“Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord”

Venerdì di Repubblica, 4 dicembre 2020

Per salvare la memoria del più lungo conflitto europeo del ‘900 Malcolm Sutton si è sobbarcato da solo un’opera titanica, estenuante, simile a quelle dei monaci del Medioevo. Ha trascorso anni nelle biblioteche di Belfast, scandagliando meticolosamente i giornali locali, incrociando informazioni, numeri e dettagli. In alcuni casi ha raccolto anche testimonianze dirette e atti processuali. Infine ha compilato un elenco completo e definitivo delle circa 3500 vittime del conflitto in Irlanda del Nord: nomi, volti, storie e una breve descrizione delle circostanze delle morti suddivise per età, status, appartenenza confessionale e area geografica. Ma la cosa forse più sorprendente è che abbia portato a termine un’impresa simile in modo del tutto volontario, senza alcun aiuto o sostegno economico, in un’epoca in cui ancora non esistevano né Internet, né la posta elettronica. Continua a leggere ““Io so chi sono i 3532 morti dell’Irlanda del Nord””

Fame di ideali

BobbySands375_300“Se morirò, Dio capirà”: è quanto disse Bobby Sands al giornalista dell’Irish Times Brendan Ó Cathaoir che andò a intervistarlo in carcere il 3 marzo del 1981, il terzo giorno dello sciopero della fame che l’avrebbe portato alla morte due mesi più tardi. Appena 27enne, rinchiuso nel braccio di massima sicurezza di Long Kesh, a Belfast, dove stava scontando una pena a quattordici anni per possesso di arma da fuoco, Sands chiarì in quell’occasione di essere disposto a morire per i suoi ideali. A qualunque costo. Non servì a niente neanche l’appello di papa Woytjla, che tramite il vescovo John Magee gli recapitò un messaggio chiedendogli d’interrompere il digiuno. Quello sciopero che attirò l’attenzione del mondo intero culminò il 5 maggio di quell’anno con la fine di Sands ma proseguì anche nei mesi successivi con la morte di altri nove detenuti irlandesi, cambiando per sempre la natura del conflitto anglo-irlandese, avviandolo verso un lungo ma irreversibile processo conclusivo. Da quel momento in poi, Bobby Sands e gli altri martiri del ‘blocco H’ furono trasfigurati in icone della lotta di liberazione irlandese, in parte disumanizzati per divenire simboli universali di quel terribile scontro carcerario. Esattamente 35 anni più tardi, ormai trascorso un periodo di tempo sufficiente per garantire il giusto distacco emotivo da quei fatti, è uscito in Gran Bretagna 66 Days, uno splendido documentario firmato dal regista Brendan J. Byrne che riesce per la prima volta a raccontare Bobby Sands per immagini anche attraverso un uso innovativo dei diari nei quali annotò le ultime memorie dalla prigione. Prima che le sue condizioni di salute iniziassero ad aggravarsi in modo irreversibile, il rivoluzionario-poeta raccontò i primi diciassette giorni del suo sciopero della fame scrivendo in clandestinità, su minuscoli pezzi di carta igienica, alcune delle pagine più toccanti della letteratura carceraria del ‘900. “Sto qui, sulla soglia di un altro mondo palpitante. Possa Dio avere pietà della mia anima”, scrisse all’inizio del suo diario, “Sono pieno di tristezza perché so di aver spezzato il cuore della mia povera madre e perché la mia famiglia è stata colpita da un’angoscia insopportabile. Ma ho considerato tutte le possibilità e ho cercato con tutti i mezzi di evitare ciò che è divenuto inevitabile: io e i miei compagni vi siamo stati costretti da quattro anni e mezzo di vera e propria barbarie. Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra”. Costruito come un conto alla rovescia verso la fine, 66 Days scorre giorno per giorno gli oltre due mesi di autoprivazione del cibo che condussero Sands alla morte. Lo fa alternando in modo magistrale una drammatica ricostruzione scenica interpretata dall’attore originario di Belfast Martin McCann, uno straziante repertorio iconografico e una serie di interviste non solo agli amici e agli ex compagni di prigionia di Sands ma anche ad alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex secondino di Long Kesh Dessie Waterworth e il giornalista Charles Moore, biografo di Margaret Thatcher. Trovando un giusto equilibrio tra le voci repubblicane e l’analisi storica, 66 Days ha dunque il grande merito di riuscire per la prima volta a inquadrare quei fatti in una prospettiva storica. Non ci erano riuscite, per la loro stessa natura, due importanti opere di finzione realizzate in passato, il recente Hunger – interpretato da Michael Fassbender con la regia di Steve McQueen, premiato a Cannes nel 2008 – e Some Mother’s Son (La scelta d’amore) di Terry George, del 1996. Rispetto a queste due pur intense prove cinematografiche, il lavoro di Byrne rende finalmente giustizia appieno alla figura di Sands e alla sua lotta per la libertà.
Nato nel 1954 alla periferia di Belfast e costretto giovanissimo, insieme alla sua famiglia, ad abbandonare la propria abitazione a causa delle violenze e degli attacchi settari contro la comunità cattolico-nazionalista dell’Irlanda del Nord, poi costretto ad abbandonare il lavoro per lo stesso motivo, si avvicina all’IRA appena diciottenne, nel 1972, durante l’anno più nero del conflitto angloirlandese. Quando finisce in carcere è un giovane volontario come tanti altri e niente fa presagire che di lì a poco, ristretto in un brutale regime carcerario, emergerà la sua statura di leader che lo porterà a guidare i compagni alla riscoperta delle loro tradizioni, della loro cultura, attraverso un percorso interiore che diventerà tutt’uno con la lotta carceraria, esprimendosi con l’arma nonviolenta e ancestrale del rifiuto del cibo, come gli antichi eroi gaelici. Durante lo sciopero, a poche settimane da una fine che appare ogni giorno sempre più ineluttabile, Sands viene eletto al parlamento di Westminster nel corso di una drammatica tornata elettorale suppletiva, che lo vede aggiudicarsi il seggio di Fermanagh South Tyrone con oltre trentaduemila preferenze. Ma neanche quello basta a salvargli la vita – poiché Londra non cede alle richieste dei prigionieri irlandesi – ma riesce invece a cambiare il corso della storia irlandese, portandola una volta per tutte verso una dinamica elettorale che arriverà infine a escludere l’uso delle armi. Il film di Byrne ricostruisce in modo esemplare quelle settimane drammatiche senza dimenticare che in quegli stessi giorni l’IRA uccise una giovane madre, Joanne Mathers, solo per aver contribuito alla campagna elettorale dell’avversario di Sands. I decenni trascorsi da allora hanno favorito un certo distacco ma non sono stati sufficienti a sopire del tutto le tensioni dell’epoca. Alcuni parlamentari unionisti-protestanti hanno contestato la concessione di fondi pubblici per la realizzazione del documentario nel quale colpisce, ancora una volta, l’assenza di alcune voci. Anche in questa occasione la famiglia di Sands si è infatti rifiutata di partecipare al progetto. La madre, le sorelle e il figlio Gerard, oggi quarantenne, non hanno voluto prendere parte a un lavoro orchestrato dal Bobby Sands Trust, la fondazione che detiene i diritti d’autore sugli scritti di Sands, e che loro accusano da tempo di agire con scarsa trasparenza e a scopo di lucro.
RM

(“Avvenire”, 28.8.2016)

Come la Thatcher aiutò Pol Pot

In un articolo pubblicato sul New Statesman nel 2000, il grande inviato di guerra australiano John Pilger ha riscostruito il sostegno che l’Occidente, e Margaret Thatcher in particolare, diede al sanguinario regime cambogiano dei Khmer Rossi.

