È già viaggio ma è ancora prima della partenza: quel mettersi a navigare sul computer per progettare tappe e programmi di visite. Una volta decisa la destinazione, sui siti dedicati si scelgono gli alberghi e i luoghi da non perdere, ci si fa un’idea leggendo recensioni di chi ci ha preceduto, si prende qualche appunto e si comincia a farsi un’idea di dove stiamo per andare. Un anticipo del viaggio che ne è preparazione, ma oggi anche un surrogato non per guardare a ciò che ci attende una volta arrivati, ma per guardare all’indietro, là dove non andremo, là dove una città nel frattempo devastata è rimasta cristallizzata su internet.
Accade per Mariupol, come per tante altre città dell’Ucraina. I fusi orari della storia non sono sincronizzati, e Tripadvisor persiste nell’illustrare le attrazioni, con i “24 luoghi in ordine di preferenza dei viaggiatori”: si comincia con la Moschea del Sultano Solimano, con un voto da 5/5, e commenti del genere: “Bell’edificio e altrettanto bel giardino, luogo ideale da fotografare”. Continua a leggere “Il viaggio più assurdo? A Mariupol con Tripadvisor”
Due padri uniti dall’empatia del dolore dopo la tragica morte delle giovani figlie. Un ebreo e un palestinese: potevano odiarsi rinfacciandosi i rispettivi lutti, invece diventano amici e insieme cercano la redenzione di fronte a un dolore così atroce. Rami Elhanan e Bassam Aramin sembrano due personaggi usciti dall’Iliade eppure sono autentici, reali, in carne e ossa. Smadar, la figlia 14enne di Rami, fu uccisa da un kamikaze palestinese mentre faceva shopping con le amiche, nel centro di Gerusalemme. Abir, 10 anni, figlia di Bassam, fu colpita a morte fuori dalla sua scuola da un giovane soldato israeliano che sparava proiettili di gomma su civili inermi. La tragica simmetria di quelle morti distrugge due giovani vite ma per una volta non genera desideri di vendetta perché i loro padri fanno conoscenza grazie a un’organizzazione di sostegno per genitori che hanno perso i figli nel conflitto. Continua a leggere “McCann: “racconto due padri divisi dalla guerra ma uniti dal dolore””
Il rifiuto più clamoroso fu quello di Muhammad Ali, che in un giorno di fine aprile del 1967 dichiarò pubblicamente di non voler imbracciare le armi nella guerra del Vietnam. Il grande pugile venne arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo mondiale, e soltanto quattro anni dopo vide la sua condanna annullata in appello dalla Corte Suprema. In un’epoca nella quale l’obiezione di coscienza era ancora osteggiata e considerata un reato, l’opposizione a quel conflitto segnò per sempre una linea di confine nella storia e nell’anima degli Stati Uniti. Migliaia furono i soldati americani che disertarono, in quegli anni, mentre la prospettiva antimilitarista si manifestava anche nella letteratura con voci autorevolissime, da Kurt Vonnegut a Joseph Heller, da Jack Kerouac a Noam Chomsky. Eppure pochi grandi romanzi hanno raccontato finora la guerra del Vietnam dal punto di vista di chi si rifiutò di indossare la divisa e ne pagò le conseguenze sulla propria pelle. Rappresenta una rara eccezione Saigon, Illinois di Paul Hoover, uscito negli Stati Uniti nel 1988 e pubblicato adesso per la prima volta anche in italiano da Carbonio editore nell’ottima traduzione di Nicola Manuppelli. La storia è quella del ventiduenne Jim Holder, che nell’estate del 1968 sceglie di negarsi alla leva e riesce a farsi assegnare a un servizio pubblico alternativo presso il Metropolitan Hospital di Chicago. Una struttura ospedaliera mastodontica, con novecento posti letto distribuiti su diciotto piani, nel quale dovrà occuparsi della lavanderia, delle pulizie, dei pasti e spesso anche dell’obitorio districandosi tra medici nevrotici, infermieri maldestri, pazienti in fin di vita e cadaveri in abbondanza. “Il lavoro non doveva essere degradante, anche se cercavano di renderlo tale, per semplice patriottismo. Perché quei ragazzi in Vietnam dovevano soffrire, mentre noi, obiettori di coscienza, potevamo