Ci sono voluti più di settant’anni per riabilitare i soldati tedeschi che si ribellarono all’idea distorta di patria inculcata dal nazismo. Coloro che in nome di valori universali seppero dire “no” agli orrori del Terzo Reich e si fecero guidare dalla coscienza verso una scelta rischiosa, spesso mortale: abbandonare la divisa e passare dalla parte del nemico, trasformando il proprio dissenso in resistenza attiva. Per la Germania è stata una delle pagine del passato più difficili da affrontare. Fino a poco tempo fa quelli che avevano trovato nella diserzione l’unica scelta morale possibile erano stati relegati nell’oblio oppure erano rimasti sepolti sotto il peso di uno stigma quasi incancellabile. Il percorso verso la riabilitazione pubblica è stato a lungo rallentato dagli equilibri della Guerra fredda ma si è rivelato complesso e tortuoso anche in seguito: le prime leggi che hanno attenuato la penalizzazione dei disertori sono state promulgate alla fine degli anni ‘90 e il processo di riabilitazione si è concluso soltanto nel 2017. Una spinta decisiva per cancellare quell’immagine infamante di “traditori della nazione” è arrivata dal pacifismo militante ma molto ha contribuito anche il tema della solidarietà europea con la costruzione di ponti tra le diverse culture nazionali. Anche sul piano della ricerca storica quello dei disertori nazisti nella Seconda guerra mondiale rappresenta un terreno in larga parte ancora da esplorare, che deve peraltro fare i conti con la drammatica scarsità di fonti documentarie e archivistiche. “Comprensibilmente, chi abbandonò la divisa e passò dall’altra parte fece di tutto per nascondere la propria scelta. Spesso si rese protagonista di azioni compiute in gran segreto, cercò di non lasciare traccia e se sopravvisse non ne parlò volentieri neanche dopo la guerra”, spiega Mirco Carrattieri, storico dell’università di Bologna e curatore – insieme alla collega Iara Meloni – di Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana (edizioni Le piccole pagine, pagg. 359, euro 20), un volume la cui copertina riproduce una delle rarissime foto che ritraggono un disertore tedesco abbracciato a un partigiano italiano. Il libro raccoglie una serie di saggi storici inediti sul tema con l’intento di colmare un’importante lacuna storiografica ma anche di rispondere a un’esigenza civile. “L’analisi e la comprensione della portata di questo fenomeno sono necessarie per mettere in discussione alcuni schemi memoriali legati agli stereotipi nazionali – sostiene Carrattieri –. La memoria pubblica si è rifiutata a lungo di riconoscere la presenza dei disertori nelle file della Resistenza anche perché smentisce la tendenza a demonizzare il ‘cattivo tedesco’ utile ad assolvere il ‘bravo italiano’”.
Persino il feldmaresciallo Albert Kesselring – capo supremo delle forze di occupazione naziste in Italia – parlò con disprezzo, nelle sue memorie, della presenza di disertori tedeschi nelle file della Resistenza italiana. Nel 1960 un saggio dello storico Roberto Battaglia fa riferimento alla presenza di un numero considerevole di “partigiani tedeschi” attivi in Italia durante la guerra di Liberazione. Eppure fino ad oggi esistevano soltanto alcune ricerche a carattere locale: nessuno studio era stato in grado di offrire un quadro d’insieme anche quantitativo del fenomeno. Qui sta l’originalità di questo libro collettaneo che parte dall’analisi delle carte inedite dei processi per diserzione celebrati dai tribunali militari in Germania e illustra una serie di casi singoli significativi che coprono gran parte del territorio italiano, dall’Alto Adige al Lazio. Dai dati raccolti si evince che almeno trecentomila soldati tedeschi disertarono sui vari fronti di guerra tra il 1939 e il 1945. Circa 35mila di essi furono considerati colpevoli del gravissimo reato di Fahnenflucht (fuga dalla bandiera) e sottoposti a procedimenti penali che si conclusero spesso con la loro condanna a morte. In Italia, tra il 1943 e il 1945, vi furono almeno diecimila casi di diserzione da parte di soldati della Wehrmacht, pari a circa l’uno per cento delle truppe naziste impegnate nel nostro paese.
“Disertare in Italia fu una scelta particolarmente drammatica perché significò passare dalla parte del nemico traditore. Gran parte dei disertori della Wehrmacht erano slavi ma nel libro ci siamo voluti concentrare proprio su quelli tedeschi e austriaci – prosegue Carratieri -. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia del centro-nord con momenti di particolare intensità nell’estate del 1944 e nella primavera del 1945, quando le sorti della guerra volgono al peggio”. Il volume contiene tredici storie di diserzione individuale o collettiva: uomini che si unirono ai partigiani per convinzione, per stanchezza o per reazione alle stragi commesse dai nazisti. Talvolta assunsero anche posizioni di comando, come il capitano della Kriegsmarine Rudolf Jacobs, che guidò numerose azioni resistenziali prima di essere ucciso in combattimento in Lunigiana. Ci sono i cosiddetti “cinque di Albinea”, il gruppo di marconisti dell’aviazione che collaborarono con la Resistenza nell’area di Reggio Emilia finché non vennero catturati e fucilati nell’agosto del 1944. In territori come la Carnia e la Val Passiria sorsero addirittura alcuni distaccamenti di disertori. Alcuni di quelli che sopravvissero decisero di restare in Italia. Altri fecero invece ritorno in patria, soprattutto nella Germania federale, dove furono costretti ad affrontare l’ostilità dei loro connazionali e la durezza della giustizia militare. Molti furono anche i civili tedeschi coinvolti nella lotta di Liberazione che si ritrovarono a combattere contro i loro connazionali: uno su tutti Heinz Riedt, cui Primo Levi affidò la traduzione in tedesco di Se questo è un uomo.
Utilizzando atti giudiziari italiani, memorie e carteggi privati, fonti alleate e atti delle commissioni postbelliche di riconoscimento, il volume curato da Carrattieri e Meloni allarga anche il dibattito sulla diserzione tra gli intellettuali, facendo venire alla luce ulteriori dettagli su vicende come quella dello scrittore Alfred Andersch, che costruì la sua immagine pubblica sul tema della diserzione nella Seconda guerra mondiale pur non essendo stato un vero disertore (da qui una nota polemica con il connazionale W.G. Sebald), o vicende come quella di un pittore che ebbe grande successo in Germania est come Walter Fischer, il quale in un carteggio con un comandante partigiano rivelò il fallimento delle speranze che aveva riposto nel comunismo reale. “Quello dei disertori nazisti fu un fenomeno numericamente ridotto ma assai utile per comprendere la guerra in Italia. Siamo anche convinti che, nonostante l’assenza di documentazione specifica, rappresenti un fronte di ricerca dai grandi margini di ampliamento e per raccogliere nuove testimonianze abbiamo aperto la pagina Facebook #partigianidellawehrmacht”, conclude Carrattieri.