bonesIl 17 aprile sarà l’anniversario dell’ingresso dei Khmer Rossi di Pol Pot a Phnom Penh. Nel calendario del fanatismo, questo fu l’Anno Zero da cui, di conseguenza, due milioni di persone, un quinto della popolazione della Cambogia, dovettero morirne. Per celebrarne l’anniversario, il malvagio Pol Pot verrà ricordato, quasi come un atto rituale per i voyeur della politica oscura e inspiegabile. Per i gestori del potere occidentale, nessuna vera lezione ne sarà tratta, in quanto nessuna connessione verrà fatta tra loro e i loro predecessori, con il compare faustiano Pol Pot. Eppure, senza la complicità dell’occidente, l’Anno Zero non ci sarebbe mai stato, né la minaccia del suo ritorno sarebbe perdurata per tanto tempo.
I documenti declassificati del governo degli Stati Uniti, lasciano pochi dubbi sul fatto che il bombardamento segreto e illegale dell’allora neutrale Cambogia da parte del presidente Richard Nixon e di Henry Kissinger, tra il 1969 e il 1973, abbia causato tanta morte e devastazione, da essere un aiuto fondamentale per la presa del potere di Pol Pot. “Usano i danni causati dagli attacchi dei B-52 quale tema principale della loro propaganda“, riportava il 2 maggio 1973 il direttore delle operazioni della CIA. “Quest’approccio ha portato al riuscito arruolamento di giovani. I residenti dicono che la campagna propagandistica è stata efficace presso i rifugiati delle aree oggetto degli attacchi dei B-52“. Nei bombardamenti, equivalenti a cinque Hiroshima, di una società contadina, Nixon e Kissinger uccisero circa mezzo milione di persone. L’Anno Zero iniziò, in effetti, con il loro bombardamento, catalizzando la nascita di un piccolo gruppo settario, i Khmer Rossi, la cui combinazione di maoismo e medievalismo era senza base popolare.
Dopo due anni e mezzo di potere, i Khmer Rossi furono rovesciati dai vietnamiti nel Natale 1978. Nei mesi e negli anni che seguirono, Stati Uniti, Cina e i loro alleati, in particolare il governo Thatcher, sostennero Pol Pot ora in esilio in Thailandia. Era il nemico del loro nemico: il Vietnam, la cui liberazione della Cambogia non avrebbe mai potuto essere riconosciuta, perché venuta dalla parte sbagliata della guerra fredda. Per gli statunitensi, che ora sostenevano Pechino contro Mosca, era anche un regolamento di conti, dopo la loro umiliazione sui tetti di Saigon. A tal fine, le Nazioni Unite furono abusate dalle potenze. Anche se il governo dei Khmer Rossi (la “Kampuchea democratica”), aveva cessato di esistere nel gennaio 1979, i suoi rappresentanti poterono continuare a occupare il seggio della Cambogia alle Nazioni Unite. Infatti, gli Stati Uniti, la Cina e la Gran Bretagna insistettero su ciò. Nel frattempo, un embargo sulla Cambogia del Consiglio di sicurezza  aggravò le sofferenze di una nazione traumatizzata, mentre i Khmer Rossi in esilio ebbero quasi tutto quello che volevano. Nel 1981, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, dichiarò: “Ho incoraggiato i cinesi a sostenere Pol Pot.” Gli Stati Uniti, aggiunse, “fecero pubblicamente l’occhiolino” alla Cina, che inviava armi ai Khmer Rossi. Continua a leggere “Come la Thatcher aiutò Pol Pot”

Pinochet, Neruda e la “Lady di ferro”

Marzo 1999: Thatcher visita Pinochet a Wentworth, nel Regno Unito, dove l’ex dittatore era agli arresti domiciliari.
Marzo 1999: Thatcher visita Pinochet a Wentworth, nel Regno Unito, dove l’ex dittatore si trovava agli arresti domiciliari.

