Nel segno di Mao

Focus Storia n. 177, luglio 2021

Cento anni fa, un gruppo di uomini in barca cambiò per sempre le sorti della Cina contemporanea. Il primo congresso nazionale del Partito comunista cinese ebbe inizio il 23 luglio 1921 a Shangai ma i lavori proseguirono su un’imbarcazione ormeggiata in un lago dello Jiaxing. I dodici delegati stilarono la prima costituzione del partito che proponeva un riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e al collasso. Tra i principali obiettivi fissati in quei giorni c’erano il rovesciamento della borghesia e la costruzione di una società socialista attraverso la lotta di classe, la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Continua a leggere “Nel segno di Mao”

Il cinese che salvò gli ebrei di Vienna

Avvenire, 4.4.2018

Ho Feng Shan (1901-1997)

“Il male che l’uomo fa vive oltre di lui. Il bene, sovente, rimane sepolto con le sue ossa”: ciò che Shakespeare faceva dire a Marco Aurelio nell’orazione funebre di Giulio Cesare pare non essersi verificato nel caso di Ho Feng Shan, “lo Schindler cinese”, il cui eroismo fu rivelato alcuni anni dopo la sua morte consentendo finalmente al memoriale di Yad Vashem di inserirlo nell’elenco dei Giusti tra le Nazioni. Console cinese a Vienna durante la Seconda guerra mondiale, Ho Feng Shan fu uno dei primi diplomatici a impegnarsi per salvare gli ebrei in fuga dal Terzo Reich, fornendo loro passaporti cinesi per sfuggire alle deportazioni. Era arrivato nella capitale austriaca nella primavera del 1937, pochi mesi prima dell’Anschluss di Hitler, in una città che all’epoca ospitava la terza comunità di ebrei più grande d’Europa. Ma con l’annessione del paese alla Germania nazista tutte le ambasciate straniere in Austria vennero chiuse e circa 185mila ebrei iniziarono a vivere nel terrore. La rappresentanza diplomatica di Pechino fu sostituita con un consolato generale cinese guidato dallo stesso Ho Feng Shan che in quei mesi cruciali, mentre l’indifferenza generale amplificava la crudeltà delle persecuzioni, si trovò di fronte a un bivio. Mentre il ministero degli esteri cinese gli chiedeva di mostrarsi accondiscendente verso le richieste degli ebrei, l’ambasciatore cinese a Berlino faceva pressioni su di lui affinché assecondasse la politica tedesca, per il bene delle relazioni tra Cina e Germania. Costretto a scegliere tra gli interessi della propria nazione e la salvezza degli ebrei, Ho preferì obbedire alla propria coscienza e commise, proprio come Antigone, quello che nella tragedia di Sofocle veniva definito un “santo crimine”: ‘crimine’ rispetto alla legge, ‘santo’ rispetto alla giustizia che esprimeva. Fece rilasciare un numero imprecisato – ma elevatissimo – di visti per il suo paese, pur sapendo che la maggior parte degli ebrei, una volta usciti dall’Austria, non avrebbero intrapreso un viaggio verso la Cina. Ci riuscì usando uno stratagemma: spiegò al suo collega in Germania che si sarebbe adeguato alle nuove istruzioni non appena avesse ricevuto una chiara direttiva, ma nel frattempo incaricò il suo vice di proseguire con il rilascio dei visti. È impossibile stabilire con esattezza quante persone abbia salvato nell’Austria occupata dai nazisti tra il 1938 e il 1939, anche perché molti non hanno neanche mai saputo di dovergli la vita. Secondo i calcoli più attendibili sarebbero state almeno tremila. Continua a leggere “Il cinese che salvò gli ebrei di Vienna”

