“Credo che l’arte possa aiutarci a superare il dramma della guerra. Le nuove opere alle quali sto lavorando sono ispirate al martirio dell’Ucraina ma non intendono drammatizzare la realtà, né spaventare il pubblico”. Pavlo Makov ha trovato rifugio da alcune settimane nel nostro Paese. Qui si sente come a casa anche perché padroneggia molto bene la lingua italiana. Da quando è stato costretto a lasciare Kharkiv, l’artista che rappresenta l’Ucraina alla 59esima edizione della Biennale internazionale di arte contemporanea ha scelto di trasferirsi a Firenze, dov’è stato accolto da alcune delle più prestigiose istituzioni culturali cittadine. “Dopo aver terminato l’allestimento del padiglione ucraino all’Arsenale di Venezia mi sono messo al lavoro su altre opere in vista di una mostra che terrò proprio qui a Firenze in autunno, che sarà ovviamente dedicata al mio Paese”.
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Vi racconto chi era Spartaco Lavagnini
Left, 15 ottobre 2021
Quando fu ucciso vigliaccamente da una banda di fascisti a Firenze, nel 1921, Spartaco Lavagnini era il segretario toscano del sindacato ferrovieri e del partito comunista d’Italia, nonché il direttore del periodico Azione comunista. Era soprattutto uno dei principali leader del proletariato italiano: poco più che trentenne, aveva di fronte a sé una straordinaria carriera politica e sindacale. Ma il suo destino era quello di diventare il primo martire dell’antifascismo italiano. Pochi giorni dopo il suo brutale assassinio, Antonio Gramsci scrisse di lui sulla sua rivista l’Ordine nuovo: “cadendo come un capo, al suo posto di lavoro, aveva forse giovato di più all’idea in cui credeva e aveva forse insegnato più cose al popolo con la sua morte, di quanto avrebbe mai potuto insegnare con la parola”. Continua a leggere “Vi racconto chi era Spartaco Lavagnini”
La “memoria condivisa” è un ossimoro
Fuori binario, agosto 2021
Per liberare Firenze dal nazifascismo, nell’estate del 1944, non bastò una battaglia ma ne furono necessarie addirittura due, come spiegò a suo tempo Piero Calamandrei. Una di natura strategica, combattuta a distanza tra le artiglierie alleate disposte sui colli a sud dell’Arno contro quelle tedesche schierate sul semicerchio contrapposto delle colline di Fiesole. L’altra tattica, nel cuore di Firenze, che fu combattuta con armi leggere per le strade e le piazze della città, tra il popolo insorto e i nazifascisti che si barricarono tra le rovine dei palazzi, lasciando che i suoi monumenti fossero ridotti in macerie per poter poi incolpare gli Alleati. Continua a leggere “La “memoria condivisa” è un ossimoro”
Leggere la Divina Commedia sulle lapidi di Firenze
Il dantista Massimo Seriacopi ci guida nelle strade fiorentine dove le pietre parlano delle famiglie della città, spesso in lotta tra loro, che il Poeta celebra nelle tre Cantiche.
«Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva». Basta alzare lo sguardo lungo il Corso, nel pieno centro di Firenze, per scorgere la lapide con i versi della Divina Commedia che descrivono il primo incontro tra Dante e Beatrice. Sono incisi nel marmo della facciata dell’antico palazzo dove un tempo sorgevano le case dei Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice. Siamo nel XXX canto del Purgatorio e il sommo poeta sta assistendo a una processione con carri e canti di lode circondato da angeli e anime pie, quando vede una donna con un velo bianco sulla testa, una corona d’ulivo, una veste rossa e un manto verde. «I colori indossati da Beatrice sono un’allegoria delle virtù teologali, il bianco della fede, il rosso della carità e il verde della speranza, ai quali si somma la sapienza simboleggiata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva», ci spiega il dantista Massimo Seriacopi, che ci accompagna in un percorso attraverso i luoghi fiorentini di Dante solcati dalle lapidi del suo poema monumentale.
