“Non chiamatemi generale, quelli sono tutti all’Aja”: l’umorismo, la modestia e la profonda umanità avevano reso il serbo Jovan Divjak un uomo popolarissimo nella sua Sarajevo, la città che aveva provato a difendere dal più lungo assedio del Novecento. Scomparso ieri all’età di 84 anni dopo una lunga malattia, Divjak è stato un soldato ma soprattutto un costruttore di pace. Era nato nel 1937 a Belgrado e dopo essersi diplomato all’Accademia di guerra di Parigi, in gioventù aveva fatto parte della guardia personale di Tito. Poi era entrato nella difesa territoriale bosniaca fino a raggiungere il grado di generale ma nel 1991, quando comprese quali erano le reali intenzioni di Milosevic e Karadzic, disattese i comandi e lasciò l’esercito jugoslavo per schierarsi dalla parte della popolazione di Sarajevo. Finì anche davanti alla corte marziale per aver fatto requisire armi e proiettili da un deposito militare che dovevano servire a contrastare l’aggressione serbo-bosniaca. Quando su Sarajevo cominciarono a piovere bombe e granate avrebbe potuto andarsene e mettersi al sicuro, invece scelse di restare per difendere la città e per preservare quell’ideale di convivenza tra i popoli slavi con il quale era cresciuto. “Tra la mia gente si sentivo al sicuro” – ci confidò in un’intervista nel 2019 -. Durante l’assedio non avevo paura mentre ne ho tanta adesso, se ripenso a quegli anni”. A guerra conclusa ha continuato a essere una spina nel fianco dei nazionalisti impegnandosi con tutte le sue forze a favore della riconciliazione. Il resto della sua vita l’ha dedicato all’impegno umanitario, fondando Obrazovanje Gradi BiH (L’educazione costruisce la Bosnia-Erzegovina), un’organizzazione che ha garantito un futuro migliore a tanti orfani di guerra o disagiati. Si è sempre opposto alla divisione dei curriculum scolastici su base etnica e in questi anni centinaia dei suoi ragazzi sono riusciti a laurearsi e a trovare un lavoro. Perché la pace, per Jovan Divjak, era soprattutto sinonimo di cultura e istruzione per tutti.