L’America? Chiamatela Schiavocrazia

Una maxi-inchiesta del New York Times riscrive la storia Usa partendo dal vero evento fondativo: la servitù coatta degli africani
di Enrico Deaglio

L’atto d’accusa è senza precedenti: «Cittadini americani, tutto quello che vi hanno sempre detto sulla purezza della nostra democrazia, sulle nostre libertà superiori a quelle di qualsiasi altro, sulla eticità del nostro capitalismo e della nostra Costituzione… è semplicemente falso, disonesto ed ipocrita. Le cose non andarono così: noi non siamo figli di una lotta di indipendenza, ma di una “schiavocrazia”, che ancora adesso plasma la nostra vita sociale ». Queste parole non sono scritte su un volantino di un centro sociale, su un sito di assatanati marginali o su una pubblicazione di un accademico eccentrico, ma sono stampate in grandi caratteri sul New York Times, il più importante giornale del mondo, in un “evento” destinato a segnare, se non altro, una svolta nel giornalismo.
Si tratta di The 1619 Project , un’”inchiesta- bomba” pubblicata con super tiratura sul magazine del quotidiano, che rivisita la storia americana a partire dal quattrocentesimo anniversario di una data mai veramente ricordata. Nell’anno 1619, davanti alle coste della Virginia, una nave pirata inglese assalì un vascello portoghese, cercando oro e dobloni. Trovò invece nella stiva «20 o più» africani, che erano stati rapiti in un territorio che oggi è l’Angola. Non sapendo che farsene, i pirati inglesi li barattarono per provviste, con uno sparuto gruppo di settlers inglesi. L’arrivo di quel gruppo di africani segnò l’inizio della schiavitù americana, che avrebbe portato in quel continente 12,5 milioni di loro fratelli, in catene, in viaggi attraverso l’oceano Atlantico che causarono la morte di altre due milioni di persone, nella «più grande migrazione forzata della storia fino alla Seconda guerra mondiale».
Era appunto il 1619, i Padri Pellegrini sarebbero arrivati solo l’anno dopo — quindi non sono loro i “founding fathers”; e solo 157 anni dopo i coloni inglesi decisero che erano stufi dell’Inghilterra che gli faceva pagare troppe tasse e produssero quel gioiello per le sorti dell’umanità («tutti gli uomini sono uguali»… «il diritto alla felicità») che è la Dichiarazione d’Indipendenza, ma si dimenticarono — anzi non li nominarono proprio — gli schiavi africani, che costituivano già allora un quinto della popolazione. Neanche la Costituzione fa cenno a loro, ma piuttosto si dilunga su tutti i sistemi con cui il governo si impegna a garantire agli schiavisti la loro “proprietà”, compreso l’uso gratuito dell’esercito e della polizia in caso di ribellioni o fughe. Solo nel 1870, dopo la guerra civile dai 600 mila morti e la liberazione di quattro milioni di schiavi, il Congresso approvò il diritto di voto per i neri, ma solo nel 1965, dopo anni di lotte civili, il presidente Johnson ottenne che quel diritto potesse essere esercitato. E ancora oggi è ostacolato.
L’impianto del 1619 Project è una sorta di candida rivoluzione copernicana: è bastato riguardare la storia mettendo al centro un “fenomeno” di cui si faceva fatica a parlare, e fargli ruotare il mondo intorno, per cambiare il significato degli eventi. E dunque, se si ammette che la forza lavoro schiava è stata determinante per la realizzazione dei grandi miti americani, dalla costruzione delle città, al disboscamento delle foreste e soprattutto alle enormi produzioni di zucchero e cotone (la potenza economica americana nell’Ottocento costruita con il lavoro forzato), si potrà osservare che da questa generazione di ricchezza a basso costo concentrata al Sud sono nate, al Nord, sia la rivoluzione industriale, sia il sistema bancario, sia la globalizzazione dell’epoca.
Dei primi 12 presidenti americani, 10 erano proprietari di schiavi; all’inizio dell’Ottocento, l’uomo più ricco d’America era un broker di schiavi del Rhode Island; la Wall Street di New York si chiama così per il Muro, davanti al quale si svolgevano le compravendite degli schiavi.
La guerra civile nel 1865 sancì la fine ufficiale della schiavitù, ma l’America fece molta difficoltà ad ammettere che quei quattro milioni di persone erano stati i protagonisti della nascita di una nazione. Lo stesso presidente Lincoln, il campione dell’abolizionismo e il vincitore della guerra, convocò alla Casa Bianca — ed era la prima volta che uomini neri varcavano la soglia di quell’edificio che i loro genitori o nonni avevano costruito come schiavi — un gruppo di afroamericani “prominenti” e spiegò loro che era meglio che le due razze si separassero; e li informò che aveva dato ordine al Congresso di trovare i soldi necessari per trasferire tutti in Africa.
Il progetto non andò in porto, anche perché Lincoln venne ucciso, ma quello che è certo — secondo The 1619 Project — è che tutte le successive conquiste della democrazia americana, sono avvenute non grazie ai bianchi, ma nonostante i bianchi, e solo perché i neri d’America sono stati più patriottici di tutti i loro concittadini, aprendo la strada alle conquiste di tutti gli altri.
È una ricostruzione romanticizzata della storia americana? Non proprio, anche se il 1619 Project arriva ad un pubblico di massa dopo una serie di successi letterari sullo stesso tema; si lega piuttosto a un movimento politico — che ha una certa consistenza, specie in un anno di elezioni presidenziali — e che chiede, per i neri d’America, una “compensazione” concreta e tangibile, per le ingiustizie subite da sempre.
Tutto il “progetto” — passato al vaglio dei più importanti storici, e che si avvale dei contributi di poeti, giornalisti, musicisti in una ricostruzione radicale e maestosa della storia americana — è stato coordinato da Nikole Hannah-Jones, giornalista del Times , 43enne nata a Greenwood, Mississipi dove suo padre era bracciante agricolo. La città è nota per essere stata una delle capitali del cotone, ma anche dei linciaggi e del razzismo. Presentando il suo lavoro, Hannah-Jones scrive: «I neri hanno visto il peggio dell’America, ma nonostante tutto credono ancora nel suo meglio. Una volta ci dissero che proprio perché eravamo stati schiavi, non avremmo mai potuto essere americani. Ma fu proprio in virtù della nostra schiavitù, che siamo diventati i più americani di tutti».
Allibita e furiosa per questa pubblicazione, tutta la destra americana, presidente in testa. Finora cauti i candidati democratici. Ma un successo democratico Nikole Hannah- Jones l’ha già ottenuto: ha conquistato il New York Times.
(Da “Repubblica”, 24 agosto 2019)