Sull’interpretazione allegorica di Beatrice sono state ideate e smontate molte teorie fino ad arrivare alla doppia concezione della donna: da una parte l’ideale stilnovista della bellezza che muove il cuore del poeta, dall’altra la rappresentazione della teologia cristiana. Nella Divina Commedia Beatrice sarà ‘portatrice di Cristo’ e la bellezza che si manifesta pienamente nella sua natura rivelatrice della verità e della carità è per Dante la via per accedere a Dio. Ripercorrere le strade e i vicoli della Firenze medievale è un modo per andare alla riscoperta dei più famosi luoghi danteschi e la partenza da via del Corso non è casuale perché qui si concentra il più alto numero di lapidi, gran parte delle quali raccontano le famiglie della Firenze del tempo di Dante. Quella degli Adimari con Filippo Argenti che sguazza nel fango della palude nel cerchio degli iracondi ( VIII canto dell’Inferno), quella dei Donati con Forese, che predice la futura rovina del fratello Corso Donati capo dei Guelfi neri – nel XXIV canto del Purgatorio, infine quella dedicata alla famiglia dei Cerchi (XVI canto del Paradiso). Basta fare pochi passi in direzione opposta rispetto al Duomo per imbattersi nei resti dell’antica chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, risalente all’XI secolo, meglio nota come ‘chiesa di Dante’. Qui, nel 1285, il poeta sposò Gemma Donati e si ritiene che alcuni anni prima, proprio al cospetto dell’altare, abbia visto per la prima volta la sua Beatrice.
«In questa chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre della giovane, e altri membri della sua famiglia ma è assai controversa l’ipotesi che vi sia anche il sepolcro di Beatrice, che più verosimilmente fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, i Bardi, nel chiostro grande della basilica di Santa Croce», spiega Seriacopi, che è autore tra l’altro del recente saggio Dante tra poesia e teologia (ed. Setteponti). All’estremità opposta di via Santa Margherita si apre un piccolo slargo dove si trova la Casa di Dante, all’interno della replica ottocentesca di un’antica casa-torre. Istituita nel 1965 in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, oggi ospita il museo omonimo che ne documenta la vita e le opere. Svoltato l’angolo siamo in via Alighieri, e una lapide indica il punto dove si presume sorgesse la vera casa natale del poeta. «Io fui nato e cresciuto / Sopra ’l bel fiume d’Arno alla gran villa», recita la pietra, riportando una citazione dal XXIII canto dell’Inferno.
Sono versi che trasudano nostalgia: furono scritti dal poeta durante il sofferto esilio che lo tenne lontano da Firenze fino alla sua morte. Le strade e i vicoli medievali che separano il Battistero di San Giovanni e l’attuale piazza della Signoria furono il palcoscenico dell’infanzia e della giovinezza di Dante, oltre che il collegamento naturale tra il potere religioso e quello politico della città. A unire i due punti c’è via de’ Calzaioli al cui limitare, superata l’antica chiesa di Orsanmichele, una lapide è quasi nascosta in mezzo alle insegne luminose dei negozi. «Cita un verso dal X canto dell’Inferno – precisa Seriacopi -. Qui Dante dialoga con Cavalcante, padre di colui che nella Vita Nova aveva definito il suo primo amico, ovvero Guido Cavalcanti. Era anch’egli un grande poeta e se non fosse morto così presto avrebbe potuto oscurare lo stesso Dante». Proprio negli anni in cui veniva scritta la Divina Commedia, in piazza della Signoria era in corso la realizzazione di Palazzo Vecchio, che venne costruito sulle rovine dei palazzi di proprietà della famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata da Firenze nel 1266. E proprio agli Uberti sono dedicate due delle tre lapidi dantesche affisse all’interno del cosiddetto ‘primo cortile’ di Palazzo Vecchio. Dante si trova adesso nel XVI canto del Paradiso e descrive la superbia che portò quella famiglia alla rovina, oltre a nuocere alla grandezza di Firenze («Oh quali io vidi che son disfatti / per lor superbia!»).
