Nel segno di Mao

Focus Storia n. 177, luglio 2021

Cento anni fa, un gruppo di uomini in barca cambiò per sempre le sorti della Cina contemporanea. Il primo congresso nazionale del Partito comunista cinese ebbe inizio il 23 luglio 1921 a Shangai ma i lavori proseguirono su un’imbarcazione ormeggiata in un lago dello Jiaxing. I dodici delegati stilarono la prima costituzione del partito che proponeva un riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e al collasso. Tra i principali obiettivi fissati in quei giorni c’erano il rovesciamento della borghesia e la costruzione di una società socialista attraverso la lotta di classe, la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. A risultare vittoriosa fu la linea marxista-leninista rappresentata da Chen Duxiu, preside della facoltà di lettere dell’Università di Pechino, che divenne il primo presidente e il segretario generale del nuovo partito. Ma tra i fondatori c’era anche un giovane appena 27enne di nome Mao Zedong, che nel successivo quarto di secolo avrebbe traghettato la Cina dal Medioevo all’età moderna, trasformandola da vittima dell’imperialismo coloniale a grande potenza planetaria. Ribelle e statista, politico diabolicamente scaltro e abile stratega militare: Mao fu il “Grande timoniere” della rivoluzione comunista cinese, una figura colossale che resterà per sempre legata anche all’enormità dei suoi crimini e a un periodo di terrore senza precedenti, nel quale persero la vita decine di milioni di persone. “Predicò la lotta di classe permanente finché questa non diventò una gabbia dalla quale né lui, né il popolo cinese potevano evadere e liberò la Cina dalla camicia di forza del suo passato confuciano, ma il radioso futuro rosso che aveva promesso si trasformò in uno sterile purgatorio”, scrive Philip Short in Mao. L’uomo, il rivoluzionario, il tiranno, che è considerata la biografia più aggiornata sul leader cinese.
Nato il 26 dicembre 1893 a Shaoshan, provincia dello Hunan, nel cuore contadino dell’immenso impero dei Qing, Mao era un figlio della terra e venne allevato secondo i metodi tradizionali della piccola borghesia rurale cinese, alternando lo studio al lavoro nei campi del padre. Entrò in politica molto presto, in una Cina ancora governata dalla dinastia Qing, grazie a una sintesi tutta personale tra i suoi ideali di eroismo ribelle e di grandezza imperiale. Nel 1911, non ancora diciassettenne, si unì alla rivolta anti-imperiale e dopo il diploma alla scuola dello Hunan si spostò all’università di Pechino, dove divenne assistente bibliotecario. Lì si avvicinò per la prima volta alla dottrina marxista, grazie al direttore della biblioteca, Li Dazhao, uno dei fondatori del partito comunista cinese. Nel 1923, al terzo congresso del partito, venne eletto nel comitato centrale. In questa fase cominciò anche a elaborare molte delle sue teorie politiche, individuando nelle agitazioni contadine la fonte da cui attingere per la rivoluzione. Nel 1928 il congresso del partito comunista cinese appoggiò la nascita di veri e propri Soviet rurali e lo incaricò di introdurre alcune misure di riforma agraria. Ma il suo profilo di leader incontrastato emerse con forza negli anni ‘30, nel corso della guerra civile cinese: nel 1934 Mao comandò la “Lunga marcia”, durante la quale l’esercito comunista riuscì a rompere l’accerchiamento delle truppe nazionaliste di Chiang Kai-shek. La rivoluzione comunista si affermò definitivamente poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il primo ottobre 1949 a Pechino, nella piazza Tienanmen, Mao proclamò la nascita della Repubblica Popolare da lui presieduta. Da quel momento in poi, anche grazie all’impegno economico e militare di Mosca, la Cina si avviò verso la modernità ma a costo di una delle più spietate dittature della storia. Il “Grande timoniere” statalizzò l’economia per promuovere uno sviluppo rapido dell’agricoltura e dell’industria e spinse sull’acceleratore delle riforme. Nel 1958 avviò il cosiddetto “Grande balzo avanti”, un gigantesco piano economico e sociale pensato per far entrare la Cina tra le principali potenze industriali del mondo. “L’obiettivo era trasformare il sistema economico rurale in una società comunista industrializzata basata sulla collettivizzazione. Da Pechino decine di milioni di contadini ricevettero l’ordine di abbandonare i campi per trasformarsi