Perhat Tursun, lo scrittore scomparso

Avvenire, 29 settembre 2022

Quello che in tempi recenti è stato definito “un inferno distopico di dimensioni sbalorditive” era già stato immaginato e descritto dal più grande scrittore uiguro contemporaneo. Alcuni anni fa, prima che in Cina iniziasse la feroce persecuzione contro l’etnia turcofona di religione islamica che vive nell’estremo ovest del Paese, Perhat Tursun scrisse un romanzo destinato a rivelarsi tragicamente premonitore e ad anticipare gli orrori perpetrati nella regione autonoma dello Xinjiang. Riecheggiando la sua stessa vita, Tursun ha raccontato la vicenda di un cittadino di seconda classe, vittima dell’esclusione e del razzismo, la cui esistenza precaria ricorda quella di molti uiguri prima del 2014, quando le autorità cinesi avviarono la brutale repressione che avrebbe portato oltre un milione di loro nei campi di rieducazione. L’anonimo protagonista del suo romanzo ricorda quello delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij: è un emarginato che lavora in una struttura governativa a Urumqi, la capitale della regione, ma essendo di etnia uigura non può disporre di un alloggio ed è quindi costretto a vagare nella fitta nebbia che avvolge le strade della città in cerca di un posto dove dormire. “Svolazzavo in giro per la città proprio come un topo che svolazza nella spazzatura”, osserva, mentre nel corso del suo peregrinare cerca conforto nei ricordi, nei rituali, nei sogni, e ripensa ai decenni di discriminazione e controllo culturale subiti dal suo popolo, fino a precipitare a poco a poco nella follia. La sua lenta disumanizzazione non è che la metafora del tentativo di sradicamento dell’identità culturale uigura compiuta dalle autorità cinesi.
Il romanzo, scritto come un lungo flusso di coscienza con un uso non convenzionale della forma e dello stile, è appena uscito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con il titolo The Backstreets: A Novel from Xinjiang (Columbia University Press) ed è la prima opera in lingua uigura a essere tradotta in inglese. Merito di Darren Byler, un antropologo canadese che ha scoperto il romanzo nel 2014, mentre si trovava nello Xinjiang per svolgere ricerche etnografiche sulla migrazione degli uiguri dalle campagne alle città. Convintosi che quel testo meritasse un pubblico più ampio, si mise al lavoro insieme allo stesso Tursun e a un traduttore per decodificare il linguaggio e i riferimenti culturali contenuti nel libro. Una volta terminato il lavoro, però, accantonò l’idea di trovare un editore disposto a pubblicarlo perché nel frattempo era iniziata la campagna di repressione delle minoranze etniche prevalentemente musulmane presenti in Cina, e l’uscita del libro avrebbe esposto sia l’autore che il traduttore al rischio di ritorsioni. Byler non poteva ancora sapere che nei confronti degli uiguri stava per essere perpetrato un vero e proprio genocidio culturale e che in pochi anni oltre un milione di persone di etnia uigura sarebbero scomparse, inghiottite nei campi di rieducazione del partito comunista cinese. E che tra queste ci sarebbero stati inevitabilmente anche molti artisti e intellettuali. All’inizio del 2018 si venne a sapere che tra gli arrestati figurava lo stesso Perhat Tursun del quale, da allora, si sono perse del tutto le tracce. L’ipotesi più plausibile è che sia finito anche lui in campo di rieducazione segreto, da dove potrebbe non fare ritorno mai più. L’anno scorso, dopo aver appreso che anche il traduttore era stato arrestato, lo studioso canadese ha deciso che non c’era più alcun motivo di ritardare l’uscita del romanzo e ha trovato un editore disposto a pubblicare per la prima volta in lingua inglese un autore già accostato a Salman Rushdie per l’odio che è riuscito ad attirarsi dai fondamentalisti islamici. Nato nel 1969, figlio di un insegnante finito in carcere ai tempi della Rivoluzione culturale di Mao, Perhat Tursun si è formato sui classici occidentali ed è sempre stato un intellettuale libero. Fin da giovane ha pubblicato poesie, saggi e opere di narrativa in cui ha esplorato temi difficili come il sesso, la religione, il suicidio e la malattia mentale, affermandosi come uno dei più influenti scrittori modernisti in lingua uigura. Alcuni suoi libri sono stati giudicati però troppo trasgressivi e hanno scatenato le ire degli ambienti uiguri più conservatori. Una ventina d’anni fa, dopo aver dato alle stampe il romanzo The Art of Suicide, ha iniziato a ricevere anche minacce di morte da parte degli estremisti islamici ed è stato bandito da molte case editrici dello Xinjiang. Non è chiaro perché il regime cinese l’abbia preso di mira, né si conoscono i dettagli della sua detenzione. Si sa soltanto che è stato condannato a sedici anni di reclusione sebbene nei suoi confronti non sia stata formalizzata alcuna accusa. Nell’introduzione a The Backstreets, Byler ipotizza che possa essere stato persino questo stesso romanzo, uscito anni fa su un forum letterario on-line in lingua uigura, a portare alla sua condanna. La speranza è che la pubblicazione dell’opera in inglese dia risalto alla sua vicenda. E contribuisca a salvargli la vita.