«L’altra lapide – prosegue Seriacopi – cita invece l’episodio in cui il famoso capo ghibellino Farinata degli Uberti, rinchiuso tra gli epicurei nel sesto cerchio del-l’Inferno, racconta al poeta di aver difeso Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 1260, opponendosi poi ai ghibellini senesi che erano intenzionati a distruggerla». Nessuno meglio di Dante riuscì a incarnare appieno lo spirito del suo tempo, quello di un’Italia drammaticamente divisa e faziosa, impegnata in lotte fratricide all’interno degli stessi comuni, e a portare alla luce delitti, passioni e storie oscure di quell’epoca, che altrimenti sarebbero finite nell’oblio. E nella Commedia non perde occasione per scagliarsi contro la civiltà fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale. È quanto fa ancora più avanti, in via del Proconsolo, sulla lapide incisa accanto all’antica chiesa della Badia fiorentina, e poi di nuovo in via del Corso insieme a Cacciaguida, l’avo che incontra in Paradiso, tra le anime dei combattenti per la fede. «Dante era un uomo del Medioevo cristiano che riprendeva l’etica di Aristotele, per il quale la virtù consisteva nel giusto mezzo – conclude Seriacopi -. E Cacciaguida, che fu un guerriero della seconda crociata al seguito dell’imperatore Corrado III, riveste qui un’importante funzione morale. Attraverso di lui Dante esprime tutto il suo sdegno nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze, rievocando la purezza dei costumi antichi’». Continua a leggere “Leggere la Divina Commedia sulle lapidi di Firenze”
La seconda vita del memoriale italiano di Auschwitz
Avvenire, 8 maggio 2019
Diceva Primo Levi che “se Auschwitz sarà svuotato di un contenuto politico non riuscirà a spiegare niente alle nuove generazioni e diventerà un luogo tragicamente inutile”. I timori del grande scrittore torinese rischiarono di avverarsi alcuni anni fa quando il Blocco 21, il padiglione italiano dell’ex campo di sterminio nazista, fu sfrattato tra le polemiche al termine di un processo di ripensamento storiografico iniziato nei primi anni ‘90. Nel 2012 la direzione del museo, sostenuta dal governo di Varsavia, stabilì unilateralmente che il memoriale italiano aperto ad Auschwitz nel 1980 aveva fatto ormai il suo tempo e il progetto architettonico ideato da Ludovico Belgiojoso era diventato “fine a sé stesso e privo di valore educativo”. Si era fatta strada l’idea che il trascorrere del tempo avesse ormai reso inopportuno ricordare in quella sede lo sterminio dei prigionieri politici comunisti, degli omosessuali, dei rom e dei disabili. La direzione del museo la fece quindi rimuovere, minacciandone persino la distruzione, e chiese che al suo posto venisse realizzato un nuovo memoriale. Ma l’Aned, l’associazione degli ex deportati nei campi nazisti – proprietaria dell’opera – non si rassegnò all’idea di perdere un patrimonio culturale che appartiene a tutta la nazione, mobilitò il mondo artistico e accademico e riuscì infine a individuare a Firenze una nuova collocazione per l’opera. Dopo un lungo percorso burocratico culminato in oltre tre anni di restauri da parte dell’Opificio delle pietre dure, il memoriale italiano di Auschwitz inizia oggi la sua seconda vita a oltre un migliaio di chilometri dal luogo per il quale era stato inizialmente progettato. L’opera realizzata alla fine degli anni ‘70 dal gruppo di lavoro nel quale, oltre a Belgiojoso, spiccavano anche Primo Levi, Nelo Risi, Mario Samonà e Luigi Nono torna oggi a essere visitabile in una nuova suggestiva collocazione alla periferia di Firenze: lo spazio Ex3, un piccolo centro per l’arte contemporanea inutilizzato da anni, che la Regione Toscana e il Comune di Firenze hanno deciso di trasformare in un polo della memoria e in un museo diffuso sulla deportazione. Nella nuova casa fiorentina del memoriale di Auschwitz è dunque possibile incamminarsi ancora una volta nel tunnel affrescato che conduce