuona a tutto volume da una grotta nel deserto a sud di Hebron. Sami, Hammoudi e Adib hanno all’incirca vent’anni e ballano la dabka, una danza popolare mediorientale, davanti a un gruppo di volontari internazionali che scandiscono il ritmo battendo le mani. Nella notte altri giovani arrivano dai villaggi circostanti per fare festa all’insegna del “Sumud”, una parola araba che significa ‘resilienza’.  In questa distesa di colline di pietra e pascoli per le pecore due anni fa questi ragazzi hanno dato vita al “Sumud Freedom Camp” di Sarura, un’esperienza di resistenza nonviolenta che ha l’obiettivo di salvare le loro terre. Hanno ripulito la zona, costruito terrazzamenti con muretti a secco e piantato alberi di ulivo. Ma soprattutto hanno ristrutturato le antiche grotte e le caverne che un tempo erano abitate dalle famiglie palestinesi. La grotta più grande è stata pavimentata e adibita a sala riunioni, poi hanno costruito i bagni e allestito le cucine. Donne, uomini e bambini presidiano a turno le caverne notte e giorno, insieme ad attivisti internazionali e israeliani. “Per far rivivere Sarura volevamo rendere le grotte abitabili in modo che le famiglie cacciate di qua tanto tempo fa potessero finalmente ritornare”, ci spiega Sami, che studia diritto internazionale all’università di Yatta. Molti dei giovani del gruppo di Sumud provengono dal vicino villaggio di At-Tuwani e credono fermamente nella tradizione di nonviolenza nata nell’area molto tempo fa, e che negli anni ha coinvolto molte Ong israeliane tra cui B’Tselem, Ta’ayush e Rabbini per i diritti umani, oltre ai volontari cattolici di Operazione Colomba. I villaggi di At-Tuwani e Sarura si trovano nella cosiddetta “area C” della Cisgiordania, sotto il totale controllo civile e militare israeliano, e sono stretti tra Havat Ma’on e Avigayil, due avamposti israeliani considerati illegali dalla stessa Alta Corte di Tel Aviv e abitati dai sionisti più radicali. Da quasi due anni i giovani di Sumud si oppongono al tentativo di coloni ed esercito di collegare due colonie israeliane rubando la terra del villaggio di Sarura. In questi mesi hanno subito continue vessazioni: si sono visti confiscare i materassi, i materiali da lavoro e i generatori dai militari. I coloni si sono presentati spesso di notte, a volto coperto, per minacciarli e costringerli ad andarsene. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sull’area, risalente al 2018, ha denunciato un picco di violenze compiute dagli abitanti dei due avamposti contro i civili palestinesi. Le telecamere degli operatori umanitari hanno documentato ripetuti attacchi contro i pastori che pascolano il gregge, contro le donne e i bambini. Nel maggio scorso il gruppo dei Rabbini per diritti umani ha inviato una petizione all’Alta Corte israeliana denunciando le violenze subite dai bambini palestinesi che la mattina vanno a scuola percorrendo la strada che costeggia i due avamposti. La petizione precisa che impedire l’accesso sicuro alla scuola rappresenta una violazione dei valori fondanti della legge israeliana e del diritto umanitario internazionale. “I coloni più estremisti aggrediscono i bambini nella strada che collega i villaggi di At-Tuwani e Tuba. Li insultano, li picchiano e li prendono a sassate perché non vogliono che i palestinesi camminino su queste terre”, denuncia Giuseppe, un volontario di Operazione Colomba. “La strada alternativa è molto più lunga, e li costringerebbe a partire da casa un paio d’ore prima”. Alcuni anni fa una volontaria internazionale che scortava i bambini venne colpita da un sasso e Israele fu costretto a prendere provvedimenti. La Commissione diritti dell’infanzia della Knesset decise di far intervenire l’esercito, fornendo una scorta militare ai bambini che andavano a scuola. “Ma i problemi non sono stati risolti, perché spesso i soldati arrivano in ritardo, o non arrivano affatto”, aggiunge Giuseppe. E allora sono i ragazzi di Sumud, insieme ai volontari di Ta’ayush e di Operazione Colomba, a darsi il turno per accompagnare i bambini a scuola cercando di proteggerli dagli attacchi dei coloni. Alla violenza e ai soprusi la popolazione di At-Tuwani ha deciso di rispondere con le armi della legge, appellandosi alle stesse istituzioni israeliane, e documentando le violazioni dei diritti umani e delle norme internazionali. “La nonviolenza non è solo una scelta morale ma anche strategica”, ci spiega Hafez, l’anziano coordinatore del Comitati popolari di resistenza pacifica di At-Tuwani. “Israele ci descrive come criminali ma noi abbiamo deciso di dimostrare all’opinione pubblica che così possiamo neutralizzare la violenza dei coloni. Nelle colline a sud di Hebron abbiamo raggiunto obiettivi importanti e siamo convinti che questa sia la soluzione più efficace”. Il movimento popolare di resistenza nonviolenta di At-Tuwani è diventato un modello per tanti villaggi della Cisgiordania. La scuola, tirata su dagli abitanti e poi difesa dalla demolizione, copre l’intero ciclo scolastico – dall’asilo alle scuole superiori – ed è frequentata da circa duecento bambini e ragazzi provenienti da tutti i villaggi del circondario. Negli anni, oltre alla scuola, sono stati costruiti un ospedale, una rete idrica e le strade sono asfaltate. “La solidarietà che venite a portarc dall’estero per noi è molto importante ed è fondamentale che raccontiate in giro quello che sta accadendo qua”, conclude Hafez.
RM

