Niccioleta, quella strage dimenticata

Avvenire, 25 aprile 2019

I rastrellamenti iniziarono all’alba del 13 giugno 1944. Decine di soldati tedeschi e milizie fasciste sorpresero nel sonno gli abitanti di Niccioleta, un piccolo villaggio di minatori della Maremma toscana ritenuti colpevoli di aver organizzato turni di guardia armati alla miniera di pirite. A pochi giorni dall’arrivo delle truppe statunitensi al comando del generale Clark, i nazifascisti fucilarono sei minatori nel piccolo cortile dietro al forno della dispensa. Altri centosessanta li deportarono nel vicino paese di Castelnuovo Val di Cecina, ammassandoli all’interno del teatro cittadino. L’accusa nei loro confronti era quella di essere partigiani. Il pretesto fu fornito dagli elenchi dei turni di guardia alla miniera. L’epilogo del feroce massacro andò in scena la sera del 14 giugno, quando altri settantasette minatori vennero condotti nei pressi di una centrale geotermica poco distante e abbattuti a raffiche di mitra. Le vittime furono complessivamente ottantatre e fecero di Niccioleta il luogo del più grave eccidio di lavoratori compiuto dai nazifascisti durante l’ultima fase della loro ritirata verso la Linea gotica.
A lungo dimenticata anche dalla storiografia sulla Resistenza, quella strage è stata oggetto di una capillare ricerca che rivela con testimonianze orali di prima mano il tragico destino dei familiari delle vittime, i costi materiali, emotivi e psichici pagati dagli orfani e dalle vedove. Frutto del lavoro certosino della storica Nadia Pagni, La strage e gli innocenti. Figlie e figli dei martiri della Niccioleta (edizioni Effigi) indaga le conseguenze drammatiche di quell’eccidio raccogliendo piccole storie intime e personali di infanzie non vissute, di vedove abbandonate dallo Stato e di famiglie senza più i padri che all’improvviso vennero espulse dal villaggio e furono costrette a tornare alla miseria della montagna da cui erano scappate. Chi si ostinò a restare – sia le donne che i figli minorenni – fu invece costretto a sua volta ad andare in miniera. Colpevolmente ignorate dallo Stato italiano uscito dalla guerra, le vedove soffrirono per il resto della loro vita di depressione, di crisi epilettiche, fino a rasentare in alcuni casi la follia. Alcune si suicidarono, altre manifestarono disinteresse e indifferenza nei confronti dei figli fino ad abbandonarli negli orfanotrofi. Il libro contiene decine di interviste raccolte tra gli orfani – in gran parte ancora vivi – nelle quali emergono ferite che sanguinano a distanza di settant’anni e un senso di frustrazione che si trascina inesorabilmente da allora. Unanimi sono le denunce che affiorano dai racconti. L’assoluta mancanza di aiuto da parte delle istituzioni che nel Dopoguerra li lasciarono soli condannandoli all’oblio. Le colpe della Società Montecatini (proprietaria della miniera), che nascose ai familiari delle vittime il diritto a ottenere i certificati di orfanità che avrebbe consentito loro di accedere ai concorsi pubblici invece che alla miniera. Infine l’amnistia di Togliatti, che mise a tacere tutto riducendo definitivamente le vittime al silenzio. Un libro di testimonianze doloroso ma necessario, che analizza sotto una luce inedita uno dei tanti drammi dimenticati della Seconda guerra mondiale.
RM

Katyn e la coscienza sporca dei sovietici

katynUn’elaborazione del lutto lunga quasi 70 anni per la Polonia e per Andrzej Wajda. Nella primavera del 1940, quattromilacinquecento tra ufficiali e soldati dello sconfitto esercito di Varsavia venivano eliminati con un colpo alla nuca dagli scherani del Nkvd su inequivocabili direttive del Politburo. Seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn, i cadaveri vennero riportati alla luce nel 1943 dai nazisti accendendo una feroce campagna propagandistica che cambierà bruscamente di segno quando i vincitori sovietici poseranno nuovamente il tallone di ferro sulla Polonia che già avevano invaso quando erano alleati di Berlino. Da allora sino all’ammissione di colpa da parte di Mosca nel 1990 la verità ufficiale, sponsorizzata anche attraverso la solerte accondiscendenza dei partiti comunisti occidentali, fu che l’ordine della strage era stato firmato non da Giuseppe Stalin ma da Adolf Hitler. Una menzogna a miccia lunga, ma pur sempre una menzogna. Uno dei massacri di un secolo di scatenati mostri al lavoro come il Novecento è diventato un film, “Katyn”, da oggi anche nelle sale italiane, che il suo autore, Andrzej Wajda, ha dedicato alla memoria del padre, uno dei trucidati fra quegli alberi maledetti. Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera che mette in scena la disperazione, lo spaesamento e il cocciuto coraggio di madri, mogli e figli. Con gli occhi delle donne, Wajda allestisce un’evocazione che non risparmia nulla, compresa l’emarginazione postbellica per gli orfani degli assassinati, ma che non coniuga l’odio bensì il culto della memoria e dell’identità per un olocausto il cui vergognoso opificio ha continuato a macinare vittime e disinformazione. Con uno stile secco e impietoso, uno dei grandi vecchi del cinema europeo, dopo aver condotto il melodramma privato e storico davanti alle pagine del diario di un condannato, incide sullo schermo la magistrale e terribile sequenza delle esecuzioni, prima in una squallida cella poi nel bosco: sangue lavato a secchiate e calpestato da stivaloni, morti trascinati su uno scivolo e ammassati su camion, ancora preghiere, ancora urla soffocate, una corda che stringe il collo e i polsi, il proiettile in testa, la caduta tra i corpi che saranno coperti dalla terra smossa dalla ruspa preceduta dall’aguzzino del colpo di grazia inferto con la baionetta, mentre tra le zolle spunta una mano che stringe un rosario. Questo l’epilogo di una ricostruzione che si era aperta con un’altra sequenza ad alta definizione ed emozione su un ponte nel settembre del 1939: migliaia di sfollati cercano di fuggire da una parte all’invasione dell’Armata Rossa e dall’altra a quella della Wermacht scambiandosi grida di pericolo nella vicendevole recriminazione sull’assurdità senza scampo della scelta. Una tragedia coniugata dalla metrica della superba sofferenza creativa trapunta di simboli, ora cristologici ora di tremenda metafora come la bandiera polacca smembrata: con il rosso assurto a vessillo dei torturatori e il bianco svilito a improvvisato copriscarpe della soldataglia bolscevica.
(da Il Secolo XIX)