Testimone degli orrori di Mao

Avvenire, 25 ottobre 2017

Tan Hecheng oggi

Tan Hecheng conserva ancora un vivido ricordo di quell’estate del 1967. All’epoca era uno studente di vent’anni in visita con un gruppo di amici nella contea cinese del Daoxian, provincia dello Hunan, non lontano dal luogo natale di Mao Zedong. Dopo un lungo viaggio in autobus, il giovane si incamminò da solo per le strade della città di Daojiang e si imbatté nei minacciosi avvisi della Corte Suprema del Popolo, affissi sulle mura di un ponte. Annunciavano la punizione nei confronti dei “proprietari terrieri reazionari” ritenuti colpevoli di crimini atroci. “La collera del popolo chiede la loro esecuzione – sentenziavano quei manifesti – sono quindi tutti condannati a morte con effetto immediato”. L’anno prima il Grande Timoniere della Cina comunista, sentendo vicino il crepuscolo del suo potere, aveva lanciato quella che sarebbe tristemente passata alla storia come la Rivoluzione culturale. Era stata denunciata l’infiltrazione del partito da parte di elementi revisionisti e controrivoluzionari intenzionati a creare un regime borghese, erano state chiuse le scuole e le università per mobilitare gli studenti, in breve tempo oltre un milione di giovani Guardie rosse erano giunte da tutto il paese per riunirsi a Pechino, in piazza Tienanmen, dove avevano ricevuto l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” per distruggere i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, i comportamenti, le abitudini. In realtà Mao, indebolito dall’enorme fallimento del Grande Balzo in Avanti che aveva causato decine di milioni di morti per fame, voleva riaccentrare il potere nelle sue mani a costo di nuovi massacri. Per un volta, il giudizio della storia non si sarebbe fatto attendere: nel 1981, appena cinque anni dopo la sua morte, il partito comunista cinese approvò una risoluzione che condannava la Rivoluzione culturale definendola “un lungo e grave errore”. Poco si sapeva all’epoca sui reali effetti di quel decennio di terrore imposto da Mao in tutto il paese, con proprietà confiscate, imprigionamenti arbitrari, “rieducazioni”, torture e uccisioni di massa. Nei primi anni ’80 Hu Yaoban, uno dei nuovi leader del partito, promosse una breve fase di riforme democratiche e nel 1986 inviò oltre un migliaio di funzionari a indagare sugli eccidi di massa compiuti vent’anni prima. Tan Hecheng all’epoca lavorava per un giornale controllato dal partito e fu incaricato di andare nel distretto rurale del Daoxian per raccontare quell’indagine. Avrebbe dovuto scrivere una serie di articoli per giustificare ed elogiare gli sforzi del partito che cercava di affrontare i drammi del passato punendo i colpevoli. Fu il governo stesso a offrirgli la possibilità di scoprire la verità su quei massacri e in qualità di giornalista del regime ebbe pieno accesso a migliaia di pagine di documenti ufficiali. Riuscì quindi a raccogliere informazioni clamorose su una delle tante ondate di violenza e isteria di quei giorni, che causò la morte di circa novemila persone in appena due mesi, tra l’agosto e l’ottobre del 1967. Ma i buoni propositi riformisti del partito erano destinati a svanire in breve tempo. Alla fine del 1986 il clima politico in Cina era già profondamente cambiato e la commissione d’inchiesta insabbiò quasi tutto. Circa quindicimila persone furono riconosciute colpevoli del massacro ma solo una cinquantina di esse vennero condannate per i loro crimini. Il regime fu incapace di compiere una vera catarsi e gli articoli di Hecheng non furono mai pubblicati, rimanendo a lungo chiusi in un cassetto. Se non fosse stato per il suo coraggio e la sua caparbietà, il massacro del Daoxian sarebbe probabilmente rimasto sepolto nell’oblio per sempre. Alcuni anni fa l’anziano giornalista è finalmente riuscito a pubblicarli a Hong Kong, in un volume che adesso è uscito anche in inglese col titolo The Killing Wind: A Chinese County’s Descent into Madness During the Cultural Revolution (Oxford University Press). Continua a leggere “Testimone degli orrori di Mao”

