Usa-Urss, attrazione e illusione

Avvenire, 12 novembre 2022

Nel 1931 George Bernard Shaw visitò l’Unione Sovietica su invito di Stalin. Il grande drammaturgo irlandese, che non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie nei confronti del regime di Mosca, tornò da quel viaggio entusiasta e incitò i giovani occidentali a trasferirsi in Russia, dove avrebbero trovato – disse proprio così – “un futuro radioso”. Ai tempi della Grande depressione non pochi gli avrebbero dato ascolto, abbadonando gli Stati Uniti per inseguire ciecamente l’utopia socialista sovietica. È quello che fa anche Florence Fein, la giovane protagonista di I patrioti (traduzione di Velia Februari, Fazi editore, pagg. 790, euro 20), il poderoso romanzo d’esordio della scrittrice statunitense di origini ucraine Sana Krasikov che racconta le vicende di tre generazioni in bilico fra due continenti, intrappolate tra le forze della storia e le conseguenze delle proprie scelte. Continua a leggere “Usa-Urss, attrazione e illusione”

Vasilij Grossman ritorna a Stalingrado

Avvenire, 27 agosto 2019

Solo la morte di Stalin, nel 1953, salvò Vasilij Grossman dall’arresto e dalla deportazione. Lo scrittore russo era stato uno dei più grandi cronisti della Seconda guerra mondiale, aveva assistito all’assedio di Stalingrado e alla controffensiva sovietica che ribaltò le sorti del conflitto. Ma alla fine degli anni ‘40 era ormai annoverato a tutti gli effetti tra i dissidenti. La sua fama di eroe di guerra era riuscita a salvargli la vita ma non a evitargli di cadere in disgrazia. Secondo i censori sovietici il suo capolavoro Vita e destino era un testo assai più pericoloso del Dottor Živago di Boris Pasternak, che pure era già diventato un best seller negli Stati Uniti e in Europa. L’austero Mikhail Suslov, responsabile dei mezzi informativi del Pcus, gli disse che sarebbero dovuti passare almeno trecento anni per vedere pubblicato il suo libro. “Non importa ciò che è vero o ciò che è falso – gli spiegò – uno scrittore sovietico deve scrivere solo ciò che è necessario per la società”. Il racconto dell’incontro tra Suslov e Grossman è uno dei passaggi centrali della biografia del grande scrittore russo firmata dalla giornalista Alexandra Popoff, Vasily Grossman and the Soviet Century. Era il 1960 e di lì a poco gli agenti del Kgb avrebbero fatto irruzione dell’abitazione di Grossman per confiscargli il manoscritto, gli appunti, le bozze e persino la macchina da scrivere. Il regime decise di non incarcerarlo: si limitò a condannarlo all’oblio, e a non veder mai pubblicato quello che oggi è ritenuto uno dei capolavori della letteratura del XX secolo. Grossman finì i suoi giorni nella povertà e nella solitudine, morendo di cancro nel 1964. Ma fortunatamente una copia del manoscritto di Vita e destino fu recuperata, microfilmata e fatta uscire illegalmente dai confini sovietici con l’intercessione del fisico dissidente Andrej Sacharov. L’opera venne pubblicata per la prima volta da una casa editrice svizzera nel 1980 e l’edizione inglese fece finalmente conoscere al grande pubblico quel grandioso affresco storico dell’era staliniana, che venne definito il “Guerra e pace del XX secolo”. Continua a leggere “Vasilij Grossman ritorna a Stalingrado”