cavarcela con lavoretti semplici?”, si chiede il protagonista. Quel microcosmo nel cuore dell’Illinois diventa con il passare del tempo il suo campo di battaglia, il suo Vietnam personale, quasi una metafora del conflitto e dell’atmosfera caotica dell’America della fine degli anni ‘60, in una quotidianità scandita da situazioni al tempo stesso grottesche e drammatiche. Scrittore, poeta e curatore delle principali antologie di poesia nordamericana contemporanea, Paul Hoover ci offre un punto di vista inedito su quella guerra con un romanzo generazionale dai tratti autobiografici. Essendo cresciuto all’ombra della chiesa pacifista di Brethren, in Ohio, dove suo padre era il pastore, la guerra è stata infatti una costante della sua infanzia e della sua giovinezza. Forse anche per questo è riuscito a descrivere magistralmente il senso di amarezza e di disillusione che segnò quell’epoca, stemperandola con robuste dosi di sarcasmo e ironia. Mentre la guerra prosegue, segnando di fatto il fallimento di una lotta politica e di una nazione intera, a Jim Holder non resterà alla fine altra scelta che la fuga. Dopo l’ennesima manifestazione pacifista perde infatti il suo status di obiettore, diventa a tutti gli effetti un disertore e come migliaia di altri giovani di quegli anni è infine costretto a scappare per evitare il carcere.
RM
Norma Parenti è una delle figure femminili più straordinarie della Resistenza italiana, insignita della medaglia d’oro al valor militare. Visse a Massa Marittima, in provincia di Grosseto, una delle prime aree dove venne organizzata la resistenza armata contro gli occupanti nazisti: è proprio qui che il 23 giugno 1944 i nazifascisti in ritirata consumarono la loro vendetta contro di lei, uccidendola la sera prima dell’arrivo degli Alleati.
Ho curato una puntata di Wikiradio dedicata a lei, che è andata in onda su Radio Rai 3 nell’anniversario della sua morte
Diceva Eschilo che la verità è la prima vittima della guerra. Il grande drammaturgo classico, uno dei padri della tragedia greca, sembra aver ispirato almeno indirettamente una delle opere contemporanee che indagano più a fondo la natura dell’animo umano nel tentativo di comprendere la psicologia dell’ultimo conflitto nei Balcani. L’indagine letteraria costruita dal grande scrittore serbo Saša Stojanović nel suo capolavoro, il romanzo Var – appena portato in Italia dalla coraggiosa casa editrice romana Ensemble, con l’ottima traduzione di Anita Vuco – ha riscosso un successo straordinario in tutti i paesi nei quali è stata finora proposta. A cominciare dalla Repubblica Ceca, dove ha gareggiato fino all’ultimo con Il Cimitero di Praga di Umberto Eco come miglior libro dell’anno. La sua è una voce spietata di denuncia dei crimini commessi dal regime serbo, dell’uso e dell’abuso della guerra nel suo paese come in ogni altra parte del mondo. Il romanzo ha una struttura complessa sviluppata attraverso una raffinata metafora, che vede scendere sulla Terra i quattro evangelisti canonici Marco, Matteo, Luca e Giovanni insieme agli apocrifi Giuda e Maria Maddalena per cercare di stabilire la verità sulla guerra in Kosovo. Attraverso un mosaico composto da trenta dichiarazioni, i sei indagano su Čarli, un infermiere di guerra che altri non è se non l’alter ego dello scrittore, che ai tempi di Milosevic fu realmente incarcerato tra gli oppositori del regime. Una dopo l’altra, con continue variazioni di stile, si susseguono una pluralità di voci narranti, ciascuna delle quali presenta una fitta rete di allusioni ai capolavori della letteratura occidentale, ai classici russi e ai grandi scrittori serbi del passato come Danilo Kiš e Ivo Andric, ai quali Stojanovic viene oggi accostato da molti. Tutto è funzionale a rappresentare l’assurdità e la ferocia degli eventi, la paura e l’egoismo, ma anche l’amore e la speranza. Fino a farci capire che il compito degli evangelisti non può essere portato a termine perché in quella guerra – forse in nessuna guerra – esiste più la verità.