“È curioso”, scrive Jon Lee Anderson sul New Yorker, “che Margaret Thatcher sia morta lo stesso giorno in cui in Cile è stata riesumata la salma del grande poeta Pablo Neruda. Autore di Venti poesie d’amore e una canzone disperata e vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1971, Neruda morì il 23 settembre 1973, dodici giorni dopo il colpo di stato con cui l’esercito cileno spodestò il presidente socialista Salvador Allende e portò il generale Augusto Pinochet al potere”. Neruda era un amico intimo e sostenitore di Allende. Era malato, ma nei giorni dopo il colpo di stato stava pensando di trasferirsi in Messico. Ai suoi funerali, migliaia di cileni sfilarono per le strade di Santiago, e al cimitero i presenti intonatarono l’Internazionale, nell’unico gesto pubblico di dissenso possibile dopo il colpo di stato. Nel frattempo, gli uomini del regime andavano in giro per la città a bruciare i libri di autori non graditi e a cercare, per uccidere o torturare, i sospetti dissidenti politici.
Un paio d’anni fa l’ex autista di Neruda ha espresso dei sospetti sulla morte del poeta: l’uomo ha raccontato che i dottori avevano fatto un’iniezione a Neruda, in seguito alla quale le sue condizioni di salute erano drasticamente peggiorate. Ci sono anche altri indizi che fanno pensare che il poeta possa essere stato avvelenato, ma bisognerà aspettare i risultati dei medici legali per sapere di più.
Ma cosa c’entra Margaret Thatcher con questa storia? L’8 aprile Barack Obama ha omaggiato l’ex premier britannica definendola “un esempio di libertà”. A dire la verità, non lo è stata affatto. Nel 1980, un anno dopo essere andata al potere, Thatcher ha eliminato l’embargo per la fornitura di armi al regime cileno che era stato deciso in precedenza dal governo britannico. Nel 1982, durante la guerra delle Falkland, Pinochet ha aiutato il governo britannico fornendo informazioni di intelligence sull’Argentina. Da quel momento in poi, la relazione tra i due politici è diventata una vera e propria amicizia: ogni anno la famiglia Pinochet si recava a Londra, e il generale e la premier si incontravano spesso per pranzare insieme o bere un bicchierino di whisky. Jon Lee Anderson racconta anche che nel 1998, quando Pinochet è stato arrestato per ordine del giudice spagnolo Baltasar Garzón, Thatcher ha mostrato la sua solidarietà andandolo a trovare. In quell’occasione, di fronte alle telecamere della tv britannica, ha detto: “So quanto siamo in debito con te, per il tuo aiuto durante la guerra delle Falkland”. Poi ha concluso: “Sei stato tu che hai portato la democrazia in Cile”. Pinochet è morto nel 2006, agli arresti domiciliari e con più di trecento capi d’accusa sulle spalle, dalla violazione di diritti umani alla frode. Fino alla fine, la sua unica difesa è stata un’umiliante dichiarazione di incapacità di intendere e di volere.
Negli anni della transizione alla democrazia, il Cile non ha fatto molto per esorcizzare i suoi demoni, e Pinochet ha continuato a esercitare una forte influenza sul paese. “Anche per questo è importante”, scrive Jon Lee Anderson, “sapere la verità su Neruda. Anche se si accertasse che il poeta è effettivamente morto di cancro, è importante per riaffermare un messaggio agli autocrati di tutto il mondo: le parole di un poeta sopravvivono alle loro, e sopravvivono anche agli elogi ciechi dei loro amici potenti”.