L’Angola di Kapuściński al cinema

Avvenire, 3 febbraio 2019

“La povertà non ha voce: ha bisogno di qualcuno che parli per lei”. Era quanto amava ripetere il reporter polacco Ryszard Kapuściński (1932-2007), considerato uno dei più grandi giornalisti del XX secolo non solo perché fu testimone della nascita di quello che oggi conosciamo come Terzo mondo ma anche perché inventò una forma di reportage narrativo basato sull’empatia nei confronti degli ultimi e su un’attenzione meticolosa alle vicende umane delle persone comuni. In quasi cinquant’anni di carriera, i suoi straordinari scritti sull’Africa, sull’Asia e sull’America Latina ci hanno raccontato guerre, rivoluzioni e colpi di Stato come pochi altri sono riusciti a fare. Kapuściński ha all’attivo decine di libri ma curiosamente nessun film era mai stato tratto finora da un suo lavoro. Another Day of Life di Raul de la Fuente e Damian Nenow – presentato all’ultimo festival di Cannes e in uscita nelle sale italiane – ha dunque il merito di portarlo per la prima volta il reporter polacco sul grande schermo, adattando in forma cinematografica Ancora un giorno, il libro cui era maggiormente legato.
La pellicola ricostruisce la storia del suo drammatico viaggio in Angola nel 1975, durante i primi mesi della guerra civile che scoppiò subito dopo l’indipendenza dal Portogallo. Il paese africano finì fatalmente nel mirino delle grandi potenze mondiali a causa della ricchezza dei suoi giacimenti di petrolio e diamanti, e divenne in breve tempo anche un crocevia della Guerra fredda, con Stati Uniti e Unione Sovietica impegnate a sostenere le due opposte fazioni in lotta. La popolazione fu costretta a subire sofferenze indicibili. Kapuściński comprese che l’unico modo per raccontare quel girone infernale era concentrarsi sulle persone regalando loro ‘ancora un giorno di vita’, fotografandole, descrivendo le loro storie nei suoi articoli, e dunque tramandandone la memoria dopo che erano morte. Il suo viaggio avventuroso rivive oggi nel film di de la Fuente e Nenow, che mescola in modo originale animazione e documentario alternando sequenze animate, filmati d’archivio e interviste ai protagonisti dell’epoca. Il formato del graphic novel può apparire inizialmente una scelta discutibile ma si rivela in realtà estremamente efficace, poiché non nasconde niente all’orrore e alla follia di quel conflitto e anzi è in grado di aggiungere ulteriori elementi immaginifici alla narrazione. In una delle scene più tragiche e coinvolgenti della pellicola, Kapuściński attraversa un lungo tratto di strada cosparso di cadaveri di donne e bambini fatti a pezzi dai miliziani, e immagina che siano stati massacrati da una nuvola di armi che intorbida un cielo rosso color sangue. Il realismo della narrazione riappare poi in tutta la sua drammaticità negli spezzoni di documentario e nelle interviste. Almeno una di esse rappresenta un vero e proprio scoop giornalistico: gli autori di Another Day of Life sono infatti riusciti a scovare il leggendario generale Joaquim Farrusco, una sorta di Che Guevara angolano che guidò la resistenza durante la guerra, convincendolo a rilasciare una toccante testimonianza finora inedita su quegli anni. Il lungometraggio (che si è aggiudicato il premio come miglior film d’animazione all’ultima edizione degli European Awards) rappresenta anche una profonda riflessione deontologica sul mestiere di giornalista. Kapuściński fu infatti inviato in Africa dall’agenzia di stampa polacca Pap e si ritrovò a essere l’unico corrispondente estero in Angola. A un certo punto entrò in possesso di alcune informazioni che avrebbero potuto cambiare le sorti del conflitto e costare la vita a centinaia di persone. Si trovò di fronte a un terribile dilemma etico: il dovere di cronista gli imponeva di diffonderle ma la sua coscienza gli impedì di farlo. Così, quando Fidel Castro inviò in gran segreto le truppe per difendere l’Angola dall’invasione dei carri armati sudafricani, lui decise di non divulgare la notizia per non correre il rischio di scatenare un intervento statunitense, per mano della CIA. Kapuściński era un giornalista ma preferì rinunciare a uno scoop per non mettere a rischio la liberazione dell’Angola e allungare le sofferenze della popolazione.
RM

Pristavkin, una penna per i diritti umani

Avvenire, 10.11.2018

Nessuno scrittore è stato capace di rappresentare la storia recente della Russia con il crudo realismo di Anatolij Pristavkin, la cui vicenda personale è stata anche un barometro dei mutamenti politici in atto nel suo paese negli ultimi cinquant’anni. Romanziere prolifico e di successo ma anche instancabile attivista per i diritti umani, se n’è andato nel 2008, dopo aver ottenuto risultati straordinari nella lotta per l’abolizione della pena di morte. Negli anni del Secondo conflitto mondiale, come tanti orfani di quella che era allora l’Unione Sovietica fu costretto a trascorrere un’infanzia e una giovinezza fatte di lavoro, stenti e paura. Da bambino finì persino in carcere perché la fame l’aveva spinto a rubare un cesto di verdure.

