La resa dei conti

Focus Storia, ottobre 2020

Agosto 1948. Grazie a una soffiata, vengono ritrovati in un campo i resti martoriati dei conti Manzoni Ansidei: la contessa Beatrice e i figli Luigi, Giacomo e Reginaldo insieme alla domestica di famiglia. Tre anni prima erano stati prelevati dalla loro villa a Lugo di Romagna, condotti in un podere a pochi chilometri di distanza e uccisi da un gruppo di partigiani che poi avevano occultato i cadaveri. I Manzoni erano una famiglia di nobili proprietari terrieri, sostenitori del fascismo fin dagli albori, e uno dei figli della contessa aveva fatto carriera nella Repubblica di Salò. Quell’eccidio è uno degli episodi più eclatanti del lungo strascico di violenze che seguì la conclusione della Seconda guerra mondiale. Alla fine dell’aprile 1945 l’Italia era libera, le truppe tedesche si erano ritirate e il fascismo era sconfitto. Le città del nord celebravano l’arrivo delle colonne alleate e in molte parti del paese si susseguivano le vendette e i regolamenti di conti contro fascisti, delatori e collaborazionisti. Si uccideva il nemico sconfitto e si vendicavano i caduti delle stragi compiute nei mesi precedenti mentre tribunali improvvisati comminavano condanne capitali a chi aveva militato nella Repubblica di Salò collaborando con i nazisti. Vennero stilate liste di proscrizione in cui comparvero anche i nomi di funzionari pubblici, religiosi, appartenenti alla borghesia contrari al comunismo e persino membri delle organizzazioni partigiane. Non mancarono neanche i delitti legati a fatti privati. L’epicentro delle violenze politiche fu il cosiddetto “Triangolo rosso” dell’Emilia Romagna – compreso tra le province di Modena e Reggio Emilia – ma un livello altrettanto elevato di efferatezza si registrò anche in Piemonte e in Lombardia. Assai noto è il caso della “Volante rossa”, l’organizzazione di ex partigiani attiva a Milano e dintorni che si rese responsabile di numerosi omicidi e sequestri di persona fino all’inizio del 1949. In molte aree del centro-nord Italia si instaurò una clima di violenza insurrezionale con atti di giustizia sommaria che causarono migliaia di morti. Il fenomeno raggiunse dimensioni tali da spingere Ferruccio Parri, appena nominato capo del governo, a stigmatizzare duramente questi episodi nel suo primo radiomessaggio agli italiani. “Gli atti di giustizia arbitraria e le esecuzioni illegali che turbano alcune città del nord ci compromettono con gli Alleati e offendono il nostro spirito di giustizia”, affermò via etere il 24 giugno 1945, rivolgendo un appello ai “partigiani autentici” affinché cooperassero a difesa della legalità. “Le rese dei conti sono un fenomeno inevitabile al termine di una guerra civile – spiega Davide Conti, consulente dell’Archivio storico del Senato ed esperto di quel periodo della storia d’Italia – ma in Italia assunsero anche il significato di una redenzione definitiva del paese, di una sorta di catarsi che avrebbe dovuto condurci verso una faticosa transizione dopo il crollo della dittatura fascista”. Ma alle vendette che si consumarono nel nostro paese – prosegue lo storico – contribuì anche la cosiddetta percezione della “Resistenza tradita”. “C’era l’idea che lo sforzo enorme profuso durante la guerra partigiana, le migliaia di morti e di deportati, le distruzioni, fossero state vanificate da una fase di normalizzazione, dal fallimento di alcuni grandi processi e dall’impunità garantita ad alcuni criminali di guerra fascisti, molti dei quali si riciclarono come uomini dello Stato”. “Basti pensare che nel 1952, in tutta Italia, c’erano appena 252 fascisti in carcere mentre ammontavano ad alcune migliaia i partigiani messi sotto processo da una magistratura non ancora epurata dopo la lotta di Liberazione”.
Il 22 giugno 1946, per tentare di ricomporre il tessuto sociale lacerato dal conflitto e favorire una pacificazione nazionale, il ministro della Giustizia Palmiro Togliatti promulgò la famosa amnistia che prese il suo nome. Furono condonate le pene per reati comuni e politici fino a un massimo di cinque anni di carcere. Ma il provvedimento, all’epoca assai contestato, gettò benzina sul fuoco e la violenza post-bellica proseguì ancora per oltre un paio d’anni. Sulle dimensioni del fenomeno si è sollevata fino ai giorni nostri un’aspra polemica, anche perché non esiste un calcolo preciso e realmente attendibile delle vittime. Lo studioso inglese Paul Ginsborg, nella sua Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi (Einaudi), azzarda la cifra di 12-15mila vittime ma molti ritengono si tratti di un calcolo esagerato. A chiudere quella lunga e sanguinosa fase di transizione alla democrazia sarebbe stato l’attentato allo stesso Togliatti, leader del Pci, del 14 luglio 1948. “Quell’episodio segnò uno spartiacque – conclude Conti – e fece comprendere che nessun tipo di rivolgimento violento avrebbe mai potuto cambiare lo status dell’Italia determinato alla conferenza di Yalta del 1945, quando le grandi potenze si erano spartite le rispettive sfere di influenza”.

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