Le ferite aperte di Sarajevo

Intervista ad Azra Nuhefendić uscita oggi su Avvenire (versione integrale)

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Sono passati vent’anni ma le ferite di Sarajevo sanguinano ancora. Chi è sopravvissuto al più lungo assedio della storia moderna, iniziato il 5 aprile del 1992 e durato quasi quattro anni, ancora non riesce a spiegarsi come sia stato possibile che l’incolpevole popolazione di una moderna città europea sia stata lasciata sola per 44 mesi a fronteggiare le granate, i cecchini, il freddo, la fame. Oltre 11000 persone – tra cui almeno 1500 bambini – hanno perso la vita in quell’interminabile accerchiamento che ha trasformato Sarajevo nel simbolo della disfatta della civiltà. “Ancora mi chiedo come abbiamo fatto a sopravvivere”, spiega Azra Nuhefendić, una delle più autorevoli giornaliste bosniache, che all’inizio della guerra lavorava per il quotidiano Oslobodjenje e la tv di Stato e che dal 1995 vive a Trieste. “Il dopoguerra bosniaco non è ancora finito perché non abbiamo avuto veri programmi di ricostruzione, e soprattutto perché è mancata la voglia di punire i colpevoli”. Quella che ci racconta oggi è una Sarajevo diversa, con una geografia urbana asservita agli interessi economici degli investitori stranieri ma che è riuscita, nonostante tutto, a mantenere in vita la sua anima tollerante. Nuhefendić è anche autrice del recente libro “Le stelle che stanno giù” (ed. Spartaco), diciotto istantanee sulla memoria della guerra in Bosnia raccontate con coraggio, incredulità e dolcezza.
Cosa prova guardandosi alle spalle e pensando che sono passati ormai due decenni dall’inizio dell’assedio?
Incredulità, ancora. Non riesco a capire come siamo riusciti a sopravvivere. Una media di 350 granate al giorno, i cecchini, la fame, il freddo. Da una parte c’era l’ex armata jugoslava, all’epoca la quarta potenza militare in Europa, e dall’altra i bosniaci disarmati, con le mani legate anche dalle Nazioni Unite, che avevano imposto un embargo all’importazione di armi che di fatto colpiva solo le vittime. E poi l’indifferenza, anzi la falsa obiettività della comunità internazionale. Chi rimane imparziale di fronte a un’aggressione, diceva l’arcivescovo Desmond Tutu, sta dalla parte dell’aggressore.
Che rapporto hanno i sarajevesi con la memoria di quegli anni?
La gente non vuole parlarne. Quattro anni di guerra sono stati fin troppi e le persone sentono di aver perso ogni ora, ogni secondo di quegli interminabili 1427 giorni d’assedio. Quello che è successo a Sarajevo e nel resto della Bosnia unisce la tragedia collettiva con migliaia di tragedie intime, individuali, e la popolazione ha imparato che il mondo non crede alle lacrime, né all’innocenza. Chi per quattro anni ha ripetuto che “tutti sono colpevoli” deve spiegarci com’è stato possibile che i cittadini di una moderna città europea siano stati lasciati soli a fronteggiare il più lungo assedio della storia contemporanea. Continua a leggere “Le ferite aperte di Sarajevo”

Missing (un intero popolo è scomparso)

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(di Azra Nuhefendić)

E’ un intero popolo. Comprende bosgnacchi, serbi, albanesi, croati e rom. Non si riconoscono né per la nazionalità, né per la religione, né per il sesso, ma per la lunga angoscia degli anni di ricerca. Parole grosse come patriottismo, coraggio, onore e patria gli provocano il mal di stomaco. Vanno avanti intorpiditi, le ombre di se stessi. Per loro il presente è una sofferenza costante, le giornate nient’altro che il disperato attendere la notizia che i resti sono stati ritrovati. Desiderano questa notizia, ma allo stesso tempo la temono. Più di 34.000 persone sono scomparse durante le guerre in ex Jugoslavia. Nella sola Bosnia Erzegovina sono sparite 28.000 persone. Ancora oggi non si conosce il destino di circa 11.000, in Croazia ne mancano 2.283 mentre in Kosovo 1.895. La sorte incerta di ancora 16.000 scomparsi, in totale, tormenta circa un milione di loro famigliari. I numeri non chiariscono molto, le grosse cifre non impressionano più di tanto. Quelli che cercano i propri cari non vogliono sentire le statistiche, le rifiutano. Si ricordano di dettagli precisi, com’era vestita, cosa si sono detti quando si sono visti l’ultima volta, cosa indossava il primo giorno di scuola, il dente che mancava, i capelli ricci, il giocattolo che portava, le scarpe che indossava, la foto che aveva nel portafoglio, una cicatrice, un gesto della mano, l’orologio regalato, i pantaloni che aveva cucito varie volte. Continua a leggere “Missing (un intero popolo è scomparso)”

La Drina, il Nobel, le fosse comuni

“A Visegrad c’e’ un ponte, un ponte sulla Drina; un ponte fra la Serbia e la Bosnia; un ponte fra il mondo cristiano e quello musulmano; un ponte fra l’Oriente e l’Occidente. C’e’ un ponte (come in ogni altro dove) fra il passato e il futuro.”