Anatolij Pristavkin

Nato nel 1931 in una famiglia poverissima dei bassifondi di Mosca, rimase senza genitori a undici anni e fu mandato a lavorare in una fabbrica di conservazione di cibi in scatola. Più tardi, nel suo romanzo di maggior successo, avrebbe cercato di restituire una dimensione letteraria a quell’esperienza: “l’unica cosa che potevamo definire ‘nostra’ – scrisse – eravamo noi stessi e le nostre gambe, sempre pronte a correre via nel caso succedesse qualcosa. E anche le nostre anime, sebbene tutti ci ripetessero che non le avevamo”. Quel romanzo è Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso, che l’editore Guerini ha appena fatto uscire nella sua nuova collana “Narrare la memoria” con la traduzione e la curatela di Patrizia Deotto, colmando un vuoto significativo del panorama editoriale italiano. Un’opera già tradotta in trenta lingue, che Pristavkin terminò nel 1981 ma poté vedere pubblicata soltanto alcuni anni più tardi, nel pieno della Perestrojka, e che racconta con toni autobiografici la vita dei cosiddetti besprizornye, le centinaia di migliaia di bambini e ragazzi senza casa e senza famiglia, abbandonati “come foglie secche, che andavano dove li portava il vento” dopo gli anni della guerra civile, delle carestie, delle epidemie e della collettivizzazione forzata. La storia, sulle orme di Puškin e Tolstoj, è piena di riferimenti ai classici russi e prende forma durante l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, quando una colonia di orfani viene evacuata da Mosca e trasferita nel Caucaso, “una terra dove regna un silenzio profondo, interrotto di tanto in tanto dall’eco di spari ed esplosioni”. I protagonisti sono due gemelli di undici anni, Saska and Kol’ka, davvero inseparabili come recita il titolo e soprattutto costantemente alla ricerca di un modo per contrastare i morsi della fame. Insieme a tanti altri bambini e ragazzi i due fratelli vengono mandati in Cecenia, in un villaggio dove la popolazione è stata appena deportata verso la Siberia con l’accusa – falsa – di collaborazionismo con il nemico nazista. È una pagina crudele e poco conosciuta della storia sovietica, segnata dalla xenofobia e dalle tensioni inter-etniche, nella quale spicca il contrasto tra il mondo scintillante promesso dalla propaganda staliniana e le reali condizioni di vita dei piccoli protagonisti. Orrori che sono spesso stemperati dal senso di leggerezza, talvolta persino dagli spunti di ironia, di una narrazione che non può che sfociare in un finale tragico.
Quasi tutti i ventisei romanzi che hanno solcato l’intensa attività di Anatolij Pristavkin portano i segni della povertà e della disperazione che lo scrittore originario dei dintorni di Mosca visse sulla propria pelle in gioventù, prima manovale poi operaio della centrale elettrica di Bratsk, in Siberia. Il completamento degli studi e i primi successi letterari non gli fecero mai dimenticare quel mondo e la necessità di impegnarsi a fondo per i diritti umani e la giustizia sociale. Nella seconda metà degli anni ‘50, quando Kruscev iniziò a denunciare i crimini di Stalin, Pristavkin aveva già pubblicato i suoi primi scritti e cominciò ad assumere anche un ruolo pubblico, schierandosi apertamente contro il culto della personalità. Un impegno che di lì a poco lo vedrà diventare il capofila di una nuova élite letteraria che non teme di chiedere l’abolizione della pena di morte in uno dei paesi col più elevato numero di condanne eseguite. Nei giorni della caduta del regime sovietico è alla testa del Comitato di Aprile, un gruppo di cinquecento intellettuali desiderosi di promuovere la democrazia e decisi a sfidare il monolitismo del sindacato degli scrittori. Nel novembre 1989 è a Berlino per partecipare alle grandi manifestazioni che precedono la caduta del Muro, in seguito prende posizione a favore dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Ma la vera svolta si compie nel 1991, quando Boris Yeltsin lo chiama a presiedere la Commissione per la Grazia. Per la prima volta giuristi e intellettuali sono incaricati di esaminare le richieste di clemenza dei condannati a morte. Pristavkin decide che da allora in poi la Commissione svolgerà le sue sedute nella stanza dove un tempo i funzionari del Cremlino emettevano le condanne a morte. Sui muri dell’ufficio fa attaccare i disegni della figlia tredicenne e ogni settimana riunisce i quindici membri intorno a un tavolo e a una bottiglia di vodka per esaminare una decina di casi di condanne a morte. Vuole educare un’opinione pubblica che è ancora largamente favorevole alla pena capitale e chiede sempre, anche di fronte ai delitti più efferati, almeno la commutazione della condanna nel carcere a vita. Definisce il suo lavoro “una goccia in un oceano di crudeltà” ma a partire dal 1993 riesce a far diminuire in modo esponenziale il numero di esecuzioni, fino a ridurle ad appena una decina l’anno. In precedenza non erano state mai meno di duecento, con punte massime annuali fino a cinquecento. Durante il suo mandato alla guida della Commissione salva così dal patibolo migliaia di condannati a morte. Il sogno abolizionista si interrompe però bruscamente con l’arrivo di Putin: la Commissione viene prima ostacolata – sostenendo che un suo presunto effetto controproducente sui criminali -, poi delegittimata e infine sostituita nel 2001 con decine di piccole commissioni regionali dagli scarsi poteri. Curiosamente sarà lo stesso Putin a ricordare la “dignità morale” e i “grandi ideali” di Anatolij Pristavkin, nel giorno della sua morte.
RM