Il mondo alla rovescia di Margaret Thatcher

Il politico dallo sguardo di Caligola, la donna che frantumò da sola uno dei più potenti sindacati del mondo, si è portata nella tomba tutti i fantasmi della sua monumentale e controversa carriera politica. Dai minatori in sciopero alla tragedia delle Falklands, dalla morte in carcere di Bobby Sands alla scabrosa amicizia con il dittatore Pinochet. Un gigante dei nostri tempi, questo è stato Margaret Thatcher, il leader mondiale che trova già un posto di spicco nei libri di storia. Ma che non potrà non essere ricordato soprattutto per il ruolo dispotico, violento e distruttivo col quale ha portato avanti tutte le sue battaglie.
thatcherIl suo paese era già da tempo diviso tra chi la ama e chi la odia, eppure quasi tutti gli osservatori concordano nel ritenere che il momento cruciale dei suoi 15 anni di leadership del partito conservatore – quasi tutti trascorsi a Downing street – sia stato ai primi anni ’80, al tempo della guerra con l’Argentina per le isole Falklands. Affrontò quella crisi con un coraggio e una determinazione che le valse non solo la vittoria in quella breve guerra, ma anche la spinta decisiva per scagliarsi contro i sindacati dei minatori. E infatti riuscì a distruggerli con la stessa spietatezza con la quale diede l’ordine di affondare il Belgrano, l’incrociatore argentino che si trovava al largo delle isole contese, e il cui equipaggio fu massacrato senza pietà da un sottomarino nucleare britannico. All’epoca le politiche economiche della Lady di ferro avevano già causato un fiume di disoccupati in Gran Bretagna e i suoi consensi erano in picchiata. Con le elezioni all’orizzonte nel 1983, lo sbarco delle truppe argentine alle Falklands furono quindi una sorta di manna politica per lei e per il partito conservatore. Equiparò l’esercito argentino invasore ai sindacati delle miniere di carbone, definendoli “nemici interni”, sostenendo che erano più difficili da combattere e assai più pericolosi per la libertà. Non tutti colsero fin da subito la gravità delle sue parole: le donne e gli uomini che lavoravano duramente nelle miniere di carbone per una paga da fame erano ‘i nemici interni’ e ad accusarli di tradimento era il loro stesso primo ministro. Thatcher non è vissuta nell’era della comunicazione globale ma è stata una comunicatrice ante litteram, facendo uso di una gestualità e di una retorica comune soltanto ai grandi leader del passato, quelli allergici alla democrazia e alla libertà. I dittatori. E fu proprio con piglio dittatoriale che non si fece alcuno scrupolo a definire “criminale” Bobby Sands, il leader delle eroiche lotte carcerarie irlandesi, neanche quando il 27enne di Belfast si lasciò morire di sciopero della fame per ottenere quello status di prigioniero politico che lei gli aveva negato con tutte le sue forze, mostrandosi inflessibile di fronte alle richieste del mondo intero.

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Richieste che furono accordate solo dopo la morte di altri nove giovani irlandesi, che fecero la stessa fine di Sands, perché ritenevano la libertà un valore più alto della loro stessa vita. Bobby Sands era un criminale, secondo la visione del mondo della Thatcher, eppure alle elezioni politiche cui aveva preso parte mentre si trovava morente in carcere ottenne oltre 10.000 voti più della stessa Lady di ferro. Risultò eletto, divenne Member of Parliament, ma non ebbe mai modo di mettere piede a Westminster. Bobby Sands un criminale, Augusto Pinochet un eroe: questo era il mondo alla rovescia di Margaret Thatcher, che nel 1998 fece tutto quello che era nel suo potere (da anni non era più al governo) per evitarne l’estradizione in Spagna richiesta dal giudice Garzòn, durante una visita del sanguinario dittatore in Gran Bretagna. Thatcher era da tempo una grande amica del generale cileno, tanto che in più occasioni manifestò pubblicamente la sua gratitudine per l’aiuto logistico che le aveva fornito durante la crisi delle Falklands e, anche se sembra una tragica barzelletta, per aver riportato la democrazia in Cile.
RM

La verità sulla tragedia di Hillsborough

Le tragiche menzogne sulla morte di 96 tifosi nello stadio inglese di Sheffield vengono a galla definitivamente, ma con 23 anni di ritardo. E il governo inglese esercita ancora una volta una delle sue prerogative più comuni degli ultimi tempi: le pubbliche scuse.