al Blocco 21. Al suo interno è stato riproposto fedelmente il progetto architettonico originario, pensato come un’enorme spirale ad elica che aveva l’obiettivo di ricreare l’atmosfera da incubo vissuta nei campi. Uno spazio ossessivo e opprimente, dove il visitatore si incammina lungo una passerella in traversine di legno che evocano quelle ferroviarie, ascoltando una voce narrante che legge un testo di Primo Levi, “fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte”. E ancora: “Da qualunque paese tu provenga, tu non sei un estraneo”. Il percorso è accompagnato dalle note di Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, composte per l’occasione da Luigi Nono. Il tutto con la regia di Nelo Risi. Le pareti dell’installazione sono rivestite da un affresco suddiviso in ventitré pannelli realizzato dal pittore Mario Samonà che racconta il fascismo e il nazismo, la Resistenza e la deportazione. I colori, ripetuti non casualmente, sono il nero del fascismo, il bianco che allude al movimento cattolico, il rosso del socialismo e il giallo che riconduce al mondo ebraico. Per mesi i restauratori hanno lavorato attorno alle tele della spirale dando nuova luce agli occhi e al volto di Antonio Gramsci raffigurati da Samonà. Con i suoi oltre cinquecento metri quadrati, ha spiegato il direttore dell’Opificio delle pietre dure, Marco Ciatti, l’opera rappresenta il più grande restauro di arte contemporanea mai realizzato. Continua a leggere “La seconda vita del memoriale italiano di Auschwitz”
1966: così Firenze riemerse dal fango
Avvenire, 26.10.2016
“Siamo venuti qua nel giorno della tenerezza e della fortezza dell’amore per piangere con voi. Fiorentini, ai cento titoli che voi potete avanzare per la nostra affezione, si è aggiunto un altro titolo che ci ha messi in cammino: il vostro dolore, così grande, così singolare, così fiero e degno”. L’omelia pronunciata da papa Paolo VI dall’altare del Duomo di Firenze nella notte di Natale del 1966 segnò l’inizio della rinascita della città che meno di due mesi prima era stata colpita dalla furia dell’Arno. Dopo la messa, a tarda notte, il Santo Padre volle recarsi al giardino di Boboli, dov’erano state stipate tante opere d’arte distrutte, e si fermò a pregare davanti allo straordinario Crocifisso del Cimabue, “la vittima più illustre dell’alluvione”, il capolavoro ligneo del XIII secolo che per ore era rimasto a galleggiare nell’acqua sporca di nafta della basilica di Santa Croce. Oltre ai capolavori di Cimabue, Ghiberti, Donatello, Vasari e tante altre opere d’arte uniche al mondo, l’alluvione aveva causato la morte di 35 persone in tutta la provincia di Firenze, distrutto abitazioni e attività commerciali, aveva spazzato via le antiche botteghe artigiane del quartiere di San Frediano, colpendo il cuore identitario della città e facendo scomparire uno dei settori più importanti per il restauro delle opere d’arte. A subire i danni più ingenti, a causa della sua prossimità al fiume, era stata la Biblioteca Nazionale Centrale, che divenne sin da subito il simbolo di quella catastrofe. L’acqua la invase fino a sei metri di altezza e distrusse per sempre alcune delle sue opere più antiche e preziose.
Molti esperti ipotizzarono per recuperare il patrimonio artistico della città ci sarebbero voluti almeno trent’anni. All’epoca sembravano ipotesi pessimistiche ma oggi, a mezzo secolo esatto di distanza, è ancora difficile quantificare con esattezza quante opere restino ancora da recuperare – se mai saranno recuperate. Appena tre anni fa, al termine di un complicatissimo restauro, il Crocifisso del Cimabue è finalmente tornato nella sacrestia della basilica, dov’è stato collocato in posizione sopraelevata per evitare rischi in futuro, mentre il costosissimo intervento di recupero di un altro capolavoro gravemente danneggiato dalle acque, il grande dipinto dell’Ultima cena di Giorgio Vasari, è stato concluso da pochi mesi.
