Una boccetta di profumo, un fermacapelli colorato, un braccialetto di stoffa. È tutto quello che la piccola Naida è riuscita a conservare della sua amica Tina. I primi mesi dell’assedio di Sarajevo li avevano trascorsi insieme nello stesso palazzo, cercando di nascondere la paura dietro la voglia di vivere dei loro quindici anni. Fino a quella mattina di settembre del 1992, quando Tina fu colpita dalle schegge di una granata che esplose proprio dentro l’androne del palazzo. Naida ha conservato fino ai giorni nostri quei tre piccoli oggetti che le ricordano la loro grande amicizia e le serate trascorse nel seminterrato dell’edificio dove avevano allestito una specie di discoteca usando la batteria di un’automobile. Per Jasmin invece, il ricordo di quella guerra si materializza ancora oggi di fronte ai jeans indossati dal suo fratellino Irfan, che fu ucciso da un cecchino davanti a casa. “Amava il canto e aveva appena vinto un concorso musicale per bambini. Fu sepolto proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto ritirare quel premio”, spiega il racconto che accompagna quel paio di jeans, oggi esposto in una teca di vetro illuminata. Talvolta anche piccoli oggetti all’apparenza insignificanti possono declinare esistenze andate in frantumi, salvando dall’oblio memorie individuali di persone comuni. Le storie di chi è stato bambino durante la guerra di Bosnia rivivono attraverso le testimonianze, i disegni, i diari, le fotografie e i giocattoli raccolti in un piccolo edificio nascosto in una delle stradine che dal centro di Sarajevo salgono verso la collina, quelle stesse strade in cui, trent’anni fa, la popolazione civile veniva sottoposta a un fuoco spietato e incessante. Il War Childhood Museum è uno straordinario progetto museale ideato nel 2017 da Jasminko Halilovic, un 34enne bosniaco che ha vissuto la sua intera infanzia sotto quell’assedio. Ha ideato l’iniziativa quasi per caso, alcuni anni fa, con una semplice domanda su Facebook: “cos’è stata per te la guerra?”. Gli risposero in diecimila, aprendo il vaso di Pandora dei loro ricordi, condividendo per la prima volta esperienze intime di dolore e morte ma anche di gioia e speranza. In poco tempo centinaia di persone gli portarono anche piccoli frammenti dimenticati della loro infanzia. Indumenti, lettere, giochi, testimonianze, foto e video di famiglia, alcuni risalenti agli anni felici prima della guerra e poi custoditi gelosamente come un tesoro personale. Poiché quando si è costretti a stare in bilico tra la vita e la morte anche i piccoli oggetti del ‘prima’ possono un fornire un conforto, infondere fiducia nel futuro, diventare un antidoto all’angoscia e alla disperazione. Oltre milleseicento bambini persero la vita nei 44 mesi di assedio in cui i cittadini di Sarajevo dovettero convivere quotidianamente con la paura, la fame e la morte. Chi ha avuto la fortuna di sopravvivere ha sentito il bisogno di condividere i propri sentimenti e di rielaborare, attraverso i ricordi, quei fatti del tutto incomprensibili ai loro occhi di bambini. Il materiale è stato prima raccolto in un libro tradotto in più lingue, poi è diventato una mostra che racconta la guerra attraverso lo sguardo delle vittime più indifese. Ciascuna delle teche del museo contiene oggetti di uso comune che hanno aiutato un bambino a sopravvivere in quegli anni. Libri, zaini, bambole e piccoli peluche, un vecchio Monopoli, scatole di costruzioni, giochi in plastica miracolosamente conservati sotto la pioggia di granate e oggi trasfigurati in simboli della resistenza umana. Come i libri di favole della piccola Feda, che imparò a leggere e a scrivere durante l’assedio e a sette anni iniziò a tenere un diario quotidiano. “Solo grazie ai miei libri riesco a non piangere tutto il giorno”, confessa in una di quelle pagine. Samir, dieci anni, conservò con cura il certificato che nel 1994 attestò il suo ferimento, perché gli consentiva di ottenere periodiche scorte di caramelle offerte da una Ong locale. Il piccolo Elvis, sfollato da Srebrenica con alcuni membri della sua famiglia, ha donato invece il lenzuolo ricamato che sua madre comprò per sua sorella Enesa, come dono di fidanzamento. Lo conservò per anni, sperando di poterglielo donare, finché i resti della figlia non furono esumati in una fossa comune. Ma l’oggetto più semplice e toccante è la fotografia donata da Ajna, che raffigura lei stessa a pochi mesi, nel 1993, in braccio a sua madre. Il testo che l’accompagna toglie il respiro: “tutta la mia vita è stata segnata dalla persona che ha fatto del male a mia madre. Porto con me il peso della vergogna anche se non ho fatto niente di male. Non sono una figlia dell’odio ma una bambina cresciuta grazie all’amore di sua madre e del suo padre adottivo. Non sono una figlia della vergogna, sono una bambina che ha visto il futuro negli occhi di sua madre e adesso sta cercando di costruire quel futuro. Non sono la figlia di un uomo cattivo, sono la figlia di mia madre”.
Nel 2017 il War Childhood Museum di Sarajevo ha vinto il premio Museo del Consiglio d’Europa e ha iniziato ad allargare il proprio sguardo verso altri conflitti, raccogliendo anche oggetti provenienti dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria, dall’Eritrea e aprendo uffici a New York City e a Kiev. È quasi una tragica ironia del destino che appena tre anni fa i ricercatori del museo abbiano iniziato a raccogliere le testimonianze dei bambini e degli adolescenti coinvolti nel conflitto in Donbass e in Crimea a partire dal 2014. Ai partecipanti era stato sottoposto un questionario elaborato con la consulenza degli psicologi con domande riguardanti la loro vita quotidiana. Ogni bambino o ragazzo coinvolto aveva donato un oggetto che gli ricordava la guerra e nel giugno scorso la sezione ucraina del War Childhood Museum, diretta dalla storica dell’infanzia Iuliia Skubytska, aveva allestito la prima mostra a Kiev. Un’altra esposizione era stata programmata per l’estate prossima a Odessa. All’inizio di quest’anno avevano iniziato a portare in giro per il Paese l’archivio di storie e oggetti del museo finché, il 24 febbraio scorso, l’itinerario non è stato interrotto dall’invasione russa. Da allora è inevitabilmente cambiata anche la prospettiva di lavoro dei ricercatori del museo. “L’Ucraina aveva già un’intera generazione di bambini che non sa che com’era la vita prima della guerra. Fino a poco tempo fa c’è chi, a Kiev, pensava che la mostra riguardasse il destino di qualcun altro, non il proprio. Adesso tutto è diverso”, spiega Skubytska, che alla fine di febbraio si è rifugiata proprio a Sarajevo con alcuni membri del suo staff, dopo aver messo in sicurezza il materiale raccolto finora. La speranza è quella di poterlo rimettere in mostra prima possibile, quando la guerra sarà finalmente soltanto un ricordo.