Originario dell’area più derelitta della Serbia meridionale, una zona caratterizzata da povertà, disoccupazione ed emigrazione, Stojanović ci guida in quell’inferno in Terra che è stato il conflitto balcanico con una lingua dura, a tratti spiazzante, e racconta l’orrore e la follia del conflitto con una scrittura profondamente autobiografica. “Ho preso parte anch’io a quella guerra – ci racconta – e mi sono ritirato una settimana prima che finisse quando mi fu diagnosticato un disturbo da stress post traumatico. All’epoca mi proibirono di parlare di quei fatti, ma non di scriverne”. La stesura di Var è stata per lui un processo catartico che ha accompagnato la sua vita per nove lunghi anni, al termine dei quali dice di essersi convinto del potere salvifico della letteratura. “Questo lavoro è iniziato come una sorta di autoterapia e si è poi trasformato gradualmente in una scoperta di me stesso. Credo che la letteratura possa contribuire alla scoperta delle caratteristiche divine dell’uomo, che sono ben nascoste. A prima vista affiora soltanto il male ma scavando nel profondo dell’anima si possono sempre trovare l’amore, la speranza e la fede, quelle caratteristiche e quei valori che ci rendono umani. In questo senso penso che la letteratura sia indispensabile all’uomo, e serva a fargli trovare una via d’uscita quando ha perso la speranza”. Dopo una guerra vissuta in prima persona alla quale è seguito un lungo viaggio interiore, Stojanović sostiene che ci sia ancora spazio per la riconciliazione tra i popoli dell’ex Jugoslavia. “I Balcani sono da sempre noti come il luogo dove vengono allevate le piccole differenze, molti sostengono che non vi sia spazio per la convivenza tra tanti popoli. Io credo invece che siamo talmente simili che non possiamo che vivere gli uni accanto agli altri. Odiavamo i nostri vicini perché in loro vedevamo rispecchiati i nostri difetti. Invece la letteratura potrebbe agire come uno specchio anche in un altro senso, mostrandoci nei nostri vicini quello che ci piace di noi stessi, facendo quindi nascere in noi non un sentimento di odio, ma di amore”. Da agnostico, Stojanović sostiene che l’arte sia una strada verso il Signore, che lui ha voluto percorrere attraverso un viaggio “costellato da dubbi e incertezze”. In fondo, osservava George Bernard Shaw, le opere d’arte servono proprio a quello: a guardare la propria anima.
RM
Centinaia di uomini, donne, bambini sbalorditi fissavano il vuoto e la voragine. Il Vecchio non c’era più. Gridavano, piangevano, minacciavano, maledicevano, alzavano le mani verso il cielo e chiedevano: perchè?
Alle 10,15 di mattina del 9 novembre 1993, dopo due giorni di bombardamenti da parte dell’esercito croato bosniaco, il Ponte Vecchio di Mostar crollò nelle acque del fiume Neretva. Non era soltanto uno dei tesori più preziosi dell’architettura ottomana della Bosnia Erzegovina, ma anche uno straordinario simbolo di dialogo tra Oriente e Occidente. Il suo abbattimento fu uno degli eventi cruciali delle guerre balcaniche degli anni ’90.