Fin dall’indomani di quel tragico 4 novembre i fiorentini si erano rimboccati le maniche per ricostruire quello che il fango aveva cancellato in poche ore. L’ondata emotiva di quella tragedia – unita alla fama internazionale di Firenze – aveva innescato una mobilitazione mai vista prima d’allora. Sin da subito erano state organizzate squadre di volontari che lavoravano giorno e notte per portare i primi soccorsi agli alluvionati, per aiutare la gente a ripulire case e negozi, a censire i danni, a trovare un alloggio agli sfollati, spesso senza aspettare l’iniziativa dell’amministrazione cittadina e dello stato. La disperazione fu messa da parte per lasciare spazio alla volontà di “risorgere dal fango”, come raccontano molto efficacemente Franco Mariani e Mattia Lattanzi nel nuovissimo libro Firenze 1966: l’alluvione. Risorgere dal fango (Giunti editore). Grazie a una straordinaria raccolta documentaria il volume ricostruisce la memoria di quella catastrofe proprio mentre Firenze si appresta a commemorarne il cinquantesimo anniversario. Un lavoro dettagliatissimo, corredato da decine di testimonianze e fotografie, che dà vita a un affresco drammatico eppure carico di forza, di speranza e di gratitudine nei confronti dei tantissimi che giunsero da tutto il mondo per contribuire alla rinascita di un luogo considerato patrimonio dell’umanità. Un libro che ha il grande pregio di riportare alla luce vicende sepolte in un silenzio che è stato spesso favorito anche dalla discrezione di chi è abituato a lavorare lontano dai riflettori. Come i monaci dell’abbazia di Grottaferrata, nei pressi di Roma, che furono inviati a Firenze da Paolo VI per recuperare un migliaio di volumi di grande pregio che vennero poi portati nel loro cenobio di preghiera, che è anche sede di un antico laboratorio di restauro e conservazione di libri, codici e documenti. Altri preziosi volumi provenienti dall’Opera del Duomo, dall’Archivio di Stato e dalla Biblioteca Nazionale furono invece portati in Vaticano, al laboratorio di restauro scientifico del libro. La piena del fiume sommerse la città ma dette vita anche a una grandiosa catena di solidarietà, con migliaia di giovani volontari che in quel novembre 1966 arrivarono da tutta l’Italia e anche dall’estero per contribuire alla rinascita del capoluogo toscano e delle sue opere d’arte. Tra gli “Angeli del fango” ci sarebbero stati anche alcuni futuri vescovi (Gianni Ambrosio, Mansueto Bianchi, Diego Coletti, Nunzio Galantino, Luigi Marrucci e Luciano Monari) e persino tre futuri cardinali: Angelo Scola, Gualtiero Bassetti e l’attuale arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori. Il libro di Mariani e Lattanzi riporta le testimonianze e i ricordi di ciascuno di essi, e racconta vicende rimaste finora pressoché ignote, come quella di monsignor Gualtiero Bassetti, all’epoca curato della chiesa fiorentina di San Salvi, che insieme a due giovani mise in sicurezza decine di bidoni di idrocarburo stipati in un magazzino vicino alla sua parrocchia, scongiurando un’esplosione che avrebbe provocato danni ingenti e gravi rischi per le persone.
Il cinquantesimo anniversario dell’alluvione di Firenze del 1966 lascerà spazio a grandi commemorazioni ma sarà anche tempo di bilanci non sempre incoraggianti. Finora, come ricorda questo volume, sono stati spesi circa 150 milioni di euro per mitigare il rischio idraulico del fiume ma purtroppo le opere infrastrutturali necessarie per ridurne la pericolosità – considerate priorietarie già oltre un decennio fa – restano tuttora lettera morta a causa di inadempienze, ritardi, commissariamenti, soldi mai stanziati o non ancora spesi.
RM
“L’Arno scorre a Firenze”: è rinata Radio Cora
Radio Cora, l’emittente clandestina che durante la guerra di Liberazione dal nazifascismo mantenne i contatti tra la Resistenza toscana e i comandi alleati, è rinata settant’anni esatti dopo la sua tragica fine, con gli arresti, le torture e le fucilazioni del giugno 1944. È una rinascita che segue lo spirito dei tempi sia nella forma che nei contenuti: la nuova Radio Cora è infatti una web radio che sfrutta tutte le potenzialità delle nuove tecnologie e si ispira ai valori espressi dalla Carta Costituzionale, cercando di declinare in ogni singola fase della sua attività il concetto di “indipendenza”. Quella che pare un’utopia irrealizzabile è invece già realtà perché Radio Cora – patrocinata dall’Anpi e diretta dal giornalista Domenico Guarino – funziona esclusivamente grazie al contributo degli ascoltatori, chiamati a sottoscrivere una quota annua minima di dieci euro l’anno per ottenere in cambio una programmazione davvero indipendente anche in termini di emissione, di formati, di programmi e di linguaggi. Alla presentazione ufficiale che si è svolta nei giorni scorsi a Firenze, al Circolo di San Niccolò (dove la radio ha anche la sua sede), hanno risposto in tantissimi. E in pochi giorni centinaia di persone hanno anche raccolto entusiasticamente l’appello sottoscrivendo la tessera.
