Uno dei più recenti filoni della ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale è quello che indaga la presenza dei disertori tedeschi nella Resistenza. Ne avevamo parlato nel luglio scorso, presentando il libro collettaneo Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana curato da due storici dell’università di Bologna, Mirco Carrattieri e Iara Meloni. I saggi contenuti al suo interno fanno il punto su un fenomeno ancora assai poco indagato, partendo dall’analisi delle carte inedite dei processi per diserzione celebrati dai tribunali militari in Germania. Colmare questa importante lacuna storiografica consentirebbe di rispondere a un’esigenza civile: quella di evidenziare la dimensione internazionale della Resistenza smascherando una volta per tutte la tendenza tutta italiana all’auto-assoluzione, che contrappone il falso mito del “buon italiano” a quello – altrettanto artificioso – del “cattivo tedesco”. Secondo questa versione dei fatti, i crimini commessi durante la guerra non andrebbero imputati soltanto ai nazisti, non anche al fascismo, perché gli italiani sarebbero per loro stessa natura incapaci di fare davvero del male. L’insopportabile retorica del “fascismo buono” è ormai stata smontata pezzo per pezzo dalla storiografia recente (ricordiamo in proposito anche il saggio di Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, ed. Laterza). Assai più persistente è invece lo stereotipo del “cattivo tedesco”, la cui demonizzazione è simmetricamente funzionale a rafforzare i maldestri tentativi di assolvere il “bravo italiano”. Un luogo comune che per fortuna continua a essere messo in discussione dagli storici. Dopo l’importante lavoro curato da Carrattieri e Meloni, proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie anche Il buon tedesco di Carlo Greppi (ed. Laterza), un volume che partendo dalla vicenda di uno dei più famosi disertori nazisti – il capitano della marina militare tedesca Rudolf Jacobs – racconta la storia di quei soldati del Terzo Reich che abbandonarono Hitler passando dalla parte della Resistenza.
Quella di Jacobs – “disertore e partigiano”, come recita la targa che gli è stata dedicata a Brema, sua città natale – è una storia affascinante: dislocato in Liguria nell’autunno del 1943 con il compito di coordinare i lavori per la fortificazione delle coste spezzine, requisì le derrate alimentari a chi voleva rivenderle sul mercato nero per distribuirle gratuitamente alla popolazione; poi si prodigò per far pagare adeguatamente gli operai che lavoravano per i tedeschi. La sua coscienza lo indusse a ribellarsi al regime hitleriano e lo spinse a unirsi ai partigiani della Brigata Garibaldi “Ugo Muccini”. Guidò numerose azioni resistenziali prima di essere ucciso in combattimento in Lunigiana, il 3 novembre 1944. Disertando, Jacobs aveva tutto da perdere perché era una figura di spicco dell’esercito nazista e avrebbe potuto cercare di salvarsi aspettando la fine della guerra, come fecero tanti altri. La sua vicenda, scrive Greppi, rappresenta la prova che la Resistenza italiana trascese l’ambito nazionale. Anche perché molti suoi commilitoni seguirono la sua strada: i dati disponibili dicono che solo nella X Armata di stanza in Italia vi furono oltre 3500 casi di diserzione, e una parte considerevole di essi si unì poi ai Partigiani italiani. Gli Alleati li chiamavano “Special Germans”: erano quei militari tedeschi o austriaci che per convinzione, per stanchezza o per reazione alle stragi commesse dai nazisti, scelsero il lato giusto della Storia mettendosi contro il Terzo Reich e si macchiarono del gesto più infamante, ovvero il tradimento e il passaggio alle linee nemiche. In Germania le loro storie sono state a lungo una spina nel fianco della memoria collettiva perché il tema del passaggio al nemico è ancora considerato, nel sentire comune, una sorta di tradimento della patria e per riabilitare chi si ribellò all’idea distorta di patria inculcata dal nazismo ci sono voluti più di settant’anni.
Già nel 1960 un saggio dello storico Roberto Battaglia faceva riferimento alla presenza di un numero considerevole di “partigiani tedeschi” attivi in Italia durante la guerra di Liberazione. Ma finora esistevano soltanto poche ricerche a carattere locale e nessuno studio era stato in grado di offrire un quadro d’insieme di un fenomeno che oggi rappresenta un fronte di ricerca in larga parte ancora da esplorare, dai grandi margini di ampliamento.