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Il Tribunale dell’Aja ha condannato i criminali di guerra Milan e Sredoje Lukic, rispettivamente all’ergastolo e a 30 anni di carcere, chiudendo il processo a due dei più famigerati criminali di guerra serbi, responsabili degli omicidi di massa attorno alla città bosniaca di Visegrad, sul fiume Drina, il più importante di tutta la Bosnia. Il tribunale dell’Aja aveva intessuto il processo contro i due cugini basandosi principalmente sul massacro di 140 civili bosniaci di fede musulmana, che erano stati chiusi in due case della città e bruciati vivi. Numerosi altri criminali di guerra restano però ancora impuniti.
I servizi dei mezzi di informazione sul processo hanno per lo più taciuto che il numero complessivo delle vittime della città e del comune di Visegrad (Opstina) dei due cugini Lukic, ammonta, secondo le stime delle associazioni dei parenti delle vittime e di profughi a circa 3.000 persone. Visegrad è quindi accanto a Srebrenica una delle città principali in cui si è compiuto il genocidio dei musulmani bosniaci. Gli omicidi di massa nella città sulla Drina sono stati commessi tra maggio e giugno 1992, in seguito all’occupazione della città prima da parte dell’esercito jugoslavo e poi delle milizie serbe. Tra le vittime si contano anche circa 600 donne e 120 bambini, ma si ignorano tuttora i nomi di moltissime vittime. Spesso sono state sterminate intere famiglie, come ad esempio tutti i 60 componenti della famiglia Kurspahic di Bikavac, in modo da non lasciare nessuno che ne potesse denunciare la scomparsa.
Durante la guerra in Bosnia il fiume Drina si è trasformato in una delle maggiori fosse comuni della Bosnia. Nelle città e nei villaggi situati lungo il fiume, non solo a Visegrad, sono stati commessi innumerevoli massacri e i corpi gettati nel fiume. I cadaveri sono stati portati via dalle acque del fiume, spesso stritolati dalle turbine delle fabbriche e delle centrali idroelettriche lungo il fiume, tanto che i resti di molte persone probabilmente non verranno mai trovati. Nella città di Visegrad, scenario dell’opera principale del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric (“Il ponte sulla Drina”), centinaia di civili sono stati giustiziati proprio sul famoso ponte Mehmed Pasa Sokolovic descritto da Andric. Anche i loro corpi sono stati gettati nella Drina. Solo l’anno scorso a Visegrad sono state sepolte 152 salme su 202 esumate al cimitero della memoria, creato appositamente per le vittime del genocidio. Dei 152 sepolti, solo 21 erano stati identificati, mentre le pietre tombali di tutti gli altri recano l’iscrizione N.N. (sconosciuto). Nel villaggio di Slap vicino a Zepa è stata trovata un’altra fossa comune con le ossa di 133 persone. Gli abitanti di questo villaggio situato in un canyon, assediata per quattro anni dalle truppe serbe, erano riusciti a pescare i cadaveri dal fiume e dar loro almeno una sepoltura temporanea. Proprio come Srebrenica, Zepa è stata una enclave sotto assedio serbo per quattro anni e una cosiddetta zona di protezione dell’ONU.

Se la minoranza oppressa si trasforma in maggioranza opprimente

(di Alessandro Michelucci)

Era soltanto questione di tempo: bastava aspettare, ma era certo che prima o poi sarebbe arrivata la conferma di quello che molti temevano. Il Kosovo, lo stato-fantoccio nato nel febbraio 2008, è stato accusato di non rispettare i diritti delle numerose minoranze presenti sul suo territorio: Bosniaci, Croati, Rom, Serbi, Turchi e altri. L’accusa è venuta dal Minority Rights Groups (MRG), una delle più autorevoli e longeve organizzazioni nate per difendere i diritti delle minoranze. Nel suo rapporto intitolato “Filling the Vacuum: Ensuring Protection and Legal Remedies for Minorities in Kosovo” il MRG specifica i punti dolenti della questione, fra i quali spiccano la limitazione dei diritti politici e la negazione di stutture didattiche nelle varie lingue minoritarie. Il rapporto aggiunge che “questo, insieme alle difficili condizioni economiche, sta costringendo molti membri delle comunità minoritarie, fra i quali Bosniaci e Turchi, a lasciare il Kosovo”. Alcune settimane prima l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) aveva pubblicato un rapporto dove criticava duramente il comportamento della polizia kosovara nei confronti delle minoranze. A questo punto si impone una riflessione. I paladini dell’occidentalismo (cioè degli Stati Uniti) hanno sostenuto l’indipendenza del Kosovo sottolineando (giustamente) che in passato la minoranza albanese era stata vessata dalla maggioranza serba. Se questa posizione non fosse stata strumentale, quindi, adesso dovrebbero preoccuparsi delle altre minoranze. Ma non lo faranno.

Karadzic verso la scarcerazione?

