Condanna definitiva all’ergastolo per Karadzic

Avvenire, 21 marzo 2019

Alla lettura della sentenza sono esplosi in un boato di giubilo, tra abbracci e occhi lucidi. I familiari delle vittime e le associazioni bosniache che chiedono giustizia per la guerra degli anni ‘90 si erano riuniti all’Aja, a Sarajevo e a Potocari, il cimitero-memoriale alle porte di Srebrenica. Aspettavano questo giorno da tre anni esatti, da quando, nel marzo del 2016, il Tribunale penale per l’ex Jugoslavia aveva condannato in primo grado Radovan Karadzic a quarant’anni di reclusione. Intorno alle 15 di ieri, dopo aver rigettato tutti i ricorsi presentati dalla difesa, il giudice danese Vagn Prüsse Joensen ha affermato che la pena inflitta tre anni fa era “incomprensibile” e “ingiusta” alla luce della gravità dei crimini commessi dall’imputato, lasciando quindi intendere che sarebbe stata inasprita. Il 73enne ex leader serbo-bosniaco è stato condannato in via definitiva all’ergastolo: i giudici della corte d’appello dell’Aja, proprio come nella sentenza di primo grado, l’hanno ritenuto colpevole di genocidio per il massacro di Srebrenica del luglio 1995 – quando vennero ammazzati oltre ottomila musulmani – e anche di aver terrorizzato la popolazione di Sarajevo, tenendo la città sotto assedio per 43 mesi durante i quali rimasero uccisi oltre 11500 civili, un decimo dei quali erano bambini. Il tribunale non ha però accolto le richieste dell’accusa che chiedeva il riconoscimento del reato di genocidio anche per i crimini di guerra commessi nelle municipalità di Bratunac, Foca, Kljuc, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik. Stavolta alla lettura del verdetto finale non c’è stato alcun colpo di teatro, nessuna fiala di veleno ingerita in diretta tv – come nel caso del generale croato Slobodan Praljak -, né plateali gesti di disprezzo nei confronti dei giudici, come fece Ratko Mladic quando fu condannato in primo grado all’ergastolo, nel novembre 2017. Karadzic è rimasto immobile al suo posto in aula, imperturbabile, ascoltando in silenzio le parole del presidente del tribunale, senza mostrare alcuna reazione. Soltanto nel pomeriggio ha fatto sapere tramite il suo legale, l’avvocato Goran Petronjevic, che si tratta di una sentenza “politica” che “non ha alcun legame con la giustizia”. Lo stesso Petronjevic non ha escluso una richiesta di revisione del processo alla luce di elementi e dettagli che non sarebbero finora emersi. L’ergastolo per Radovan Karadzic rappresenta la prima condanna definitiva per genocidio e crimini di guerra pronunciata nei confronti d’un leader politico europeo dai tempi del processo di Norimberga. L’ex capo dei serbi di Bosnia era stato arrestato a Belgrado nel 2008 al termine di una lunga latitanza condotta sotto falso nome e grazie a una catena di appoggi e protettori. Il processo a suo carico, davanti ai giudici del Tribunale penale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, è durato complessivamente quasi dieci anni, ha coinvolto centinaia di testimoni e prodotto decine di migliaia di documenti. A un quarto di secolo dai fatti contestati, i giudici dell’Aja hanno dunque detto la parola definitiva sul percorso giudiziario di uno dei principali protagonisti delle vicende che sconvolsero la Bosnia-Erzegovina negli anni ‘90. Con la fine del processo Karadzic, l’ultimo compito del Meccanismo residuale (l’organo subentrato al Tribunale penale per l’ex-Jugoslavia che ha chiuso i battenti l’anno scorso) sarà il processo d’appello di Ratko Mladic, già condannato all’ergastolo in primo grado per genocidio. La sentenza definitiva, per lui, è attesa entro la fine del 2019.
RM