in manodopera per la nascente industria siderurgica”, spiega lo storico Frank Dikotter, autore di numerosi saggi sulla Cina di quegli anni. Fu teorizzato che in pochi anni le derrate alimentari sarebbero raddoppiate, addirittura triplicate, e che la produzione di acciaio avrebbe superato quella dei più moderni paesi occidentali. Invece, a causa anche delle gravi carestie che colpirono il paese a partire dal 1959, circa trenta milioni di cinesi morirono di stenti. Fu un fallimento epocale che fece guadagnare consensi ai suoi oppositori all’interno del Partito comunista, ma ancora una volta Mao seppe restare alla guida indiscussa del paese. Per governare le conseguenze del disastro e contrastare l’apparato del partito che cercava di ridimensionare il suo potere, il Grande Timoniere lanciò la cosiddetta ‘Rivoluzione culturale’. “Temeva una condanna postuma per i suoi clamorosi fallimenti, com’era già accaduto a Stalin dopo la sua morte – sostiene Dikotter – ma soprattutto era ancora convinto di poter trasformare la Cina in un paradiso socialista e, pur di riuscirci, era disposto a chiedere qualsiasi sacrificio al suo popolo”. Nell’agosto 1966 un milione di giovani Guardie rosse osannanti giunte da tutto il paese si riunirono in piazza Tienanmen, dove ricevettero l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” e distruggere quelli che furono definiti i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, le abitudini, i comportamenti. I comandamenti della rivoluzione furono elencati nel famigerato “Libretto rosso” che venne stampato in milioni di copie. “Da quel momento in poi” – prosegue Dikotter – il furore iconoclasta avrebbe colpito qualsiasi traccia del cosiddetto ‘passato borghese e imperialista’, portando alla distruzione e al saccheggio di monumenti e luoghi di culto, e innescando una guerra civile che causò centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Mao aizzò gli studenti contro gli insegnanti, incitò il popolo ad attaccare i membri del partito comunista, infine fece intervenire l’esercito, portando il paese in un vortice di terrore nel quale le persone cercarono disperatamente di dimostrare la loro fedeltà al capo supremo”. Non furono attaccati soltanto i dirigenti, i funzionari del partito e tutti coloro che a vario titolo avevano manifestato perplessità nei confronti delle politiche del Grande Timoniere. Decine di migliaia di cittadini comuni vennero perseguitati, imprigionati, torturati, uccisi. Il terrore consentì a Mao di eliminare tutti i veterani del partito che avevano iniziato a criticarlo e anche di gettare una fitta coltre di fumo negli occhi del popolo per celare i suoi insuccessi, dando la colpa a oppositori veri o presunti. Fino al 1968 vi fu una drammatica escalation di violenza urbana: gli studenti inquadrati nelle Guardie rosse presero di mira soprattutto gli insegnanti, che vennero aggrediti, umiliati e picchiati in pubblico, assassinati o costretti al suicidio. Le case dei cittadini benestanti vennero assaltate alla ricerca di beni di lusso, di mobili e libri antichi, di valuta estera. Infine la Rivoluzione culturale si spostò nelle campagne causando nuovi drammi. “Con l’uso della violenza Mao riuscì a incarnare l’utopia, a diventare oggetto di un vero e proprio culto della personalità, ma in ultima analisi il processo aprì la strada anche al tramonto del Maoismo”, conclude Dikotter. Il fondatore della Repubblica Popolare Cinese morì il 9 settembre 1976. Da anni soffriva di una malattia degenerativa e di disturbi respiratori e cardiaci causati dal fumo. Dopo i solenni funerali in piazza Tienanmen – cui partecipò oltre un milione di persone – la salma imbalsamata di Mao fu traslata all’interno di un grande mausoleo realizzato sullo stile di quelli sovietici e vietnamiti.
Prima di morire, il Grande Timoniere era riuscito a riallacciare i rapporti con l’Unione sovietica di Brežnev ma la sua morte fece esplodere le contrapposizioni interne alle diverse anime del Partito comunista cinese, rimaste sopite fino ad allora. A prevalere fu infine l’ala riformatrice di Deng Xiaoping, che intraprese una serie di riforme radicali miranti a decollettivizzare l’economia, mantenendo sempre il principio dell’autorità assoluta del partito contro ogni prospettiva di pluralismo e di liberalizzazione politica.

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