di Niccolò Rinaldi
Per l’Europa l’anno si conclude con una notizia apparentemente ai margini delle grandi questioni che tengono occupate le istituzioni comunitarie: il 10 dicembre ci ha lasciato Enrico Pieri. Una morte ritardata rispetto all’ora che scoccò per tutta la sua famiglia e per tutta Sant’Anna di Stazzema, il 19 agosto 1944, quando dei soldati tedeschi, guidati da alcuni fascisti “lassù” (il paese è uno di quei posti dove la strada finisce, dopo tanto inerpicarsi) massacrarono tutti. Cinquecentosessanta civili, più che altro donne, bambini e anziani, uccise così, per ragioni mai comprese. Lui si salvò per puro caso, rimanendo dietro la porta che un tedesco spalancò entrando, e mitragliando, in casa sua. A strage compiuta, restò completamente solo; aveva dieci anni.
Uscito dall’orfanotrofio, andò a lavorare come operaio in Svizzera, dovette imparare il tedesco, e questo fu il suo primo atto di comprensione dell’altro, il primo passo di uno spogliarsi delle vesti di vittima italiana per indossare quelle di un italiano che volente o nolente si faceva europeo.
Quando da pensionato tornò a Sant’Anna, si rimboccò le maniche per salvare quel luogo della memoria. Un lavoro silenzioso e costante – chiedere aiuti per l’apertura del centro di documentazione, qualche intervista, incontrare le scuole, il restauro dell’“organo della pace” grazie ad un gruppo di sostenitori tedeschi.
Predicatore laico, testimone che ripudiava il ruolo della vittima da commiserare, per lui antifascismo e lotta al totalitarismo coincidevano con Europa unita. Su questo, il suo era un martellare convinto: solo uniti, oppure non c’è niente per nessuno. Presto anche a Bruxelles si sparse la voce che in un remoto paesino dell’Appennino toscano si trovava un uomo semplice, la cui vicenda intima era plasmata dai disastri dell’Europa, europeo per vita da emigrante, e non visionario, ma lucido assertore che solo il processo avviato con i Trattati di Roma poteva redimere questo continente. Un uomo che non rimproverava ma anzi dialogava con le istituzioni, un umano comunicatore del perché l’Europa è la risposta al nulla. Presto Enrico Pieri, anche in virtù di una peculiare forma di carisma dell’umile, divenne un interlocutore ascoltato. Si fece portavoce delle richieste per assicurare alla giustizia i criminali nazisti – con esiti modesti purtroppo. Molti cominciarono a sollecitarlo, ad andare a trovarlo “lassù”, a invitarlo, a riconoscerlo.
Ma a lui quelle ore felici non bastavano. Una commemorazione, una lapide, anche un processo e una condanna, non significano pareggiare i conti, ottenere un risarcimento: nessuno può portare indietro i morti, anche se, in qualche modo, consola che la memoria sia confortata dalle istituzioni. Il riconoscimento del ruolo delle istituzioni, il rifiuto di ogni assemblearismo vagante, era uno dei tratti di Enrico Pieri. Per quasi tutti i sopravvissuti agli eccidi non c’è mai stata nessuna vera compensazione, ma Pieri sentiva che nel lavorio delle istituzioni, ancorché lento e contraddittorio, si traccia l’unico modo per sollevarsi dal dolore. Perché se vendetta e desiderio di giustizia sono stati d’animo abbastanza vicini, solo un nuovo ordine costituzionale può sanare una frattura sociale e storica.
Così Enrico Pieri lavorava sempre in due direzioni: il lavoro con i cittadini, soprattutto i ragazzi, e quello con le istituzioni. Ho avuto a che fare con lui in entrambi i fronti, ammirato da come il suo porsi in situazioni così distinte fosse identico. Con i cittadini – ricordo un incontro a Vasto con un migliaio di militanti di partito, o a Bruxelles presso una scuola di formazione di giovani – quella sua parlata toscana che era al contempo popolare e forbita, conquistava per un’assenza di enfasi che si traduceva in immediata sincerità. Una testimonianza che non ammetteva repliche, disarmante per la nitidezza degli argomenti, ragioni scritte sulla sua pelle di sopravvissuto. E con le istituzioni, come quando ottenne dal Parlamento Europeo il Premio del Cittadino Europeo; quando riceveva la visita dei presidenti e dei dignitari che, dalla Regione Toscana alla Camera dei Deputati e a quella di Strasburgo, si recavano a Sant’Anna; quando si esprimeva durante le solenni commemorazioni annuali al sacrario. Le sue parole erano scevre di ogni retorica, a tutti rivolgeva lo stesso inoppugnabile ragionamento: l’Europa, se non ora quando; l’Europa unita io non l’ho conosciuta e ne ho subito la feroce divisione, e la pace finalmente conquistata dopo millenni, è un dono prezioso che deve essere solo il primo passo. Lo vidi accogliere con ospitalità italiana e gentilezza, quasi amore paterno, i giovani tedeschi che ogni anno la Germania invia a Sant’Anna in campi di formazione, e che si mettono a riparare la via crucis. Tra i suoi crucci c’era la mancata crescita del Parco della Pace di Sant’Anna, o che i tedeschi utilizzassero i loro fondi europei per finanziare i soggiorni dei giovani a Sant’Anna, mentre in Italia scarseggiavano le risorse perfino per completare la costruzione di una dignitosa foresteria per accoglierli. Rendergli omaggio vorrà dire anche farsi carico di questi compiti.
Conosceva il valore del lavoro, del tempo che occorre per rimettersi in piedi, come giovane orfano e come intero continente. Non era mai impaziente, apprezzava che la notte fosse passata e sapeva aspettare. Ma non stava mai fermo, e anche le sfide del 2022 avranno bisogno di quella umile e instancabile energia. Era il più perfetto ambasciatore delle ragioni dell’Europa unita. Anzi, non era affatto un ambasciatore, era un europeo che veniva dal passato e, come un uomo che viaggiasse nel tempo, si faceva precursore.