La contea “ribelle” d’Irlanda teme i viaggi dell’aborto

Avvenire, 21.8.2018

Migliaia di croci bianche lungo la strada che collega Letterkenny a Bridge End, e unisce il centro urbano più popoloso del Donegal al confine con l’Irlanda del Nord. Erano stati gli attivisti Pro-Life della zona a piantarle ai bordi della carreggiata, in una sola notte, alcuni giorni prima dello storico referendum che ha azzerato in un colpo solo la legislazione irlandese sull’aborto. “Quelle croci rappresentavano le vite che saranno sacrificate in Irlanda ogni anno con la vittoria del Sì”, ha spiegato una volontaria che ha voluto restare anonima per non rischiare problemi con la polizia locale. Sono state rimosse una ad una qualche giorno prima del voto ma quella protesta silenziosa e spettacolare ha lasciato il segno, anticipando in un certo senso l’esito delle urne. Il Donegal, la contea ribelle, una delle anime più autentiche dell’antica Irlanda, ha detto di nuovo “No”, andando ancora una volta in direzione ostinata e contraria rispetto al resto del paese. È stata l’unica delle ventisei contee della Repubblica dove la maggioranza dell’elettorato si è espressa contro l’abolizione dell’Ottavo emendamento alla Costituzione, che dal 1983 equiparava il diritto alla vita della madre a quello del nascituro. Qui il “No” ha prevalso con il 52%, mentre a livello nazionale ha raggiunto appena il 33,5%. Il divario appare assai più netto nelle aree rurali e insulari del Donegal a ridosso del confine con il Nord, dove sono stati registrati picchi fino al 70%. D’altra parte nel Dún na nGall – questo il nome gaelico dell’area – sono stati respinti ben otto dei dieci referendum indetti da Dublino negli ultimi vent’anni, a cominciare da quello sul divorzio nel 1995, che fu bocciato con oltre il 60% dei voti.
Situata nella zona nord-occidentale dell’isola e affacciata sull’Oceano Atlantico, la contea del Donegal è collegata soltanto da un piccolo lembo di terra al resto della nazione, dal quale si differenzia sotto tutti i punti di vista. Non è un caso che fino a qualche anno fa uno degli slogan turistici più in voga nella regione fosse “Up here it’s different (“Quassù è diverso”). La città più grande è Letterkenny – non più di ventimila abitanti – ma il capoluogo è Lifford, minuscola cittadina di appena millesettecento anime a meno di mezz’ora di macchina da Derry. Il Donegal ricade sotto la sovranità della Repubblica d’Irlanda ma fa parte della provincia dell’Ulster, poiché insieme a Cavan e Monaghan è una delle tre contee che ai tempi della divisione del paese non furono incluse nell’Irlanda del Nord. D’altra parte il confine artificiale imposto dagli inglesi nel 1921 mirava a creare uno staterello protestante, e a tale scopo risultò indispensabile escludere dall’Irlanda del Nord le contee a maggioranza cattolica. Dopo la divisione l’area fu tagliata fuori dal resto dell’isola, l’economia locale subì un crollo verticale e a causa della sua posizione geografica fu anche una delle contee più colpite dal conflitto. L’identità del Donegal affonda le sue radici nei secoli precedenti: i suoi abitanti sono da sempre profondamente orgogliosi di aver dato i natali a uno dei dodici apostoli della scuola di San Finnian di Clonard, quel San Columba di Iona che dopo aver fondato decine di comunità monastiche in Irlanda e in Scozia sarebbe diventato uno dei tre santi patroni d’Irlanda, insieme a Patrizio e Brigida. Ma il Donegal è anche la terra di Brian Friel, uno dei più grandi drammaturghi irlandesi contemporanei, e di un gigante del rock come il compianto chitarrista Rory Gallagher.
Il giorno dopo lo storico referendum sull’aborto, le strade delle città e dei villaggi della contea erano già state ripulite dai manifesti elettorali e la gente aveva poca voglia di parlare, quasi come se quel voto non ci fosse mai stato e si cercasse in un certo senso di rimuoverlo. Ma quando l’esito delle urne è risultato chiaro, i social network hanno iniziato a infiammarsi vomitando insulti d’ogni genere contro gli abitanti della regione dissidente, rei di essersi pronunciati in maggioranza per il “No”, proprio come accadde nel 2015 quando la contea di Roscommon votò controcorrente al referendum sulle nozze gay. Nella suggestiva cittadina costiera di Buncrana, padre Francis Bradley si è rivolto ai fedeli durante l’omelia domenicale dall’altare dell’oratorio di Santa Maria, affermando che devono sentirsi orgogliosi “di aver tenuto duro contro la reintroduzione della pena di morte per le vittime innocenti”. La stampa nazionale ha ricordato che il Donegal ha la popolazione più anziana del paese e anche il più alto numero di fedeli che vanno a messa, e si è affrettata a concludere che il voto è stato in parte una ripicca nei confronti di Dublino, poiché tra la gente del posto è forte la convinzione di essere sempre stati ignorati dal governo centrale, anche nei periodi di crisi. Mentre le straordinarie bellezze naturali dell’area richiamano sempre più turisti, i principali nodi irrisolti continuano a essere l’assenza di collegamenti stradali e ferroviari e la crescente disoccupazione giovanile. Soltanto per fare un esempio, l’ampliamento dell’autostrada Derry-Dublino promessa oltre un decennio fa rimane tuttora lettera morta. A non condividere una lettura tutta “politica” del voto è Ann McCloskey di Cherish All The Children Equally, un’associazione ispirata ai principi della storica Proclamazione di Pasqua del 1916. “La vittoria del No da queste parti è il risultato del duro lavoro che abbiamo svolto in questi mesi – ci dice – i nostri volontari hanno compreso fin dall’inizio quale fosse la posta in gioco e si sono impegnati in una campagna capillare, lavorando senza sosta”. Secondo McCloskey c’è stato invece un grave problema di disinformazione nel resto del paese. “Sulla stampa non si faceva altro che parlare di stupri, di incesti o di anomalie del feto. Si sentivano continue menzogne, ad esempio che alle donne venissero negate le terapie anti-cancro durante la gravidanza, mentre in realtà la battaglia era volta soltanto a ottenere l’aborto su richiesta nelle prime dodici settimane”.
Quando sarà approvata la legge che liberalizzerà l’interruzione di gravidanza in tutta la Repubblica d’Irlanda – entro l’inizio del 2019, stando agli annunci del primo ministro Varadkar – il Donegal potrebbe persino ritrovarsi in una situazione paradossale. Rischia infatti di diventare in breve tempo una delle aree del paese con il più alto tasso di aborti: trovandosi al confine con l’Irlanda del Nord – dove l’aborto resta illegale – è facile prevedere che d’ora in avanti le donne nordirlandesi che vogliono abortire non avranno più motivo di prendere l’aereo per l’Inghilterra ma sceglieranno piuttosto di recarsi nel Donegal, a pochi chilometri da casa. Le statistiche ufficiali del ministero della Sanità britannico hanno registrato 724 casi nel 2016 e nei giorni scorsi l’attuale ministro per le politiche giovanili di Dublino, Katherine Zappone, ha persino lanciato una sorta di appello in tal senso alle donne del Nord. Intanto l’IMO, il sindacato dei medici irlandesi, ha iniziato a fare pressione perché la nuova legge tuteli perlomeno la libertà di scelta dei medici obiettori.
RM

