Quello che in tempi recenti è stato definito “un inferno distopico di dimensioni sbalorditive” era già stato immaginato e descritto dal più grande scrittore uiguro contemporaneo. Alcuni anni fa, prima che in Cina iniziasse la feroce persecuzione contro l’etnia turcofona di religione islamica che vive nell’estremo ovest del Paese, Perhat Tursun scrisse un romanzo destinato a rivelarsi tragicamente premonitore e ad anticipare gli orrori perpetrati nella regione autonoma dello Xinjiang. Riecheggiando la sua stessa vita, Tursun ha raccontato la vicenda di un cittadino di seconda classe, vittima dell’esclusione e del razzismo, la cui esistenza precaria ricorda quella di molti uiguri prima del 2014, quando le autorità cinesi avviarono la brutale repressione che avrebbe portato oltre un milione di loro nei campi di rieducazione. Continua a leggere “Perhat Tursun, lo scrittore scomparso”
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Nel segno di Mao
Focus Storia n. 177, luglio 2021
Cento anni fa, un gruppo di uomini in barca cambiò per sempre le sorti della Cina contemporanea. Il primo congresso nazionale del Partito comunista cinese ebbe inizio il 23 luglio 1921 a Shangai ma i lavori proseguirono su un’imbarcazione ormeggiata in un lago dello Jiaxing. I dodici delegati stilarono la prima costituzione del partito che proponeva un riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e al collasso. Tra i principali obiettivi fissati in quei giorni c’erano il rovesciamento della borghesia e la costruzione di una società socialista attraverso la lotta di classe, la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Continua a leggere “Nel segno di Mao”
Testimone degli orrori di Mao
Avvenire, 25 ottobre 2017

Tan Hecheng conserva ancora un vivido ricordo di quell’estate del 1967. All’epoca era uno studente di vent’anni in visita con un gruppo di amici nella contea cinese del Daoxian, provincia dello Hunan, non lontano dal luogo natale di Mao Zedong. Dopo un lungo viaggio in autobus, il giovane si incamminò da solo per le strade della città di Daojiang e si imbatté nei minacciosi avvisi della Corte Suprema del Popolo, affissi sulle mura di un ponte. Annunciavano la punizione nei confronti dei “proprietari terrieri reazionari” ritenuti colpevoli di crimini atroci. “La collera del popolo chiede la loro esecuzione – sentenziavano quei manifesti – sono quindi tutti condannati a morte con effetto immediato”. L’anno prima il Grande Timoniere della Cina comunista, sentendo vicino il crepuscolo del suo potere, aveva lanciato quella che sarebbe tristemente passata alla storia come la Rivoluzione culturale. Era stata denunciata l’infiltrazione del partito da parte di elementi revisionisti e controrivoluzionari intenzionati a creare un regime borghese, erano state chiuse le scuole e le università per mobilitare gli studenti, in breve tempo oltre un milione di giovani Guardie rosse erano giunte da tutto il paese per riunirsi a Pechino, in piazza Tienanmen, dove avevano ricevuto l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” per distruggere i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, i comportamenti, le abitudini. In realtà Mao, indebolito dall’enorme fallimento del Grande Balzo in Avanti che aveva causato decine di milioni di morti per fame, voleva riaccentrare il potere nelle sue mani a costo di nuovi massacri. Per un volta, il giudizio della storia non si sarebbe fatto attendere: nel 1981, appena cinque anni dopo la sua morte, il partito comunista cinese approvò una risoluzione che condannava la Rivoluzione culturale definendola “un lungo e grave errore”. Poco si sapeva all’epoca sui reali effetti di quel decennio di terrore imposto da Mao in tutto il paese, con proprietà confiscate, imprigionamenti arbitrari, “rieducazioni”, torture e uccisioni di massa. Nei primi anni ’80 Hu Yaoban, uno dei nuovi leader del partito, promosse una breve fase di riforme democratiche e nel 1986 inviò oltre un migliaio di funzionari a indagare sugli eccidi di massa compiuti vent’anni prima. Tan Hecheng all’epoca lavorava per un giornale controllato dal partito e fu