Nessuno tocchi la Cina. Atene fa infuriare l’UE

Da Il Venerdì di Repubblica, 7.7.2017

Ennesima battuta d’arresto per il “soft power” dell’Unione europea. Stavolta la diplomazia culturale di Bruxelles si è inceppata persino sul tema dei diritti umani, non riuscendo a trovare l’unanimità neanche per condannare le gravi violazioni del governo cinese. Per la prima volta, la dichiarazione che l’UE presenta periodicamente alle Nazioni Unite per evidenziare gli abusi degli stati di tutto il mondo – e che necessita del sì dei 28 membri dell’Unione – è stata bloccata dall’inaspettato veto della Grecia. Da alcuni anni Bruxelles ha iniziato a fare pressioni su Pechino denunciando il giro di vite nei confronti di avvocati, attivisti e giornalisti critici verso il regime. Amnesty international e le altre organizzazioni in difesa dei diritti umani criticano invece la Cina da sempre, denunciando apertamente la repressione di ogni forma di dissenso, la limitazione delle libertà e l’utilizzo sistematico della pena di morte. Per l’UE, che da anni cerca di accreditarsi come difensore dei diritti umani, la sorprendente decisione di Atene rappresenta un colpo durissimo, ed è stata definita ‘vergognosa’ dalla diplomazia europea. “Abbiamo agito sulla base di una posizione di principio – ha cercato di spiegare un portavoce del governo di Alexis Tsipras -. Sul tema dei diritti è previsto un dialogo tra l’UE e la Cina e riteniamo che quello sia un modo più efficiente e costruttivo di ottenere risultati”. Nessun ministro, né tantomeno il premier, ha avuto il coraggio di metterci la faccia, e la spiegazione del funzionario non ha convinto nessuno. Particolarmente irritante è apparsa la tempistica del veto, giunto poche ore dopo che i ministri delle finanze dell’Eurozona avevano approvato la nuova tranche di aiuti finanziari alla Grecia, stanziando 8,5 miliardi di euro per il rilancio della sua disastrata economia. Ma soprattutto c’è chi punta il dito nei confronti dei legami sempre più stretti tra Atene e Pechino. Dopo la privatizzazione del porto del Pireo – passato sotto il controllo della Cosco, la più grande compagnia di trasporti cinesi – le società e i fondi del Dragone continuano ad acquisire pezzi di Grecia nelle infrastrutture, nella logistica e nell’immobiliare. Con buona pace dei diritti umani.
RM

