Quei tedeschi che combatterono con i partigiani

Avvenire, 9 novembre 2021

Rudolf Jacobs

Uno dei più recenti filoni della ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale è quello che indaga la presenza dei disertori tedeschi nella Resistenza. Ne avevamo parlato nel luglio scorso, presentando il libro collettaneo Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana curato da due storici dell’università di Bologna, Mirco Carrattieri e Iara Meloni. I saggi contenuti al suo interno fanno il punto su un fenomeno ancora assai poco indagato, partendo dall’analisi delle carte inedite dei processi per diserzione celebrati dai tribunali militari in Germania. Colmare questa importante lacuna storiografica consentirebbe di rispondere a un’esigenza civile: quella di evidenziare la dimensione internazionale della Resistenza smascherando una volta per tutte la tendenza tutta italiana all’auto-assoluzione, che contrappone il falso mito del “buon italiano” a quello – altrettanto artificioso – del “cattivo tedesco”. Continua a leggere “Quei tedeschi che combatterono con i partigiani”

Quando i nazisti entrarono nella Resistenza

Avvenire, 21 luglio 2021

Ci sono voluti più di settant’anni per riabilitare i soldati tedeschi che si ribellarono all’idea distorta di patria inculcata dal nazismo. Coloro che in nome di valori universali seppero dire “no” agli orrori del Terzo Reich e si fecero guidare dalla coscienza verso una scelta rischiosa, spesso mortale: abbandonare la divisa e passare dalla parte del nemico, trasformando il proprio dissenso in resistenza attiva. Per la Germania è stata una delle pagine del passato più difficili da affrontare. Fino a poco tempo fa quelli che avevano trovato nella diserzione l’unica scelta morale possibile erano stati relegati nell’oblio oppure erano rimasti sepolti sotto il peso di uno stigma quasi incancellabile. Continua a leggere “Quando i nazisti entrarono nella Resistenza”

Elio, non partigiano ma resistente

Avvenire, 4.11.2017

“Elio non era andato alla guerra ma ora la guerra lo aveva raggiunto, rompendo prepotentemente il silenzio e la pace della sua campagna”. È la primavera del 1944, quando la Storia impone a Elio Bartolozzi, contadino toscano di appena vent’anni, una scelta destinata a cambiare per sempre la sua vita, rendendolo protagonista di un’esemplare vicenda di resistenza civile e deportazione rimossa dalla memorialistica ufficiale del Dopoguerra. Il suo eroismo è rimasto sepolto nell’oblio per decenni, finché lo storico Frediano Sessi, già biografo di Primo Levi e Anna Frank, non ha riannodato i fili della memoria nel suo nuovo libro, Elio, l’ultimo dei Giusti. Una storia dimenticata di Resistenza, appena uscito per Mursia. Cieco da un occhio fin da bambino a causa di un incidente di gioco, Elio non era stato chiamato alle armi ed era rimasto a lavorare la terra a Ceppeto, il paese dove viveva con la sua famiglia, a pochi chilometri da Firenze. In guerra ci erano andati soltanto i suoi fratelli: uno era prigioniero in Jugoslavia e l’altro, tornato dalla Russia, si nascondeva in soffitta per non farsi catturare dai nazisti. Ma il 4 aprile 1944, all’altezza della piccola stazione ferroviaria di Montorsoli a poca distanza da casa sua, i partigiani attaccano un treno che trasporta militi della Repubblica sociale. Nello scontro a fuoco alcuni partigiani restano feriti, due in modo grave, e hanno bisogno di cure. A Elio, che neanche li conosceva, verrà chiesto di portarli in salvo usando il suo carro trainato dai buoi. E lui, pur conscio dei pericoli, quando capì che era in gioco la loro vita decise di accompagnarli in un luogo sicuro. Rientrò a casa nella notte, stremato, e non appena si mise a letto i fascisti bussarono alla sua porta. Qualcuno aveva fatto la spia. Elio viene imprigionato e torturato a Villa Triste, a Firenze, dagli uomini della famigerata banda Carità, che vogliono estorcergli informazioni sui partigiani. Ma lui non parla. Due mesi dopo viene internato nel campo di Fossoli, poi in quello di Bolzano, e infine deportato a Mauthausen. Trascorre alcuni giorni al campo principale finché non finisce nell’inferno di Gusen, dove i prigionieri erano costretti a scavare gallerie utilizzate per la produzione di armi, in condizioni a dir poco bestiali. Elio è fortunato, perché riesce a sopravvivere e a vedere la liberazione del campo da parte degli americani, il 6 maggio 1945. Tornato a casa, riprende la sua vita in campagna e sceglie di non denunciare chi l’ha tradito facendolo deportare. Nel suo memoriale, rimasto a lungo inedito, spiegherà di aver già visto troppe violenze e troppo dolore. Il suo atto eroico cade definitivamente nell’oblio e anche lo status di partigiano non gli verrà mai riconosciuto. La lapide che ricorda i partigiani della battaglia di Montorsoli non riporta il suo nome e quando muore, nel 2004, ai funerali non partecipa alcun rappresentante dell’Anpi, né dell’Aned. La sua vicenda, raccontata da Sessi con il rigore dello storico e la forza narrativa dello scrittore, è quella di un uomo per cui resistere “non ha voluto dire schierarsi ma rischiare la propria vita per proteggere altri che non facevano parte della sua famiglia e dei suoi conoscenti”. E ci ricorda che accanto a una resistenza armata vi fu, in quei mesi terribili, anche il silenzioso eroismo di tanti uomini e tante donne che si rifiutarono di adeguarsi alla cultura della violenza e dell’indifferenza inculcate dal fascismo, mettendo al centro della loro vita l’amore per gli esseri umani, anche al costo di perdere tutto.
RM