Per capire quanto la rinascita di Radio Cora rappresenti un fatto dal forte sapore simbolico per la memoria della Resistenza di Firenze e di tutta Italia basta ricordare cosa rappresentò l’emittente durante la guerra di Liberazione. La Co.Ra. (acronimo di “Commissione Radio”) era un progetto di intelligence che tenne da Firenze i contatti con il Comando angloamericano dell’VIII Armata di stanza a Bari. Per circa cinque mesi, tra il gennaio e il giugno del 1944, la radio orientò i lanci alleati di materiali utili ai partigiani in montagna, guidò gli attacchi aerei alle truppe tedesche e cercò di fornire agli alleati dati sull’esatta ubicazione degli obiettivi militari, per evitare quelli che oggi chiameremmo “effetti collaterali” dei bombardamenti, ovvero le vittime civili delle incursioni aeree. Inoltre fornì informazioni che risultarono preziose anche per accelerare l’avanzata degli Alleati verso il nord Italia. Quella di Radio Cora è una storia eroica fatta di sedi per trasmettere che cambiano quasi ogni giorno, di pezzi di radio trasportati di nascosto a rischio della vita, di parole d’ordine criptate di cui la più famosa è rimasta nella memoria di molti, “L’Arno scorre a Firenze”. Per poter trasmettere con regolarità senza rischiare di essere scoperti dai nazisti, la radio veniva spostata di continuo e non trasmetteva mai due volte di seguito dallo stesso posto. Purtroppo neanche questa precauzione bastò a salvare le vite dei componenti del gruppo: la storia di Radio Cora si conclude tragicamente il 7 giugno 1944, quando i nazisti fanno irruzione nella sede di piazza D’Azeglio dopo aver individuato la ricetrasmittente, forse grazie a una spiata, forse semplicemente riuscendo a localizzarla con i radiogoniometri. Il giovane radiotelegrafista Luigi Morandi viene sorpreso mentre trasmette, ha la prontezza di sottrarre una pistola a un soldato tedesco e di ferirlo a morte, prima di essere crivellato di colpi a sua volta. Morirà due giorni dopo, in ospedale. Enrico Bocci, Italo Piccagli, Gilda Larocca e altri tre membri del gruppo – Carlo Campolmi, Guido Focacci e Franco Gilardini – vengono invece arrestati e tradotti a Villa Triste, il luogo di tortura allestito dai nazifascisti in città, dove subiscono sevizie inaudite. Il 12 giugno Piccagli viene fucilato nei boschi di Cercina, sul monte Morello, insieme a quattro paracadutisti che erano stati inviati dall’VIII Armata per rafforzare il gruppo. Bocci viene invece torturato per giorni: i suoi aguzzini lo mantengono in vita a forza con iniezioni di cardiotonici e cercano in tutti i modi, ma inutilmente, di farlo parlare. Il suo cadavere non sarà mai più ritrovato. La Rocca, Campolmi e Gilardini finiscono nel campo di concentramento di Fossoli, da dove riusciranno a scappare durante il trasferimento in Germania. I “martiri” di Radio Cora, cioè Enrico Bocci, Italo Piccagli e Luigi Morandi, hanno ricevuto la Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria e tutti gli anni a Firenze, il 7 giugno, davanti al monumento di piazza D’Azeglio si svolgono commemorazioni per tramandare la memoria di Radio Cora.
RM
Per sostenere la nuova Radio Cora è possibile versare 10 euro sul conto aperto a nome dell’Associazione Radio Cora, presso Banca Etica, IT49 Y050 1802 8000 0000 0173 825 indicando nella causale ‘tesseramento 2014’
Gli incontri che la vita dona. Ricordo di Alex Langer
Nel 17° anniversario della morte del grande Alex Langer riproponiamo questo suo testo autobiografico scritto nel 1986 per la rubrica Minima personalia della rivista Belfagor.
«Perché papà non va mai in chiesa?».
Crescendo a Sterzing (950 m, 4000 abitanti), in una famiglia democratica e borghese, che a casa parla in lingua (tedesca) invece che in dialetto tirolese e nella quale si respira un clima molto rispettoso e tollerante, mi inquieta molto il fatto che mio padre non vada mai in chiesa.
Un giorno, approfittando del mio compleanno, oso chiedere alla mamma il perché. Me ne sento un po’ in colpa, come anche per il fatto di non parlare in dialetto. «Il papà, stando in ospedale tutto il giorno e tutti i giorni (era l’unico medico chirurgo del circondario) serve Dio in altri modi – te lo potrà confermare il cappellano che va bene così.» Il cappellano, un prete cecoslovacco in esilio, conferma.