Il ponte ricostruito dopo anni di lavori fu inaugurato il 23 luglio 2004. Quel giorno c’eravamo e fu un’emozione che non potremo scordare mai
“Priebke era un mio amico. Era un cittadino tedesco, cristiano cattolico, soldato fedele. E’ stato l’unico caso di un ultrasettantenne innocente dietro le sbarre. È uno scandalo come è stato trattato in Italia, è stato perseguitato mentre si accolgono modo dignitoso gli immigrati a Lampedusa. E’ una vergogna”. Sono le parole di Don Floriano Abrahamowicz, sacerdote lefebvriano, intervistato da Giuseppe Cruciani a “La Zanzara”, su Radio24. Il religioso veneto difende strenuamente l’ufficiale nazista e si rende protagonista di un rovente alterco con David Parenzo, a suon di insulti e di ingiurie. “Mettete una palla da tennis in bocca a Parenzo per farlo tacere” – insorge Don Floriano al disappunto del giornalista – “È lui il nazista, perché ha la camera a gas in testa. Dalla sua bocca esce pestifero gas ogni volta che la apre”. E prosegue la sua filippica pro Priebke: “Lui era semplicemente un poliziotto che ha applicato la legge marziale internazionale. È innocente, non è un criminale, è stato prosciolto due volte per la tragedia delle Fosse Ardeatine. Criminali sono quelli che hanno fatto saltare in aria i ragazzi di via Rasella, perché erano dei privati cittadini senza uniforme. E invece” – prosegue – “ai partigiani vengono date medaglie d’oro. Dite a loro di pentirsi. Priebke invece ha rispettato la legge”. E aggiunge: “Negli stati cattolici di una volta dove c’era la tremenda pena di morte, ahi ahi ahi che oscurantismo, il condannato a morte aveva la sepoltura e i sacramenti. E questa pseudo-democrazia rifiuta a un innocente vegliardo anche la sepoltura. Io sabato prossimo dirò una messa per il riposo dell’anima di Priebke”. Il sacerdote esprime la sua sulle camere a gas: “È una vergogna che nel ventunesimo secolo non si sia fatto ancora un vero studio scientifico sulle camere a gas. Quattro anni fa ho detto che servivano almeno a disinfettare. Confermo tutto. L’Olocausto? L’unico vero che c’è stato, nel senso pieno e biblico del termine, è la morte di nostro Signore Gesù Cristo. Quello ebraico” – continua – “non è stato un Olocausto, ma un eccidio. Vieto a chiunque al mondo, ebreo o non ebreo, di rivendicare per sé quello che è unico per Gesù Cristo”.
Venti anni fa, il 30 settembre 1993, la capitale bosniaca era nel pieno del lungo e sanguinoso assedio che segnò il culmine della guerra tra le comunità che componevano la ex Jugoslavia. Un giorno di bombardamenti, come ogni giorno. Gente che corre sotto il tiro dei cecchini, come ogni giorno. E una giovane che incrocia l’obiettivo di un fotografo italiano. Ecco il suo racconto.
Sarajevo, 30 settembre 1993. La capitale della Bosnia Erzegovina è assediata da 17 mesi. Le truppe nazionaliste serbo-bosniache la circondano dal 6 aprile 1992. Sarà l’assedio più lungo della storia moderna. Da ottobre dello stesso anno, il fronte dei croati e musulmani bosniaci (che il 1 marzo del 1992 avevano vinto insieme il referendum per l’indipendenza della Bosnia da quello che rimaneva della Jugoslavia) si rompe e inizia una guerra spietata tra ex-alleati. Il 1993 è l’apice di questo scontro, mentre i serbo-bosniaci, che hanno conquistato già nei primi mesi di guerra il grosso del territorio, sembrano fermi a tenere le posizioni. Due giornalisti sono lì, a raccontare l’assedio e quello che c’è intorno, inviati del quotidiano “il manifesto”. Edoardo Giammarughi e Mario Boccia, l’autore della foto della “ragazza che corre”. Hanno imparato a conoscere la città e la sua storia, tanto da riconoscerne tracce nei particolari (come i nomi delle strade). Hanno scelto di avvicinarsi al particolare (è necessario per scattare una buona foto, come per scrivere un buon articolo), senza perdere il senso del generale. Edo ci ha lasciati nel 1998. Mario ci racconta la storia di quella foto.