incaricato di andare nel distretto rurale del Daoxian per raccontare quell’indagine. Avrebbe dovuto scrivere una serie di articoli per giustificare ed elogiare gli sforzi del partito che cercava di affrontare i drammi del passato punendo i colpevoli. Fu il governo stesso a offrirgli la possibilità di scoprire la verità su quei massacri e in qualità di giornalista del regime ebbe pieno accesso a migliaia di pagine di documenti ufficiali. Riuscì quindi a raccogliere informazioni clamorose su una delle tante ondate di violenza e isteria di quei giorni, che causò la morte di circa novemila persone in appena due mesi, tra l’agosto e l’ottobre del 1967. Ma i buoni propositi riformisti del partito erano destinati a svanire in breve tempo. Alla fine del 1986 il clima politico in Cina era già profondamente cambiato e la commissione d’inchiesta insabbiò quasi tutto. Circa quindicimila persone furono riconosciute colpevoli del massacro ma solo una cinquantina di esse vennero condannate per i loro crimini. Il regime fu incapace di compiere una vera catarsi e gli articoli di Hecheng non furono mai pubblicati, rimanendo a lungo chiusi in un cassetto. Se non fosse stato per il suo coraggio e la sua caparbietà, il massacro del Daoxian sarebbe probabilmente rimasto sepolto nell’oblio per sempre. Alcuni anni fa l’anziano giornalista è finalmente riuscito a pubblicarli a Hong Kong, in un volume che adesso è uscito anche in inglese col titolo The Killing Wind: A Chinese County’s Descent into Madness During the Cultural Revolution (Oxford University Press). Continua a leggere “Testimone degli orrori di Mao”
La carestia segreta di Mao
A lungo la macchina della propaganda del governo cinese era riuscita a nascondere agli occhi del mondo una delle più terrificanti carestie dell’epoca moderna. Tra il 1958 e il 1962 le folli politiche economiche imposte da Mao con il cosiddetto “Grande balzo avanti” avevano fatto morire milioni di persone ma grazie all’alibi della Guerra Fredda, le denunce sollevate in Occidente erano state sminuite e definite una montatura della CIA. Il regime cinese ha continuato fino ai giorni nostri a sostenere che le cause dell’elevata mortalità di quegli anni erano da ricondurre alle cattive condizioni climatiche e ai gravi problemi logistici di alcune aree del paese. Le regole rigidissime dell’ortodossia comunista impedivano di ammettere che il gigantesco piano economico e sociale ideato da Mao per far entrare la Cina tra le principali potenze industriali aveva fatto morire di stenti circa 40 milioni di cinesi.
Mentre le dimensioni bibliche di quella tragedia sono state calcolate con numeri attendibili da un recente studio dello storico olandese Frank Dikötter, la conferma sulle sue cause è arrivata da una dettagliatissima opera redatta da un giornalista cinese, Yang Jisheng. Uscito originariamente soltanto a Hong Kong, il suo ponderoso volume Tombstone: The Great Chinese Famine 1958-1962 è stato pubblicato adesso per la prima volta anche in inglese dalla casa editrice Farrar, Straus and Giroux. Il libro contiene centinaia di testimonianze e resoconti sui villaggi cosparsi di cadaveri, gli innumerevoli casi di cannibalismo e la violenza disumana che si diffuse nel paese in quegli anni. Jisheng ha lavorato a lungo all’agenzia di stampa Xinhua (Nuova Cina) – il principale organo d’informazione governativo del paese – e ha utilizzato la sua posizione privilegiata per avere accesso ai documenti riservati degli archivi di stato, per intervistare i sopravvissuti e i demografi, riuscendo a portare a termine un monumentale progetto di ricerca senza dare troppo nell’occhio. E pensare che in passato anche lui aveva creduto a lungo alla versione ufficiale del partito. Solo dopo i fatti di piazza Tien An Men, divenuto ormai un veterano del giornalismo cinese, cominciò a porsi delle domande. Il sangue degli studenti lo aiutò ad aprire gli occhi di fronte alle menzogne del partito e gli fece tornare in mente quanto accadde a suo padre, morto a causa di quella carestia nel 1959. All’epoca lui era solo un diciottenne idealista come tanti, già inquadrato nella lega