Stalin pianificò il genocidio in Ucraina

Avvenire, 21.12.2017

Washington, il memoriale all’Holodomor

Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow, uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ‘30. Da allora il dibattito storiografico ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause scatenanti di quella carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla ‘un atto di genocidio’, con le implicazioni politiche che ne deriverebbero. Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dalla strenua opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini – alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ‘90 -, nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.
Com’è già stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di “spezzare la schiena alla classe contadina”, e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan. Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti – come racconta Applebaum – affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanoff. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina – essenzialmente conservatrice e anti-comunista – non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ‘20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano nelle case e nelle fattorie, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga della popolazione. Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Unione Sovietica non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini.
Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche soltanto di una buccia di patata era passato per le armi. Applebaum spiega che la carestia non fu causata direttamente dalla collettivizzazione ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, nonché delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare. Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma poi su tutti gli aspetti storiografici e politici della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a questa tragedia, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che per decenni hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e infine manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono neanche di provare a raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del Christian Science Monitor scrisse che i cronisti stranieri “lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa”. Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la Convenzione sul genocidio. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.
RM

Svetlana Aleksievic, la memoria morale dell’homo sovieticus

Da “Avvenire” di oggi

Migliaia di voci che rappresentano il ritratto di un’epoca, di una società tentacolare, di una cultura stratificata e complessa come quella dell’ex Unione Sovietica. Una straordinaria ricostruzione dei sentimenti, dei vissuti, delle riflessioni e dei sogni traditi di un intero popolo. Un progetto grandioso che non ha precedenti nella storia della letteratura e che è già valso a Svetlana Aleksievič la candidatura al premio Nobel: ricostruire il corso della storia sovietica e post-sovietica documentando la vicenda dell’homo sovieticus in forma letteraria. Un obiettivo che la scrittrice bielorussa – da molti considerata la memoria morale dell’ex Unione Sovietica – intende realizzare attraverso un ciclo di sette libri, quattro dei quali già usciti e tradotti in decine di lingue in tutto il mondo. Nata nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina, nella sua lunga carriera Aleksievič è passata dal giornalismo investigativo ai reportage, dai racconti brevi ai romanzi, fino a sviluppare un genere letterario originale, definito “romanzo di voci” perché basato sulla raccolta di centinaia di testimonianze. фото Кабаковой М.Come vivevano quelle persone? In cosa credevano? Come sono morte e perché hanno, invece, ucciso? E fino a che punto hanno cercato la felicità, senza riuscire a raggiungerla? “Il mio metodo d’indagine”, spiega Aleksievič, “non consiste nel porre domande sul socialismo ma sull’amore, la gelosia, l’infanzia, la vecchiaia. Sulle migliaia di dettagli di una vita che è andata perduta. È l’unico modo per inserire la catastrofe in un quadro familiare, perché la storia s’interessa ai fatti ma non alle emozioni. Io guardo il mondo con gli occhi di un letterato, non con quelli di uno storico”. Col suo lavoro è riuscita infatti a tracciare l’anatomia dell’anima di centinaia di esseri umani che negli anni si sono confessati di fronte al suo registratore in dialoghi svolti spesso nelle cucine, un luogo paradigmatico della cultura popolare russa. Un flusso ininterrotto di piccole storie che, raccolte insieme magistralmente, riescono a narrare la grande Storia. I suoi libri raccontano gli orrori del comunismo, i gulag di Stalin, le guerre, l’ecatombe di Chernobyl, ma anche l’enorme solitudine di un popolo che vent’anni dopo la caduta del regime ancora non è riuscito a dare una traiettoria alla propria vita e al proprio futuro.
E se l’Accademia di Stoccolma non l’ha ancora incoronata, l’associazione dei librai e degli editori tedeschi ha deciso quest’anno di conferirle il premio speciale per la pace che viene consegnato annualmente alla Fiera di Francoforte, “per essere riuscita a delineare in modo coerente ed efficace le esperienze di vita dei russi, degli ucraini e dei suoi compatrioti bielorussi raccontando le loro passioni e le loro sofferenze in modo umile e generoso”. Aleksievič ha infatti una capacità straordinaria di osservare la vita attraverso le sfumature e per scrivere un libro impiega anni di lavoro, intervistando dalle trecento alle cinquecento persone. “Non mi interessa un fatto in quanto tale – spiega – ma il modo in cui questo influisce sugli esseri umani, la loro reazione, il loro comportamento”. Continua a leggere “Svetlana Aleksievic, la memoria morale dell’homo sovieticus”