(di John Foot, da Internazionale)

Hillsborough, Sheffield, 15 aprile 1989. Semifinale della coppa d’Inghilterra (Fa cup). Liverpool contro Nottingham Forest, in campo neutro (come sempre per la semifinale). Lo stadio è vecchio e pericoloso. Già nel 1981 ci sono stati feriti durante un’altra semifinale di coppa. Più di 24mila tifosi del Liverpool devono entrare nel Leppings lane end, divisi in settori recintati. In più, l’accesso al campo è bloccato da reti alte e metalliche, com’era la prassi in quasi tutti degli stadi in quegli anni. L’operazione delle forze di sicurezza si concentra sull’ordine pubblico, ma il capo è David Duckinfield, un poliziotto poco esperto di stadi e di Sheffield. In breve tempo la polizia perde il controllo della situazione. La folla non riesce a entrare attraverso i pochi tornelli. Duckinfield decide di aprire un cancello, ma è una scelta disastrosa. Moltissimi tifosi cominciano a entrare in fretta in un’area già piena di gente.
In pochi attimi cominciano a morire schiacciati, soffocati. La polizia non reagisce. Per loro i tifosi sono pericolosi. Bisogna fermarli. Sono quelli dell’Heysel. Fuori dello stadio ci sono decine di ambulanze, ma solo una entra in campo per aiutare i tifosi. Lo spettacolo è terrificante. Si vedono persone morire in diretta, davanti ai nostri occhi, con la polizia (non tutta) che li guarda dall’altra parte della rete.
Ci sono 95 vittime (un’altra, Tony Bland, morirà dopo anni di coma nel 1993). Sono soprattutto giovani. Trevor Hicks perde due figlie (Sarah, 15 anni, e Victoria, 19). Subito dopo il disastro, la polizia comincia a depistare e insabbiare la verità. La strategia è semplice. Danno la colpa alla vittime, sfruttando lo stereotipo dei sostenitori del Liverpool e dei tifosi in generale. “Erano ubriachi, senza biglietti, violenti, ladri”, viene detto. Queste bugie sono confezionate e rilasciate a un’agenzia di stampa.

Molti giornali riproducono questa versione dei fatti, ma solo uno la mette in prima pagina. Il Sun, popolare tabloid di Rupert Murdoch, pubblica tutto il 19 aprile. È una delle pagine più nere della storia del giornalismo. Il titolo è The truth e l’articolo parla di tifosi che derubano i cadaveri e urinano sulla polizia che cercava di aiutare le vittime. Incredibilmente, questa versione rovesciata della realtà per molti diventa la verità. A Liverpool, dall’aprile del 1989 è molto difficile trovare una copia del Sun. Non hanno perdonato quell’articolo.
Le famiglie cominciano una lunga e faticosa battaglia per ottenere verità e giustizia. Trevor Hicks diventa uno dei leader della protesta. Intanto le reti negli stadi cadono, per sempre, in Inghilterra e Scozia. Ma l’insabbiamento della verità continuerà per molti anni nonostante una serie d’inchieste, processi, documentari e libri. Fino al 2009, quando il ministro laburista Andy Burnham ordina una nuova inchiesta, questa volta con tutti i documenti disponibili. Finalmente, il 12 settembre 2012 è stato il giorno della svolta. Il premier David Cameron ha chiesto scusa, a nome dello stato ma anche della nazione intera, alle famiglie delle vittime. Il rapporto diffuso dal governo è devastante. La polizia ha aggiustato la verità, fin dall’inizio. Molte delle vittime potevano essere salvate. Continua a leggere “La verità sulla tragedia di Hillsborough”