Il 25 aprile e la memoria da ritrovare

Il mausoleo realizzato con soldi pubblici alla memoria del maresciallo-macellaio Rodolfo Graziani (massacratore di partigiani e di resistenti libici ed etiopi) non è che l’ennesima dimostrazione di come il fascismo, fra superficialità, opportunismi e complicità, continui a inquinare la nostra fragile democrazia. Fortunatamente il neopresidente della Regione Lazio Zingaretti ha almeno bloccato i fondi per il monumento al gerarca. Di seguito l’illuiminante riflessione di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera.

25 aprile

I campi di concentramento dove donne e bambini libici vennero rinchiusi dietro il filo spinato, dopo una marcia nel deserto in cui ne morirono migliaia. I massacri indiscriminati in Etiopia compresa la strage dei 1.400 diaconi cristiani di Debra Libanos. Finché si trattò di accanirsi sui civili o di bombardare con il gas, non ebbe scrupoli. Poi, quando si trovò di fronte gli inglesi, pretese di dirigere un esercito valoroso ma male armato e peggio equipaggiato (che pure definiva «il miglior esercito coloniale del mondo») dalle retrovie, per infine perdere la testa in preda al panico.
Ritrovò coraggio al fianco dei nazisti invasori, comandando le truppe della Repubblica di Salò, ordinando la fucilazione non solo dei partigiani ma anche dei renitenti alla leva. Non stiamo parlando di un ragazzo di 18 anni o meno, che aveva scelto la parte sbagliata in buonafede o per costrizione (non è inutile ricordare che «andare a Salò» era nell’Italia occupata un obbligo sanzionato con la morte).
Stiamo parlando di Rodolfo Graziani, condannato nel 1950 a 19 anni di carcere in buona parte condonati, e «riabilitato» da Andreotti nel celebre incontro di Arcinazzo (anche se non ci fu alcun abbraccio, come vorrebbe la vulgata). Un criminale di guerra. Cui il Comune di Affile ha incredibilmente eretto un mausoleo, come fosse un eroe. Ancora più incredibilmente finanziato dalla Regione con 127 mila euro. Una vergogna, denunciata dalla stampa internazionale nell’indifferenza dell’opinione pubblica italiana.
Nicola Zingaretti nel suo blog aveva criticato quella decisione. Ora che è divenuto presidente del Lazio ha bloccato i fondi. Una decisione inevitabile, persino ovvia. Ma era proprio indispensabile attendere l’elezione di un presidente di sinistra? Dal canto suo, l’Anpi annuncia che alle commemorazioni per il 25 aprile non vuole nessuna istituzione pur di non avere Alemanno. Perché? Se un sindaco che viene dalla destra dura degli anni Settanta riconosce i valori della guerra di Liberazione, non sarebbe meglio rallegrarsene anziché impedirgli di farlo? Il punto è che la Resistenza non è una «cosa di sinistra». È un patrimonio che dovrebbe appartenere a tutta la nazione. Ebbe le sue pagine nere, e non è «di destra» denunciarle. Ebbe i suoi eroismi, e non è «di sinistra» ricordarli. In entrambi i casi, è doveroso. Così come sarebbe doveroso smantellare quel mausoleo.
Non è in discussione il giudizio storico sul fascismo. Roma è forse fin troppo indulgente al riguardo: i manifesti e le scritte che inneggiano al Duce, gli ammiccamenti di molti gruppi giovanili, le frequenti profanazioni ai simboli della Resistenza e della persecuzione degli ebrei. Gli italiani si sono autoassolti per il fascismo. Preferiscono ricordare le cose buone – ci mancherebbe pure che in vent’anni non ne fosse stata fatta nessuna – e rimuovere le violenze squadriste, l’assassinio degli oppositori, la privazione della libertà, i tribunali speciali, le leggi razziali, lo sciagurato intervento a fianco di Hitler che portò alla disfatta del nostro esercito e alla catastrofe del Paese. Il monumento a Graziani non offende solo le sue vittime; offende noi, come italiani (e come contribuenti tartassati). Non è una profanazione della memoria; è un’ipoteca sul futuro.