giovanile del partito, e pur nel dolore di quella perdita non si era sognato di biasimare un governo che riteneva impegnato nel grandioso avvento del comunismo in Cina. Il piano lanciato da Mao si proponeva di mobilitare tutta la popolazione per riformare rapidamente il paese, trasformando il sistema economico rurale – incentrato fino ad allora sull’agricoltura – in una società comunista industrializzata basata sulla collettivizzazione. I seguaci del “Grande balzo avanti” teorizzavano che le derrate alimentari sarebbero state raddoppiate, addirittura triplicate, in pochi anni e che la produzione di acciaio avrebbe presto superato quella dei più moderni paesi occidentali. Invece fu la fine. Yang Jisheng racconta nel dettaglio la storia di intere famiglie che per non morire di fame si cibavano della corteccia degli alberi, di erbacce e di escrementi degli uccelli. Descrive i cadaveri scuoiati dai disperati cui non restava altra scelta che cibarsi dei loro resti. Salvarsi era quasi impossibile, anche perché la fuga era considerata un reato grave contro il partito e un tradimento nei confronti del Grande Timoniere. Le ricerche di Jisheng sono durate quasi due decenni, e hanno visto l’autore avvalersi della preziosa collaborazione di tanti studiosi e funzionari del partito, anch’essi intenzionati a far emergere la verità su quei tragici anni. Il risultato, contenuto nelle oltre seicento pagine di questa edizione inglese opportunamente annotata, evoca orrore ma anche speranza. Poiché se è vero che tuttora i programmi scolastici evitano di menzionare la carestia e molti giovani sono ancora convinti che sia stata un’invenzione dell’Occidente, in questo libro sono gli stessi cinesi a spezzare per la prima volta il muro dell’ipocrisia e dell’omertà. Riconoscere le vere cause della grande carestia del 1958-1962 significa rivedere il giudizio ufficiale sulle politiche di Mao, sminuendo la posizione d’onore che il governo di Pechino continua a tributare al padre spirituale della Cina moderna. Seppur censurata, l’opera rappresenta dunque un primo serio tentativo di fare i conti con il tragico passato del paese. Ed è buon segno che Jisheng, nonostante il risalto ottenuto dal suo lavoro, continui a vivere a Pechino dove cura la pubblicazione di un periodico riformista.
RM
Vogliono cancellare Tienanmen
Intervista uscita su Avvenire
Vent’anni possono essere sufficienti per dimenticare tutto. Lo spirito della grande mobilitazione studentesca per la democrazia che fu repressa nel sangue in piazza Tien An Men rischia di essere inghiottito nell’oblio e dimenticato anche dai libri di storia cinesi. Per evitarlo, e per commemorare il coraggio di coloro che vi presero parte, il ricercatore statunitense Philip J. Cunningham ha scritto “Tienanmen Moon. Inside the Chinese Student Uprising in 1989”, un libro importante, poiché l’autore ha vissuto quegli eventi in prima persona. “Non si tratta dell’ennesimo racconto sul massacro degli studenti, piuttosto della storia di quel formidabile movimento popolare che ha conquistato le menti e i cuori dei pechinesi, e gran parte del resto della nazione nella primavera del 1989”. Vent’anni fa Cunningham era solo un giovane straniero che studiava all’università di Pechino quando, senza volerlo, si trovò a faccia a faccia con la storia, divenendo testimone di uno dei fatti più importanti e drammatici del XX secolo. In quelle settimane marciò con gli studenti cinesi ed ebbe modo di osservare dall’interno, nei campus di Pechino, la nascita di una gigantesca protesta pacifica, che il governo cinese avrebbe poi schiacciato facendo uccidere centinaia di persone. Oggi non esita a definire “straordinari, unici e indimenticabili” i mesi che precedettero la strage. “Il modo crudele e maldestro in cui è stata soffocata la rivolta – spiega – ha rappresentato un grave battuta d’arresto per la Cina. Ma quelle settimane ispirarono la mobilitazione di milioni di persone dietro agli striscioni di un movimento estremamente pacifico e affiatato. Che purtroppo è stato poi oscurato proprio da quanto è accaduto dopo”. Continua a leggere “Vogliono cancellare Tienanmen”