Sopravvivere all’assedio

Betlemme (Palestina)

Questa terra è della tua famiglia, da quattro generazioni. Lo dimostrano i documenti ufficiali di epoca ottomana, datati 1916. Quarantadue ettari di terreno coltivabile a 900 metri d’altezza, affacciati sulla valle. Ma quasi trent’anni fa il governo israeliano iniziò a far costruire tutto intorno nuove case per i coloni. Quei mostri di cemento spuntavano uno dopo l’altro come funghi velenosi. A est, a sud, a nord. Finché non ti hanno circondato con cinque insediamenti di coloni ebraici. Eravate sotto assedio. Solo il verde dei tuoi alberi d’ulivo riusciva a curare le ferite di quella vista. I tuoi antenati avevano piantato i loro rami nella terra e le loro radici nel cielo. A te e alla tua famiglia sono serviti anni di sudore per coltivarli. Poi un giorno vi hanno detto che dovevate andarvene, perché serviva spazio per costruire altri mostri. Proprio lì, sulla tua terra. Li hai zittiti tirando fuori quegli antichi documenti. Mi chiamo Daoud, in arabo significa Davide, come il secondo re di Israele. Gli hai spiegato che il tuo bisnonno aveva comprato quei terreni ai tempi degli ottomani. La legge ti dava ragione ma intanto in fondo alla valle continuavano a costruire, mentre i soldati e i coloni iniziarono a intimidirvi. Un giorno sono arrivate le ruspe per distruggere i tuoi alberi di ulivo. Sapevano bene che per un palestinese come te quella pianta è un albero sacro, quasi come un figlio, e proprio per quello ne hanno abbattuti più di duecento. Quel giorno ti hanno strappato un pezzo di anima. Mahmoud Darwish diceva che l’ulivo insegna ai soldati a deporre le armi e li rieduca alla tenerezza e all’umiltà. Allora anche un grande poeta può sbagliarsi, hai pensato. Ma sei riuscito a controllare la tua rabbia, a non farla diventare odio, a trasfigurare le forze negative in energia positiva.

A sinistra:: Daoud Nassar

Intanto la solidarietà che continuava ad arrivarvi da tutto il mondo era diventata un fiume in piena. Una marea inarrestabile di giovani volevano partecipare al progetto di nonviolenza attiva e di educazione all’ambiente che avevate chiamato Tenda delle nazioni. Al cuore della vostra scelta nonviolenta c’era una profonda fede cristiana. “Ci rifiutiamo di essere nemici”, hai scritto su quella grossa pietra, davanti all’ingresso della fattoria. Eppure i coloni e l’esercito stavano facendo di tutto per renderti la vita impossibile. Dopo gli ulivi hanno tagliato gli albicocchi, a centinaia, hanno bloccato la principale strada di accesso alle tue terre. E poi le minacce, le intimidazioni, le piccole violenze quotidiane. Quando hanno capito che non cedevi, e che la legge era dalla tua parte, hanno anche provato a comprarti. Dicci quanto vuoi e vattene di qua per sempre. Un sorriso amaro ha solcato le tue labbra mentre gli spiegavi che nessuna cifra potrà mai convincerti a vendere una terra che hai ereditato dai tuoi avi. Hanno cercato di isolarvi in tutti i modi. Ma non ci sono riusciti. Niente è impossibile, dicevi, neanche far crescere una grande fattoria senza acqua, né luce. Ti sei convinto che abbandonarsi al vittimismo non sarebbe servito a niente. Che non avresti mai risposto alle loro provocazioni, perché violenza genera solo altra violenza. Ma di abbandonare tutto e andartene non vuoi neanche sentir parlare. Per procurarti l’elettricità hai realizzato un sistema di pannelli solari che ti consente di avere la luce tutto il giorno. Per rifornirti di acqua hai costruito un meccanismo di raccolta delle acque piovane. Non ti sei fermato neanche di fronte ai divieti di costruire sulla tua terra. Se non posso costruirci sopra vorrà dire che lo farò nel sottosuolo, hai pensato. E con l’aiuto di tanti volontari hai scavato quelle grandi grotte attrezzate con camere, bagni e cucine. Da allora vivete là dentro, proprio come il tuo bisnonno cento anni fa. Avevi deciso di dimostrare a te stesso che tutto è possibile, che anche i grandi problemi possono diventare piccoli ostacoli, quando si imbocca la strada della resistenza nonviolenta, della creatività, della fede. Così avete ripiantato gli alberi e adesso avete raccolti tutti i mesi dell’anno, in un luogo dove cristiani e musulmani lavorano insieme per la pace, per la tolleranza, per l’ambiente. Presto Israele avrà completato il muro dell’apartheid e voi vi ritroverete completamente isolati. Ma il cielo, almeno quello, non potranno mai dividerlo.
RM