Testimoni di libertà

Dobbiamo fare presto. Quando, tra pochi anni, non ci sarà più nessun testimone in grado di raccontarci cosa voleva dire lottare per la libertà e la democrazia, ci rimarranno solo gli strumenti della storia per decidere su cosa fondare la nostra identità nazionale. Sulla Grande guerra – risponderanno alcuni – oppure sulla Resistenza, cioè su quell’unione tra volontari combattenti e gente comune che molti considerano ancora un episodio confuso, a tratti contraddittorio, del nostro passato e che per questo continua a essere oggetto di ripetuti tentativi di revisionismo. Dobbiamo sbrigarci a trasmettere alle giovani generazioni lo spirito di quell’esperienza che oggi appare quasi mitica e i cui contenuti sembrano appartenere a un’epoca infinitamente distante da noi. Quando anche l’ultimo partigiano si sarà arreso alla selezione naturale compiuta dal tempo, l’unica cosa che ci resterà saranno le testimonianze, i ricordi e i frammenti di storia raccontati da chi la Resistenza l’ha vissuta davvero, sulla propria pelle. Di coloro cioè che dopo l’8 settembre del 1943 potevano fare scelte diverse – pensando alla propria salvezza e al proprio bene personale – e invece scelsero l’interesse superiore di un popolo e di una nazione. Nel libro “Ribelli!” appena mandato in libreria da Infinito edizioni, i giornalisti Domenico Guarino e Chiara Brilli hanno raccolto una quindicina di voci di uomini e di donne che decisero di farsi partigiani e di lottare per il bene comune, diventando gli artefici primi della costruzione della nostra democrazia. Sono andati a scovarli in tutta Italia, dal nord al sud del paese, in un viaggio della memoria che arriva fino ai giorni nostri e che, a dispetto dell’età avanzata, li vede ancora oggi indignarsi lucidamente di fronte a un presente molto diverso da quegli ideali per i quali avevano messo a repentaglio le loro vite. Non deve stupire che oggi siano proprio gli ottantenni, o addirittura i novantenni, a invitare i giovani alla ribellione: basti pensare al grande Mario Monicelli – che fino all’ultimo invitava a fare la rivoluzione – o al francese Stephane Hessel, anch’egli ex partigiano, che a 93 anni è diventato un caso letterario con il suo elogio dell’indignazione. La credibilità sempre più scarsa dei politici e delle istituzioni dimostra quanto sia necessario un richiamo etico da parte dei più anziani. I moniti e gli insegnamenti di figure note come Marisa Rodano, Massimo Rendina, Silvano Sarti e Rolando Ricci e di altre meno conosciute, ma ugualmente significative, contenuti in questo libro saranno indispensabili per raccontare ai più giovani come, nel momento più buio, un popolo seppe trovare lo slancio e l’indispensabile coesione per crescere socialmente, economicamente e culturalmente. Il volume di Guarino e Brilli ci ricorda anche che furono i loro sacrifici e il loro coraggio a innescare quel processo che portò alla nascita della nostra Costituzione, consentendo all’Italia d’imboccare la strada della libertà e dello sviluppo civile dopo un ventennio di barbarie. Il merito principale dei due autori è quello di aver voluto ascoltare queste voci a futura memoria, prima che sia troppo tardi, ma senza limitarsi all’analisi del passato, effettuando invece un opportuno raffronto con un altro ventennio: quello concluso appena pochi giorni fa. Il risultato è un’operazione culturale complessa che può costituire un valido antidoto anche ai ricorrenti e inaccettabili tentativi di equiparazione tra partigiani e repubblichini, magari nascosti dietro a presunte iniziative di pacificazione. Per riuscire nei suoi intenti, “Ribelli!” è corredato da un robusto apparato di note utili a contestualizzare le interviste e si avvale anche di un supporto audiovisivo a tratti toccante – al libro è allegato l’omonimo dvd realizzato da Massimo D’orzi e Paola Traverso – che mostrandoci i volti in alcuni casi traditi dalle emozioni dei quindici ex partigiani, ce li fa sentire ancora più vicini.
RM
(recensione uscita oggi su Left)