La toponomastica di Sarajevo.
Seduti fuori un piccolo bar, in via Radojka Lakic (partigiana nata nel 1917 e fucilata nel 1941) io e Edoardo aspettiamo il caffè. Qui, in piena guerra, ho gustato il miglior Nescafè della mia vita, preparato con cura maniacale, con lo zucchero sbattuto a mano, per mascherarlo da espresso con la crema. Per noi giornalisti, costa tre marchi tedeschi. Troppi, ma ben spesi. Una giornata di lavoro sta per finire. La tregua sulla città regge. Dalle loro postazioni sulle montagne, i militari serbi non stanno sparando. La guerra sembra lontana anche se, a pochi chilometri da qui, gli ex-alleati croati e musulmani si combattono aspramente. Mostar est è allo stremo, assediata da soldati che pregano a Medjugorje. La pulizia etnica è spietata e reciproca ovunque. Nemmeno i villaggi più sperduti sono risparmiati. Perfino Pocitelj, sulla strada che costeggia la Neretva verso il mare, è rasa al suolo. Era il villaggio degli artisti e dei pittori. Hanno piantato una croce bianca alta cinque metri davanti alla moschea bruciata. Per intimidire, non per pregare. L’altro ieri il “Bošnjacki Sabor”, un parlamento autoproclamato, tutto musulmano, ha respinto l’ennesima proposta di cessate il fuoco della diplomazia internazionale, basata sulla partizione su base etnica del paese. Oggi il parlamento bosniaco ufficiale ha ratificato quella decisione. L’arrivo del caffè coincide con un sibilo agghiacciante sopra di noi, seguito da un’esplosione che fa male. Prendo le macchine fotografiche e corro dov’è caduta la granata, in via Maresciallo Tito (partigiano, presidente Jugoslavo e fondatore del movimento dei non allineati, nel 1961). Un altro sibilo mi paralizza le gambe. Sento vibrare il muro sul quale mi sono appiattito. Il secondo colpo ha colpito l’altro lato dell’edificio. Mi affaccio dall’angolo: la strada è deserta. Metto il ventotto e misuro la luce, piatta e senza ombre. Mi avvicino, ma un muro scheggiato e un po’ di calcinacci non significano niente. La foto non c’è. Penso ai feriti che ho visto. Non ai morti, ma alle urla dei feriti leggeri, con le schegge in corpo e le ossa fratturate. Continua a leggere “Sarajevo, storia di una fotografia: “la ragazza che corre sotto le bombe””
Martedì prossimo, 17 maggio, un monarca britannico tornerà in visita ufficiale in Irlanda dopo cento anni esatti. Era il 1911 quando re Giorgio V, nonno dell’attuale regina Elisabetta II, sbarcò a Dún Laoghaire, la cittadina a pochi chilometri da Dublino che all’epoca si chiamava Kingstown, accompagnato da una flotta di incrociatori e navi da guerra. Gli irlandesi lo accolsero calorosamente perché videro in lui il re che avrebbe sbloccato una volta per tutte lo stallo della Home Rule, la legge sull’autogoverno di cui si discuteva da oltre un decennio. Ma il progetto che doveva suggellare la riconciliazione tra i nazionalisti irlandesi e l’Impero britannico si arenò definitivamente, di lì a poco, e fu cancellato per sempre dall’agenda politica con lo scoppio della Prima guerra mondiale. In appena un lustro – tra il 1916 e il 1921 – l’Irlanda fu sconvolta da un’insurrezione repressa nel sangue, da una guerra d’indipendenza e infine dalla tragica divisione del paese che è durata fino ai giorni nostri. Per ottenere l’autogoverno di una parte dell’isola, gli irlandesi furono poi costretti con la forza ad accettare un giuramento di fedeltà al monarca britannico che li divise al punto da portarli alla guerra civile. In tempi più recenti, il “secolo breve” dei rapporti tra Inghilterra e Irlanda doveva poi conoscere circa tre decenni di guerra a bassa intensità nello staterello artificiale chiamato Irlanda del Nord, con qualche sporadico ma sanguinoso ‘sconfinamento’ nella Repubblica. Non è dunque esagerato definire ‘storica’ la visita di Stato che la regina Elisabetta II farà la prossima settimana, e non solo perché l’ultima volta risale a cento anni fa, quando l’Irlanda (ancora unita) non era ancora una repubblica, ma una colonia britannica, di fatto e di diritto.