Diario 1996-2009

Il periodico che ha fatto il miglior giornalismo italiano degli ultimi anni chiuderà i battenti definitivamente alla fine dell’anno. L’editore di Diario, Luca Formenton, ha annunciato la triste notizia nell’editoriale del numero di novembre, uscito oggi in edicola. Dopo le varie reincarnazioni (storicamente settimanale poi diventato quindicinale, infine convertito in mensile), la speranza che il giornale riuscisse ad avere un futuro credo fosse condivisa da tutti i lettori del mitico giornale  ‘iniziato’ da Enrico Deaglio e diretto negli ultimi tempi dall’amico Massimo Rebotti. Aver avuto la possibilità di collaborarci negli ultimi sei anni è stato un piacere ma soprattutto un onore, perché “Diario” ha rappresentato uno degli ultimi capitoli della migliore tradizione del giornalismo italiano, ormai sempre più ridotto a zerbino dei grandi potentati economici e asservito ai gruppi immobiliariari, bancari e finanziari. Forse sarò banale, ma mi viene da pensare che fosse un giornale troppo bello, colto e intelligente per poter durare a lungo in un paese come il nostro. Un saluto e un in bocca al lupo al direttore e a tutti i membri della mitica redazione, presente e passata.
RM

Speciale “Diario”: presentazione a Firenze

memoria09 Il numero speciale di “Diario” pubblicato in occasione del Giorno della Memoria (e tuttora in edicola) sarà presentato mercoledì 4 febbraio alle 18 presso la libreria Mel Bookstore di Firenze (via de’ Cerretani 16r, tel. 055287339).

Interverranno:

Silvano Sarti (presidente provinciale Anpi di Firenze)

Giovanni Gozzini (storico)

Massimo Rebotti (direttore di “Diario”)

Riccardo Michelucci (collaboratore di “Diario”)

Nove anni fa l’istituzione, per legge, della Giornata della Memoria in Italia, ricordo di quel 27 gennaio 1945 quando il campo di Auschwitz fu liberato. Ma quella legge è ancora attuale? Se lo chiede Diario, arrivato alla nona edizione del numero speciale della Memoria.
Tira un’aria di revisionismo della nostra storia: un segnale è la proposta di legge per equiparare partigiani e repubblichini. Sarà l’assalto finale alla memoria della Resistenza?
E quando per la prima volta in Italia si iniziò a parlare bene del Fascismo? Ci dovremmo poi aspettare anche una rivalutazione del «nazista buono», mero esecutore di ordini sbagliati?
Intanto nell’Europa dell’Est, a Budapest, si diffondono amnesie sullo sterminio degli ebrei e un crescente consenso tra i giovani accompagna una riedizione delle SS ungheresi.
Casi di memorie in giro per l’Italia. In una piazza di periferia di Roma è difficile mettere una corona d’alloro per un gruppo di partigiani fucilati; al contrario, vicino Modena, ex partigiani hanno lottato per impedire che la Casa del Popolo fosse rasa al suolo.
Viaggio tra le altre memorie: prove d’attentato nel vecchio Cile, l’ultimo desaparecido in Argentina, il processo impossibile ai Khmer rossi in Cambogia, l’enclave dei serbi in Kosovo, i muri ancora numerosi di Belfast dieci anni dopo la pace, gli eritrei a Milano e la paura della dittatura.

Giorno della Memoria, ecco lo speciale “Diario” del 2009

memoria09È uscito oggi il numero di “Diario” dedicato al Giorno della Memoria. Una consuetudine preziosa che si rinnova ormai da alcuni anni. Centocinquanta pagine da leggere e ricordare, possibilmente anche da diffondere, soprattutto tra i più giovani. Chi scrive vi ha contribuito con il pezzo dal titolo “In lutto contro Hitler e Videla”.