L’eterno revisionismo italiano

Mentre a Milano c’è chi brinda all’Olocausto (il foglio del centro sociale neonazista “Cuore nero”), il parlamento si appresta a insultare chi ha vissuto gli orrori del fascismo, chi ha combattuto nella resistenza e chi credere ancora nei valori della democrazia. L’operazione di revisionismo storico è contenuta nel disegno di legge 1360 che intende minare le basi della nostra Costituzione equiparando i partigiani, i deportati e le vittime del nazi-fascismo ai repubblichini di Salò. Il testo varato dall’attuale maggioranza parlamentare vuole istituire l’Ordine del Tricolore (con tanto di assegno vitalizio), sostenendo “la pari dignità di una partecipazione al conflitto, di molti combattenti giovani e meno giovani, cresciuti nella temperie culturale guerriera e imperiale del ventennio, che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente”, perché oggi “è finalmente possibile quella rimozione collettiva della memoria ingrata di uno scontro che fu militare e ideale”. Un testo che ricorda quello usato dalla propaganda del regime fascista, e dall’altrettanto chiaro contenuto. Di fronte a una crisi economica devastante, il Parlamento italiano non trova di meglio che discutere di onorificenze e connessi emolumenti economici (200 milioni di euro l’anno, a decorrere dal 2009) per i combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana, parlando per giunta di uno scontro anche “ideale”. Quale ideale? L’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana sotto diretta tutela della Germania nazista fu l’inizio del rastrellamento metodico degli ebrei italiani, cui contribuirono attivamente gli apparati della Repubblica Sociale. Di tutti gli ebrei italiani deportati, il 35,5% venne catturato da funzionari o militari italiani della R.S.I., il 4,44% da tedeschi ed italiani insieme e il 35,5% solo da tedeschi (Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-1945, Mursia, Milano 1991). Ecco l’”onore” infame della R.S.I. e di chi ne onora oggi la memoria: razzismo, violenza, subalternità idiota a una gerarchia.

Speciale “Diario”: presentazione a Firenze

memoria09 Il numero speciale di “Diario” pubblicato in occasione del Giorno della Memoria (e tuttora in edicola) sarà presentato mercoledì 4 febbraio alle 18 presso la libreria Mel Bookstore di Firenze (via de’ Cerretani 16r, tel. 055287339).

Interverranno:

Silvano Sarti (presidente provinciale Anpi di Firenze)

Giovanni Gozzini (storico)

Massimo Rebotti (direttore di “Diario”)

Riccardo Michelucci (collaboratore di “Diario”)

Nove anni fa l’istituzione, per legge, della Giornata della Memoria in Italia, ricordo di quel 27 gennaio 1945 quando il campo di Auschwitz fu liberato. Ma quella legge è ancora attuale? Se lo chiede Diario, arrivato alla nona edizione del numero speciale della Memoria.
Tira un’aria di revisionismo della nostra storia: un segnale è la proposta di legge per equiparare partigiani e repubblichini. Sarà l’assalto finale alla memoria della Resistenza?
E quando per la prima volta in Italia si iniziò a parlare bene del Fascismo? Ci dovremmo poi aspettare anche una rivalutazione del «nazista buono», mero esecutore di ordini sbagliati?
Intanto nell’Europa dell’Est, a Budapest, si diffondono amnesie sullo sterminio degli ebrei e un crescente consenso tra i giovani accompagna una riedizione delle SS ungheresi.
Casi di memorie in giro per l’Italia. In una piazza di periferia di Roma è difficile mettere una corona d’alloro per un gruppo di partigiani fucilati; al contrario, vicino Modena, ex partigiani hanno lottato per impedire che la Casa del Popolo fosse rasa al suolo.
Viaggio tra le altre memorie: prove d’attentato nel vecchio Cile, l’ultimo desaparecido in Argentina, il processo impossibile ai Khmer rossi in Cambogia, l’enclave dei serbi in Kosovo, i muri ancora numerosi di Belfast dieci anni dopo la pace, gli eritrei a Milano e la paura della dittatura.