La sovrana si recherà infatti a visitare alcuni tra i più significativi e simbolici luoghi della memoria irlandese. Martedì sarà al Garden of Remembrance, il grande giardino nel cuore della capitale che commemora i martiri per la libertà dell’Irlanda, dove il programma prevede una deposizione di fiori davanti al monumento ai caduti. Le forze di sicurezza, l’esercito e i servizi segreti sono allertati da tempo per una visita che è nel complesso considerata ad alto rischio. I repubblicani del Sinn Féin hanno espresso una posizione critica ma hanno detto che si terranno fuori da ogni protesta o contestazione, mentre i gruppi più radicali hanno in programma manifestazioni di dissenso anche plateali. I socialisti rivoluzionari di Éirígí hanno indetto un presidio permanente 24 ore su 24 proprio al Garden of Remembrance per opporsi alla visita e per impedire alla regina di deporre le corone di fiori di fronte al monumento. Il suo portavoce, Brian Leeson, ha spiegato che “coloro che intendono portare qui la regina vogliono usare cinicamente la memoria della lotta per la libertà e tradire i sogni di quegli uomini e quelle donne che sono morti per quegli stessi sogni, che contemplavano un’Irlanda unita e libera dal giogo inglese. Invece cinquemila soldati inglesi sono rimasti sul suolo irlandese ad appena un’ora da Dublino”. Il giorno dopo, mercoledì 18, Elisabetta sarà al memoriale di guerra che ricorda gli oltre 49000 soldati caduti durante la Prima guerra mondiale, quando gli irlandesi venivano mandati al macello nelle trincee con indosso le divise dell’esercito di Sua Maestà. Altro momento assai controverso della sua visita sarà la tappa a Croke park: l’antico tempio del football gaelico è diventato uno degli stadi più grandi e moderni d’Europa, ma le sue vecchie mura trasudano ancora la memoria della strage compiuta qui dalle truppe britanniche durante una partita. Una domenica di fine novembre del 1920 – negli anni più caldi del conflitto che precedette la divisione – i carri armati inglesi entrarono in campo e aprirono il fuoco sulla folla, uccidendo quattordici persone tra cui il capitano della squadra del Tipperary. E ad aumentare ulteriormente la portata simbolica della visita della regina, il 17 maggio cade anche il 37° anniversario della strage del “venerdì nero” del 1974, quando quattro autobombe esplosero senza avvertimento nel centro di Dublino e nella cittadina di Monaghan, uccidendo 34 persone. Fu l’attentato più grave degli ultimi trent’anni di conflitto (i cosiddetti Troubles) e in anni recenti le inchieste hanno accertato la responsabilità dei servizi segreti britannici, dunque del governo di Londra. Tre anni fa il parlamento di Dublino approvò all’unanimità una mozione che chiedeva al governo britannico di collaborare alle indagini consentendo l’accesso ai documenti d’archivio relativi alla strage, ma finora l’appello è rimasto inascoltato. Il gruppo che raduna i familiari delle vittime si è detto fiducioso che la visita della regina potrà finalmente sbloccare la situazione. Solo se il tempo darà loro ragione, potremo dire che la visita della regina – la stessa regina che ha decorato i soldati che massacrarono i civili a Derry nella “domenica di sangue” del 1972 – non sarà stata solo un’inopportuna e costosa passerella. Riccardo Michelucci