Un pensiero riguardo “Perhat Tursun, lo scrittore scomparso”

  1. A MONTAGNA-SPETTACOLO E’ UNA MERCE, L’ALPINISMO SEMPRE PIU’ UNA FORMA DI SFRUTTAMENTO E COLONIZZAZIONE

    Gianni sartori

    L’inquietante domanda, su “L’alpinismo come forma di colonialismo?” ormai non va nemmeno posta. Se pur scritto con il punto interrogativo (nel titolo) il mio intervento di un paio di anni fa aveva scatenato le ire della lobby di coloro che vivono di “Montagna”. O meglio: sfruttandone l’immagine spettacolare e mercificata.
    Eventi successivi come la pandemia l’hanno resa superflua.
    Perfino tra gli addetti ai lavori qualche mese fa si potevano cogliere  commenti critici – ma forse sarebbe il caso di passare decisamente al disgusto – per le vere e proprie cataste di bombole d’ossigeno abbandonate intorno ai campi base in Nepal (Everest, Dhaulagiri…). Almeno quattro a testa per centinaia di turisti-alpinisti e portatori (non chiamiamoli sempre sherpa per favore, è una etnia e non tutti si prestano a portare il fardello dell’uomo bianco) mentre a causa della pandemia gli ospedali erano saturi, nemmeno lontanamente in grado di gestire non dico le terapie intensive, ma perfino l’ordinaria amministrazione.
    E intanto gli alpinisti infettati dal Covid-19, o temendo di esserlo, pretendevano e ottenevano di farsi evacuare con gli elicotteri delle agenzie private (anche grazie a false dichiarazioni o diagnosi di “edema polmonare da aria sottile” per usufruire delle assicurazioni).
    Ma d’altra parte stupirsene sarebbe da ingenui. Questo è il mondo che anche la lobby dell’alpinismo variamente inteso, dai produttori di materiali tecnici alle agenzie commerciali (ma comprendente scrittori di montagna, promotori turistici, elicotteristi, eccetera) contribuisce a costruire e alimentare. Un bel giro d’affari, sia chiaro. Chiamiamolo businnes, capitalismo, società dello spettacolo o come vi pare, ma ormai (e non solo sul “tetto del mondo”) assume tutti i tratti di un moderno colonialismo. Per quanto riciclato e – malamente – camuffato.
    Non che sull’altro versante le cose vadano meglio. La Cina soidisant comunista starebbe pianificando un inedito sfruttamento turistico-alpinistico delle montagne e l’estensione della rete 5G fino alle alte quote. Così in futuro anche gli alpinisti più social, occidentali e non, potranno restare collegati permanentemente e trasmettere in diretta i loro autoscatti (forma italica per selfie). Per poi magari, è accaduto di recente, vedere uno di questi personaggi sentenziare in televisione sulla necessità di lavarsi meno per non sprecare energia (invece di rinunciare all’elicottero per raggiungere più vette in minor tempo).

    E il Pakistan (di cui mi occupavo in buona parte dell’intervento ricordando alcuni recuperi di alpinisti che evidentemente si erano spinti ben oltre le loro possibilità o semplicemente non avevano tenuto conto dei rischi di crolli nell’epoca del riscaldamento globale)?
    Qui, notoriamente, l’utilizzo degli elicotteri appare più complicato in quanto sostanzialmente in mano all’esercito pakistano, che eventualmente (pagando in anticipo, sappiatevi regolare) li mette a disposizione tramite l’agenzia Askari (?!?) gestita comunque da ex militari di alto grado (quando non li stanno utilizzando per scaricare in mare dissidenti e oppositori, preferibilmente beluci, in puro stile argentino). Tra l’altro, gli elicotteri sarebbero autorizzati a volare non oltre i 6500 metri. Poi è il pilota a prendersi eventualmente la responsabilità. Regolatevi quindi.
    E sarebbe interessante sapere cosa sta accadendo ora, sempre in Pakistan, dopo le devastanti alluvioni derivate dallo scioglimento dei ghiacciai.
    Insomma, ripeto, restarsene a casa sarebbe il minimo.

    Gianni Sartori

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