La notizia è di quelle clamorose: Radovan Karadzic, l’ex leader dei serbi di Bosnia tra i principali artefici della mattanza nei Balcani – arrestato a Belgrado il 21 luglio scorso dopo tredici anni di latitanza – potrebbe essere scarcerato. I suoi avvocati hanno chiesto l’invalidazione del processo e la cancellazione delle accuse, con la conseguente immediata scarcerazione del 64enne psichiatra. Il motivo è molto semplice: Karadzic non sarebbe mai stato latitante, ma avrebbe semplicemente seguito alla lettera l’accordo sottoscritto con il diplomatico Usa Richard C. Holbrooke, mediatore ai tempi del conflitto nella ex-Jugoslavia.  In cambio dell’immunità per quanto ordinato ai suoi uomini ai tempi della guerra, Karadzic doveva abbandonare la scena politica nel 1996, scomparendo nel nulla e permettendo così la firma degli Accordi di Dayton che, sotto l’egida Usa, chiudevano il conflitto nei Balcani. Secondo i difensori di Karadzic, se il tribunale dovesse appurare che l’accordo-Holbrooke é vincolante,  il procedimento giudiziario sarebbe sicuramente da annullare.

Ogni nazionalismo è colpevole. Ma le colpe non sono tutte uguali

Questo inquietante manifesto (in caratteri cirillici e dai colori che ricordano vagamente i film di Dario Argento) campeggiava sui muri di Srebrenica nei giorni precedenti l’anniversario del genocidio del 1995. E’ l’avviso della manifestazione dei nazionalisti serbo-bosniaci che si sarebbe tenuta il 12 luglio, ossia il giorno dopo la cerimonia presso l’area dell’ex base Onu di Potocari. Una sorta di ‘contromanifestazione’ per rivendicare presunte stragi di serbi perpetrate dai ‘musulmani’ nei mesi precedenti il genocidio. Personalmente ho un’idea molto negativa circa l’attendibilità di tali rivendicazioni dei serbo-bosniaci, in primis per la drammatica scarsità di armi che contraddistingueva la resistenza di Srebrenica. Per chiarirmi meglio le idee ho allora posto alcuni quesiti a Luca Leone, autore di “Srebrenica. I giorni della vergogna” (senz’altro il libro più completo e attendibile sull’argomento).

Quali prove esistono di questi crimini a danno dei serbo-bosniaci? È esagerato o del tutto fuori luogo parlare di 3500 morti serbi nei dintorni di Srebrenica? E in questo caso, quali autorità continuano a soffiare sul fuoco dell’intolleranza alimentando tali iniziative?

Ecco l’illuminante risposta di Luca Leone:

Nessuno sa con assoluta precisione quanti siano stati i morti “serbi” a Srebrenica. I “musulmani” dicono qualche decina, forse. C’è chi parla di centinaia. Chi di circa 3.000. Chi di più di 3.000. E così via. L’unica cosa certa è che 6 ce ne sono certamente stati: quelli per i quali Naser Oric è stato processato all’Aja, ma poi è stato assolto in appello, poiché la corte non ha ravvisato sue responsabilità dirette o indirette nel fatto. Possibile? Mi sembra così strano. Su Oric credo alle parole di Jovan Divjak (generale serbo che difese Sarajevo durante l’assedio, ndr), e dello Stamo Maggiore bosniaco: secondo loro si comportava come qualcosa a metà tra un bandito e un mafioso, durante l’assedio. In alcune fosse comuni sono stati effettivamente ritrovati corpi di cittadini serbi di Srebrenica e dei villaggi circostanti. Continua…

In viaggio per Srebrenica

Erano almeno tre anni che volevo fare questo viaggio nella città martire della guerra di Bosnia. Avevo cercato in tutti i modi di esserci nel 2005, in occasione del decennale del genocidio, ma poi saltò tutto. Finché, quasi per caso, non ho avuto la possibilità di aggregarmi al viaggio organizzato dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano, che per il terzo anno consecutivo parteciperà alle commemorazioni dell’11 luglio. Per quel giorno, tredicesimo anniversario della mattanza di cittadini musulmani ad opera di serbi ultranazionalisti, le autorità bosniache si aspettano la presenza di decine di migliaia di persone. Nuove vittime saranno sepolte nel memoriale di Potocari, poco fuori dalla città, andando ad aggiungersi ai circa 3.000 corpi fin qui ricostruiti e riconosciuti grazie all’esame del Dna. Ma ancora devono essere riconosciuti tra i 5.000 e i 7.000 corpi, visto che a Srebrenica, l’11 luglio 1995, furono trucidati tra gli 8 e i 10.000 musulmani (ma alcune fonti parlano di più di 12.000 persone). Il viaggio organizzato dalla Fondazione – da oggi a domenica – vuol essere un momento di riflessione e di discussione, nella consapevolezza di quanto sia importante la solidarietà internazionale in una città che è tutt’ora un’enclave discriminata e che porta in sé i segni indelebili di una memoria impossibile da cancellare. Il blog si ferma per qualche giorno. Resoconti (anche fotografici) sul viaggio a partire dalla prossima settimana.

Intanto questo video recuperato da Youtube ricorda i fatti del luglio di 13 anni fa:

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