Chi disse no al Vietnam

Il rifiuto più clamoroso fu quello di Muhammad Ali, che in un giorno di fine aprile del 1967 dichiarò pubblicamente di non voler imbracciare le armi nella guerra del Vietnam. Il grande pugile venne arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo mondiale, e soltanto quattro anni dopo vide la sua condanna annullata in appello dalla Corte Suprema. In un’epoca nella quale l’obiezione di coscienza era ancora osteggiata e considerata un reato, l’opposizione a quel conflitto segnò per sempre una linea di confine nella storia e nell’anima degli Stati Uniti. Migliaia furono i soldati americani che disertarono, in quegli anni, mentre la prospettiva antimilitarista si manifestava anche nella letteratura con voci autorevolissime, da Kurt Vonnegut a Joseph Heller, da Jack Kerouac a Noam Chomsky. Eppure pochi grandi romanzi hanno raccontato finora la guerra del Vietnam dal punto di vista di chi si rifiutò di indossare la divisa e ne pagò le conseguenze sulla propria pelle. Rappresenta una rara eccezione Saigon, Illinois di Paul Hoover, uscito negli Stati Uniti nel 1988 e pubblicato adesso per la prima volta anche in italiano da Carbonio editore nell’ottima traduzione di Nicola Manuppelli. La storia è quella del ventiduenne Jim Holder, che nell’estate del 1968 sceglie di negarsi alla leva e riesce a farsi assegnare a un servizio pubblico alternativo presso il Metropolitan Hospital di Chicago. Una struttura ospedaliera mastodontica, con novecento posti letto distribuiti su diciotto piani, nel quale dovrà occuparsi della lavanderia, delle pulizie, dei pasti e spesso anche dell’obitorio districandosi tra medici nevrotici, infermieri maldestri, pazienti in fin di vita e cadaveri in abbondanza. “Il lavoro non doveva essere degradante, anche se cercavano di renderlo tale, per semplice patriottismo. Perché quei ragazzi in Vietnam dovevano soffrire, mentre noi, obiettori di coscienza, potevamo cavarcela con lavoretti semplici?”, si chiede il protagonista. Quel microcosmo nel cuore dell’Illinois diventa con il passare del tempo il suo campo di battaglia, il suo Vietnam personale, quasi una metafora del conflitto e dell’atmosfera caotica dell’America della fine degli anni ‘60, in una quotidianità scandita da situazioni al tempo stesso grottesche e drammatiche. Scrittore, poeta e curatore delle principali antologie di poesia nordamericana contemporanea, Paul Hoover ci offre un punto di vista inedito su quella guerra con un romanzo generazionale dai tratti autobiografici. Essendo cresciuto all’ombra della chiesa pacifista di Brethren, in Ohio, dove suo padre era il pastore, la guerra è stata infatti una costante della sua infanzia e della sua giovinezza. Forse anche per questo è riuscito a descrivere magistralmente il senso di amarezza e di disillusione che segnò quell’epoca, stemperandola con robuste dosi di sarcasmo e ironia. Mentre la guerra prosegue, segnando di fatto il fallimento di una lotta politica e di una nazione intera, a Jim Holder non resterà alla fine altra scelta che la fuga. Dopo l’ennesima manifestazione pacifista perde infatti il suo status di obiettore, diventa a tutti gli effetti un disertore e come migliaia di altri giovani di quegli anni è infine costretto a scappare per evitare il carcere.
RM