Così è implosa la rivoluzione culturale di Mao

Avvenire, 30.6.2016

L’ordine era stato chiaro, inequivocabile. “Bombardate il quartier generale”. Esattamente cinquant’anni fa Mao Tse-tung chiese alla sua gente una cosa che né Stalin, né Hitler, né Pol Pot avevano mai chiesto al proprio popolo: rovesciare il sistema di potere che loro stessi avevano creato. L’anziano leader, sentendo vicino il crepuscolo del suo potere, denunciò l’infiltrazione del partito da parte di elementi revisionisti e controrivoluzionari intenzionati a creare un regime borghese. La Cina era appena uscita dalla gigantesca catastrofe innescata dalle politiche agricole e industriali imposte dallo stesso Mao con il “Grande Balzo in avanti”. Circa trenta milioni di cinesi erano morti per fame in soli tre anni, a seguito di una delle più gravi carestie dell’epoca moderna. Per governare le conseguenze del disastro e contrastare l’apparato del partito che stava cercando di ridimensionare il suo potere, il Grande Timoniere lanciò la cosiddetta “Rivoluzione culturale”, destinata a durare fino alla sua morte, nel 1976. mao“Mao temeva una condanna postuma per i suoi clamorosi fallimenti, com’era già accaduto a Stalin dopo la sua morte. Ma soprattutto era ancora convinto di poter trasformare la Cina in un paradiso socialista e pur di riuscirci, era disposto a chiedere qualsiasi sacrificio al suo popolo”, spiega lo storico olandese Frank Dikotter, docente all’università di Hong Kong e autore di prestigiosi saggi sulla Cina di quegli anni. Il 16 luglio 1966, ormai 72enne, Mao si buttò nelle acque profonde del fiume Yangtze e nuotò per oltre un’ora, da una sponda all’altra, per dimostrare al popolo che il suo vigore fisico era ancora intatto nonostante l’età avanzata. Un mese dopo, un milione di giovani Guardie rosse osannanti giunte da tutto il paese si riunirono a Pechino, in piazza Tienanmen, dove ricevettero l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” e distruggere quelli che furono definiti i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, le abitudini, i comportamenti. I comandamenti della rivoluzione furono elencati nel famierato “Libretto rosso” che venne stampato in milioni di copie. “Da quel momento in poi” – prosegue Dikotter – il furore iconoclasta avrebbe colpito qualsiasi traccia del cosiddetto ‘passato borghese e imperialista’, portando alla distruzione e al saccheggio di monumenti e luoghi di culto, e innescando una guerra civile che causò centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Mao aizzò gli studenti contro gli insegnanti, incitò il popolo ad attaccare i membri del partito comunista, infine fece intervenire l’esercito, portando il paese in un vortice di terrore nel quale le persone cercarono disperatamente di dimostrare la loro fedeltà al capo supremo”. Non furono attaccati soltanto i dirigenti, i funzionari del partito e tutti coloro che a vario titolo avevano manifestato perplessità nei confronti delle politiche del Grande Timoniere. Decine di migliaia di cittadini comuni vennero perseguitati, imprigionati, torturati, uccisi.
In occasione del cinquantesimo anniversario dell’ultima fase del delirio maoista, Dikotter ha dato alle stampe The Cultural Revolution: A People’s History (Bloomsbury press), ad oggi considerato lo studio storico più approfondito e aggiornato sulla Rivoluzione culturale cinese. Il libro conclude di fatto una trilogia dedicata agli orrori causati dalle politiche di Mao: nei due volumi precedenti (Mao’s Great Famine e The Tragedy of Liberation) lo storico olandese aveva già fatto largo uso di documenti e testimonianze d’epoca inedite ritrovate negli archivi cinesi, ai quali lo studioso dice di aver avuto accesso con grandi difficoltà, soltanto grazie alla sua incrollabile ostinazione. “Il terrore che Mao scatenò nei suoi ultimi dieci anni di vita si rivelò per lui un grande successo – spiega – poiché gli consentì di eliminare tutti i veterani del partito che avevano iniziato a criticarlo e anche di gettare una fitta coltre di fumo negli occhi del popolo per celare i suoi insuccessi”. Fino al 1968 vi fu una drammatica escalation di violenza urbana: gli studenti inquadrati nelle Guardie rosse presero di mira soprattutto gli insegnanti, che vennero aggrediti, umiliati e picchiati in pubblico, assassinati o costretti al suicidio. Le case dei cittadini benestanti vennero assaltate alla ricerca di beni di lusso, di mobili e libri antichi, di valuta estera. Infine la Rivoluzione culturale si spostò nelle campagne causando nuovi drammi e persino episodi di cannibalismo, verificatisi nella provincia dello Guangxi e portati alla luce per la prima volta proprio dalle ricerche di Dikotter. Mao riuscì infine a incarnare l’utopia, a diventare oggetto di un vero e proprio culto della personalità, ma in ultima analisi il processo aprì la strada anche al tramonto del Maoismo. Il principale elemento di originalità del lavoro di Dikotter è lo sguardo col quale lo storico è riuscito a osservare e ad analizzare il comportamento del popolo. Il suo libro racconta come il caos favorì le delazioni e le vendette personali ma documenta anche i drammatici tentativi di sopravvivenza dei cinesi, la loro spontanea, disperata reazione a decenni di brutalità. I contadini che si ripresero le loro terre confiscate dalle comuni agricole, gli studenti che cercarono di salvare i libri destinati al rogo e poi cominciarono a leggerli di nascosto, il mercato nero che nacque spontaneamente e regolò l’economia indirizzandola in una direzione opposta rispetto a quella voluta dal capo supremo. “Tutto”, conclude, “contribuì infine a svuotare l’ideologia di Mao fino a farla implodere di fronte alle sue stesse contraddizioni”.
RM