Più tardi mia madre mi spiega anche che mio padre è di origine ebraica e che non conta tanto in che cosa si crede ma come si vive. Lei, in quegli anni, fa parte del consiglio comunale, come indipendente eletta sulla lista «tedesca» della Svp, ma ne esce presto, quando il clima peggiora e la richiesta di avere antifascisti in lista non è più così forte.
Nella mia cittadina, che amo molto, sento una certa estraneità che mi rende facile il passaggio precoce alla scuola media, a Bolzano, dai francescani. Faccio il pendolare settimanale con Bolzano, per la scuola (a Vipiteno, paradossalmente, solo gli italiani hanno le scuole superiori: un quarto della popolazione, ma con i figli degli ufficiali). Chiedere il biglietto o un’informazione in tedesco è impensabile. In città ci si sente proprio in minoranza, da tirolesi. Sul mio autobus (linea 3 di Bolzano) siamo solo due bambini di lingua tedesca. I fascisti fanno cortei per l’Ungheria e per «Magnago a morte». Me ne sento minacciato anch’io e comincio a sentire il fascino della resistenza etnica.
Ogni sabato leggo la terza pagina del Dolomiten che riporta capisaldi della storia sudtirolese, informa sui soprusi degli italiani, delle promesse non mantenute dallo Stato, di come si viveva sotto il fascismo. Il processo contro i «ragazzi di Pfunders» (accusati -credo ingiustamente- di avere ucciso un finanziere, in seguito ad una lite d’osteria, e duramente condannati) mi emoziona e mi indigna. Quando una mattina, passando in treno da Waidbruck (Ponte Gardena), vedo che il «duce di alluminio» è stato fatto saltare di notte, ne sono contento. Fanfani prometterà poi di ripristinare quella statua equestre al «genio italico» che rappresentava Mussolini a cavallo, ma non succederà mai.
«Perché noi non odiamo gli italiani?».
Percepisco che il clima in casa è diverso da quello fuori, anche nella seconda metà degli anni ’50, quando si va verso gli attentati dell’autonomismo ed irredentismo tirolese. So già abbastanza bene l’italiano: i genitori ci tengono che a scuola io lo studi bene, e mi avevano persino mandato all’asilo italiano. Insieme ai fratelli registro la differenza etno-linguistica tra la gente come un gioco: per strada ci mettiamo a indovinare chi è «tedesco» e chi «italiano», e verifichiamo col saluto. Non ci si sbaglia quasi mai.
Dopo i primi attentati avverto una certa differenza di tono tra mia madre (più solidale con le ragioni tirolesi) e mio padre (più preoccupato dei possibili rigurgiti nazisti). Più marcata è la differenza di toni in famiglia e fuori. Mi sento un po’ insicuro se un «ciao» italiano -usato in famiglia- possa essere un tradimento, una dissociazione.
A mia madre chiedo: «perché noi non odiamo gli italiani?». Continua a leggere “Gli incontri che la vita dona. Ricordo di Alex Langer”
Ciao Enzo
Firenze piange don Mazzi, il parroco del dissenso, animatore per quattro decenni della Comunità dell’Isolotto, uno dei grandi quartieri popolari fiorentini. Era l’ultimo erede di una corrente di pensiero che ha annoverato laici e religiosi come Giorgio La Pira, Ernesto Balducci e Lorenzo Milani, era stato tra gli animatori del cattolicesimo di base degli anni ’60.
La Comunità abolì la separazione fra ricchi e poveri, clero e laici: in canonica furono alloggiati tre nuclei familiari, ex carcerati, disabili. La Comunità solidarizzava con quell’area cattolica che non si riconosceva più nella Dc. Don Mazzi contribuì a realizzare dentro la canonica un asilo, una piccola fabbrica, un laboratorio per invalidi. Le sue posizioni erano sempre più in contrasto con la curia fino ad arrivare allo scontro dell’autunno del 1968 quando un’assemblea della Comunità richiamò 10mila persone e la vicenda divenne un caso internazionale. Il cardinale Ermenegildo Florit, decise di reprimere duramente il dissenso: intimò a Mazzi e ai suoi collaboratori di lasciare la chiesa sostituendolo con un nuovo parroco. Cinque sacerdoti e tre laici furono incriminati dalla magistratura.
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