L’indifferenza di fronte alla Shoah

Avvenire, 30 settembre 2021

Con un romanzo commovente che ci costringe a interrogarci sulla nostra capacità di distogliere lo sguardo di fronte all’orrore, la scrittrice neozelandese Catherine Chidgey dimostra che esistono ancora modi originali per raccontare l’Olocausto attraverso la letteratura. Nel suo nuovo Vicinanza distante (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pagg. 464, euro 18) Chidgey utilizza tre narrazioni in prima persona per raccontare la storia di altrettanti personaggi i cui destini si intrecciano in una miscela di realtà e finzione che affronta questioni di fede e scienza, di disumanità e speranza con empatia e compassione. L’ufficiale delle SS Dietrich Hahn assume il comando del concentramento di Buchenwald e si trasferisce con la giovane moglie Greta in una lussuosa villa appena oltre il confine del campo. Ha il compito di far quadrare i conti, di risolvere i problemi del sistema fognario e del crematorio; deve inoltre far fronte alla corruzione dilagante e alla scarsità delle scorte di cibo per i prigionieri. Greta Hahn non ha la minima idea di cosa faccia il marito, non si accorge delle gravi condizioni di salute di quegli uomini scheletrici con gli occhi vuoti che vengono in casa sua con le nuove tende per la camera da letto e non si interroga minimamente sull’origine del fumo dei forni che aleggia pesantemente nell’aria. Al contrario, trascorre il suo tempo facendo acquisti a Weimar con le mogli degli altri ufficiali e vivendo in un’inconsapevolezza surreale. Il dottor Lenard Weber – esatto contraltare di Hahn – è invece un medico onesto, leale e umano che anni prima, a Francoforte, ha sperimentato senza successo un macchinario di sua invenzione per curare i tumori. Durante la guerra è stato classificato dai nazisti come un “mischling” o un “mezzo ebreo” ed è finito nel campo di concentramento di Buchenwald, dov’è costretto a ricostruire quella macchina e a usarla per curare la giovane moglie di Hahn, alla quale viene diagnosticato un cancro. Il triplice flusso narrativo si alterna e prende forma, come in un lungo flashback, attraverso le lettere che Weber – sopravvissuto al campo – scrive alla figlia nel 1946, i nastri degli interrogatori di Hahn nel dopoguerra e il “diario immaginario” che accompagna sua moglie dal 1943 al 1945. Ad aumentare il livello emotivo di un romanzo ambizioso, basato anche su un’ampia ricerca storica, c’è infine un quarto piano narrativo che Chidgey usa con maggiore parsimonia. È la voce collettiva della cittadinanza di Weimar, quasi un coro greco composto da quelle persone che preferirono non vedere, che negarono di essere a conoscenza di ciò che accadeva all’interno del campo, la cui vita scorreva quotidianamente tra pregiudizi, false convinzioni e interessi personali. Poco dopo la fine della guerra, le truppe statunitensi portarono i cittadini di Weimar all’interno del campo di Buchenwald per costringerli ad assistere alle atrocità che avevano tollerato sulla soglia di casa. Ma anche allora si rifiutarono di riconoscere la verità. “Da mesi non osavamo più passeggiare tra le colline; ci avevano tolto anche quel piccolo piacere. Dovevamo tenerci a distanza – dicono cercando un alibi -. Chi poteva essere sicuro che non avrebbero sopraffatto le guardie per poi invaderci, spaccarci le finestre, rubarci gli oggetti di valore, tutti quelli che avevamo nascosto e sepolto?”
A guerra conclusa l’omertà, l’inerzia e la complicità di gran parte della popolazione tedesca contrasta con i sensi di colpa che il dottor Weber prova per essere sopravvissuto. Ricco di descrizioni dettagliate sul campo di concentramento, sulla cultura tedesca e sulla macchina di sterminio nazista, Vicinanza distante è un racconto potente che rivela i due volti opposti dell’umanità e fa riflettere su quella follia disumanizzante che accecò a lungo anche la gente comune.

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