L’arma della cultura

Ramallah (Cisgiordania) – In questi giorni risuonano scoppi nelle strade di Ramallah. Sono scoppi di felicità, petardi, clacson e trombe da stadio. Nella città-simbolo della Palestina sono giorni di festa per i giovani che hanno finito gli studi. L’equivalente della nostra maturità, oppure hanno discusso la tesi di laurea. Molti di loro salgono sotto il sole cocente i gradoni che portano in cima alla collina affacciata sulla città dove riposa il grande Mahmoud Darwish. Al poeta nazionale palestinese, morto nel 2008, è stato dedicato qua non soltanto un monumento e un museo celebrativo ma anche uno spazio per le arti, la creatività e la cultura. Non è un caso che si trovi nel punto più alto di Ramallah, e domini i nuovi insediamenti urbani sorti negli ultimi anni, i palazzi del governo e i luoghi di culto. La cultura, per i palestinesi, è sinonimo di orgoglio nazionale ed è sempre stata anche uno strumento di riscatto politico. Fin dagli albori del ‘900 la lotta di liberazione è stata legata a doppio filo al lavoro degli intellettuali. Lo dimostra il lungo elenco di scrittori, artisti, filosofi e musicisti che scorre in uno dei pannelli del museo di Yasser Arafat, situato alla Muqata’a, il vecchio quartier generale dell’amatissimo primo presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Dopo la sua morte, lo stesso Mahmoud Darwish scrisse che “Arafat era riuscito senza compromessi ad abbandonare il ruolo di vittima della storia per diventare un protagonista della storia”. Ma neanche un leader della sua statura sarebbe riuscito a plasmare il paese tra mille difficoltà senza il contributo degli intellettuali. Molti di essi hanno rappresentato per Israele una minaccia più pericolosa dei combattenti e dei martiri. È impossibile operare un processo di rimozione storica e di cancellazione della memoria di un popolo se prima di tutto non si mettono a tacere gli intellettuali. Per anni il governo israeliano ha impedito a Darwish di lasciare Haifa e di recarsi all’estero, l’ha tenuto sotto stretta sorveglianza e l’ha arrestato più volte, costringendolo infine all’esilio. Ma non è riuscito a impedirgli di scrivere ben ventisei volumi di poesia e undici di prosa. I potentissimi servizi segreti israeliani del Mossad hanno preso di mira a lungo gli intellettuali. Nel luglio 1972 uccisero in un attentato Ghassan Kanafani, considerato il più grande romanziere palestinese. Quello stesso anno gli agenti del Mossad ammazzarono anche altri due intellettuali, Mahmoud Hamshari e Wael Zuaiter. Ma per ogni voce che veniva spenta se ne accendevano dieci, cento, mille altre. Magari meno potenti, meno autorevoli. Ma nessuna forma di repressione è riuscita a distruggere il seme della cultura che continua a germogliare nelle nuove generazioni palestinesi. A Bir Zeit, poco distante da Ramallah, su un’altra collina sorge un’importante ateneo universitario che oggi è frequentato per il 60 per cento da donne. “Qui sono presenti quasi tutte le facoltà, con l’eccezione di medicina”, ci spiega Emilia, una biologa italiana che vive e lavora qui da quindici anni. Non è l’unica: a Bir Zeit come nelle altre -università della Palestina sono tanti i ricercatori, gli studenti, i docenti arrivati da ogni parte del mondo.
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