Katyn e la coscienza sporca dei sovietici

katynUn’elaborazione del lutto lunga quasi 70 anni per la Polonia e per Andrzej Wajda. Nella primavera del 1940, quattromilacinquecento tra ufficiali e soldati dello sconfitto esercito di Varsavia venivano eliminati con un colpo alla nuca dagli scherani del Nkvd su inequivocabili direttive del Politburo. Seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn, i cadaveri vennero riportati alla luce nel 1943 dai nazisti accendendo una feroce campagna propagandistica che cambierà bruscamente di segno quando i vincitori sovietici poseranno nuovamente il tallone di ferro sulla Polonia che già avevano invaso quando erano alleati di Berlino. Da allora sino all’ammissione di colpa da parte di Mosca nel 1990 la verità ufficiale, sponsorizzata anche attraverso la solerte accondiscendenza dei partiti comunisti occidentali, fu che l’ordine della strage era stato firmato non da Giuseppe Stalin ma da Adolf Hitler. Una menzogna a miccia lunga, ma pur sempre una menzogna. Uno dei massacri di un secolo di scatenati mostri al lavoro come il Novecento è diventato un film, “Katyn”, da oggi anche nelle sale italiane, che il suo autore, Andrzej Wajda, ha dedicato alla memoria del padre, uno dei trucidati fra quegli alberi maledetti. Un’opera solenne, ieratica, toccante e austera che mette in scena la disperazione, lo spaesamento e il cocciuto coraggio di madri, mogli e figli. Con gli occhi delle donne, Wajda allestisce un’evocazione che non risparmia nulla, compresa l’emarginazione postbellica per gli orfani degli assassinati, ma che non coniuga l’odio bensì il culto della memoria e dell’identità per un olocausto il cui vergognoso opificio ha continuato a macinare vittime e disinformazione. Con uno stile secco e impietoso, uno dei grandi vecchi del cinema europeo, dopo aver condotto il melodramma privato e storico davanti alle pagine del diario di un condannato, incide sullo schermo la magistrale e terribile sequenza delle esecuzioni, prima in una squallida cella poi nel bosco: sangue lavato a secchiate e calpestato da stivaloni, morti trascinati su uno scivolo e ammassati su camion, ancora preghiere, ancora urla soffocate, una corda che stringe il collo e i polsi, il proiettile in testa, la caduta tra i corpi che saranno coperti dalla terra smossa dalla ruspa preceduta dall’aguzzino del colpo di grazia inferto con la baionetta, mentre tra le zolle spunta una mano che stringe un rosario. Questo l’epilogo di una ricostruzione che si era aperta con un’altra sequenza ad alta definizione ed emozione su un ponte nel settembre del 1939: migliaia di sfollati cercano di fuggire da una parte all’invasione dell’Armata Rossa e dall’altra a quella della Wermacht scambiandosi grida di pericolo nella vicendevole recriminazione sull’assurdità senza scampo della scelta. Una tragedia coniugata dalla metrica della superba sofferenza creativa trapunta di simboli, ora cristologici ora di tremenda metafora come la bandiera polacca smembrata: con il rosso assurto a vessillo dei torturatori e il bianco svilito a improvvisato copriscarpe della soldataglia bolscevica.
(da Il Secolo XIX)