Liu Xiaobo: elegie per Tien An Men

Da “Avvenire” di ieri

Quella sedia rimasta vuota alla cerimonia di consegna del Nobel per la pace del 2010 continua a rappresentare un simbolo eloquente della repressione del dissenso in Cina. Da allora sono trascorsi tre anni e Liu Xiaobo, il poeta e intellettuale cinese che fu insignito del prestigioso riconoscimento dell’Accademia di Svezia, continua a essere detenuto dal regime di Pechino in un luogo segreto. Le sue opere di denuncia e la sua adesione al manifesto di intellettuali denominato Charta 08 – che reclama riforme ispirandosi alla famosa Charta 77 redatta negli anni ’70 dai dissidenti cecoslovacchi – gli sono valse una condanna a undici anni di carcere per “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. Ma privandolo della libertà e impedendogli anche soltanto di inviare una dichiarazione pubblica alla cerimonia del Nobel, il regime ha trasformato Xiaobo in un’icona mondiale della battaglia nonviolenta per i diritti umani in Cina. Norway-Nobel PrizeLe sue liriche spaventano la dittatura perché veicolano un messaggio politico di resistenza ed esprimono il tentativo di risvegliare il popolo da un letargo della memoria indotto dal benessere economico degli ultimi anni. Soprattutto impediscono di tacitare le coscienze dei sopravvissuti del massacro del 4 giugno 1989 e di rimuovere, come vorrebbe il governo, la terrificante ferita aperta in piazza Tien An Men. Ogni primavera, nei vent’anni che hanno seguito la strage, Liu Xiaobo ha composto un poema in memoria delle vittime, restituendoci una testimonianza lucida e disperata, ritualizzata a ogni anniversario dell’eccidio di studenti e cittadini, e raccolta in un volume straordinario, Le Elegie del quattro giugno, finalmente tradotto anche in italiano e pubblicato dalla casa editrice Lantana. Ciascuna elegia è una riflessione potente e dolorosa sulle ragioni della morte e della sofferenza, espressa attraverso un rituale quasi macabro che racconta l’odore di polvere e di sangue, le madri alla ricerca di una tomba, i volti dei giovani carnefici. Versi che come un ago cercano di “ricucire l’oblio di un sogno reciso”, denunciando la “solenne menzogna” del potere e i milioni di cinesi che hanno rimosso quella terrificante strage di Stato in cambio del benessere materiale promesso dal governo di Pechino. “In quell’istante il mondo era un agnello indifeso / massacrato da un sole nudo / Persino Dio senza parole per lo sgomento / si limitava a piangere sospiri silenziosi / Seguì il sangue del mercimonio ripulito dal denaro / dei cadaveri scuoiati / che si univano alla marcia del dispotismo”. Continua a leggere “Liu Xiaobo: elegie per Tien An Men”

Vogliono cancellare Tienanmen

Intervista uscita su Avvenire

massacroVent’anni possono essere sufficienti per dimenticare tutto. Lo spirito della grande mobilitazione studentesca per la democrazia che fu repressa nel sangue in piazza Tien An Men rischia di essere inghiottito nell’oblio e dimenticato anche dai libri di storia cinesi. Per evitarlo, e per commemorare il coraggio di coloro che vi presero parte, il ricercatore statunitense Philip J. Cunningham ha scritto “Tienanmen Moon. Inside the Chinese Student Uprising in 1989”, un libro importante, poiché l’autore ha vissuto quegli eventi in prima persona. “Non si tratta dell’ennesimo racconto sul massacro degli studenti, piuttosto della storia di quel formidabile movimento popolare che ha conquistato le menti e i cuori dei pechinesi, e gran parte del resto della nazione nella primavera del 1989”. Vent’anni fa Cunningham era solo un giovane straniero che studiava all’università di Pechino quando, senza volerlo, si trovò a faccia a faccia con la storia, divenendo testimone di uno dei fatti più importanti e drammatici del XX secolo. In quelle settimane marciò con gli studenti cinesi ed ebbe modo di osservare dall’interno, nei campus di Pechino, la nascita di una gigantesca protesta pacifica, che il governo cinese avrebbe poi schiacciato facendo uccidere centinaia di persone. Oggi non esita a definire “straordinari, unici e indimenticabili” i mesi che precedettero la strage. “Il modo crudele e maldestro in cui è stata soffocata la rivolta – spiega – ha rappresentato un grave battuta d’arresto per la Cina. Ma quelle settimane ispirarono la mobilitazione di milioni di persone dietro agli striscioni di un movimento estremamente pacifico e affiatato. Che purtroppo è stato poi oscurato proprio da quanto è accaduto dopo”. Continua a leggere “Vogliono cancellare Tienanmen”