Srebrenica, i conti con la memoria

Avvenire, 8.7.2018

Quest’anno Omer Dudic potrà finalmente seppellire i suoi cari morti nel genocidio. I resti di suo fratello Nijazija e di sua cognata Remzija, all’epoca incinta di sei mesi, sono stati riconosciuti grazie all’analisi del dna nel centro di identificazione di Tuzla e i loro nomi figurano oggi nella lista delle 35 persone che saranno tumulate l’11 luglio durante le celebrazioni per l’anniversario del massacro di Srebrenica. “In quei giorni del 1995 avevo appena vent’anni – ci racconta visibilmente commosso – e riuscii a salvarmi per miracolo, fuggendo attraverso i boschi e camminando per oltre cento chilometri a piedi nudi. Da allora non ho mai smesso di cercare i miei parenti”. Oggi Omer fa il contadino a Osmace, un villaggio a poca distanza da Srebrenica, immerso tra le verdi campagne che circondano la valle della Drina, al confine tra la Bosnia e la Serbia. Si stenta a credere che solo pochi anni fa un luogo così silenzioso e poetico sia stato teatro di una feroce pulizia etnica. Dei circa mille abitanti che vivevano qui all’epoca adesso ne sono rimasti appena un’ottantina. Poche case sparse abitate perlopiù da qualche anziana vedova, un memoriale alle vitime della guerra e intorno distese di campi a perdita d’occhio. Campi che potrebbero essere coltivati, se solo ci fossero ancora le braccia per farlo. Da qui si arriva a Srebrenica in meno di mezz’ora, scendendo lungo la strada che Ratko Mladic e le sue truppe di carnefici percorsero dopo la definitiva caduta della città. La fisionomia della piccola piazza del centro è stata modificata di recente da un imponente edificio rosso che ospita un albergo e una banca turca. Di fianco, il minareto della principale moschea cittadina è sovrastato dalla cupola della chiesa ortodossa. Dopo quanto è accaduto nella prima metà degli anni ’90, la convivenza tra la comunità serba e la minoranza musulmana è una scommessa quotidiana. Anche quest’ultima vive ormai con fastidio la rumorosa macchina delle celebrazioni che si attiva ogni anno l’11 luglio, la sfilata annuale delle delegazioni internazionali, i riflettori che si accendono per mezza giornata e poi si spengono di nuovo fino all’anno successivo. “È vero, questo sarà il primo anniversario dopo la condanna di Mladic e la chiusura della Corte penale dell’Aja – riconosce Bekir, che era un bambino durante la guerra – ma qua le notizie delle condanne arrivano come un’eco distante, che non sposta gli equilibri quotidiani della gente comune”. I sopravvissuti e i parenti delle vittime sono costretti a convivere ogni giorno con la memoria del genocidio e a confrontarsi con una ricostruzione morale e materiale che pur dopo tanti anni stenta ancora a decollare. Nonostante le iniziative di riconciliazione nate in questi anni il tessuto sociale della città appare irrimediabilmente distrutto. Lo si percepisce negli sguardi degli abitanti e nell’atmosfera surreale che si respira nelle strade, dove i segni della guerra sono ancora ben visibili, con palazzi bombardati e mai ricostruiti a cominciare dal grandioso hotel Domavia, affacciato sulla piazza principale, alle spalle della grande moschea cittadina. Di quella che un tempo era un’elleccenza turistica dell’era titina, oggi resta soltanto un macabro scheletro di cemento abbandonato. Ma tutta la città è ancora costellata da edifici distrutti e case ricostruite, in un’alternanza che pare una metafora delle cicatrici lasciate nelle persone. “Il processo di riconciliazione continua a essere ostacolato dalle ideologie nazionaliste che gettano sale sulle ferite di un dramma cominciato molto tempo prima di quello che il mondo ricorda”, ci spiega Hasan Hasanovic, curatore del centro di documentazione del memoriale di Potocari, nel quale è sepolto anche suo padre. L’assedio dei nazionalisti serbi alla città iniziò in un giorno di primavera di venticinque anni fa, nel 1993. “L’Onu aveva negoziato un cessate il fuoco, la popolazione si illuse di poter tirare il fiato e noi bambini uscimmo a giocare a calcio nel cortile della scuola – ricorda – ma all’improvviso dalle montagne circostanti iniziarono a piovere granate sulla città. Una colpì in pieno il campo da gioco ed esplose a pochi metri da me”. Quel giorno Hasan si salvò per miracolo ma vide morire quattordici suoi compagni di scuola. La mattanza che si sarebbe compiuta due anni più tardi segnò anche il fallimento della comunità internazionale, come ricorda anche la mostra fotografica allestita nei locali dell’ex base Onu di Potocari. Con le 35 sepolture previste quest’anno, il totale delle inumazioni supererà quota 6800 ma il lungo processo per ridare un’identità ai resti delle vittime prosegue, anche perché i boschi intorno a Srebrenica continuano a restituire le ossa sepolte nelle fosse comuni. Dragana Vucetic, antropologa forense del centro di ricerca sulle persone scomparse di Tuzla, confema che sono circa un migliaio di vittime che restano ancora da identificare.
RM

Srebrenica avrà un sindaco serbo

Avvenire, 6.10.2016

Nella foto: Mladen Grujicic
Nella foto: Mladen Grujicic

A meno di clamorosi colpi di scena, la città martire di Srebrenica avrà un sindaco serbo per la prima volta dal genocidio del 1995. Alle elezioni amministrative di domenica scorsa il 34enne Mladen Grujicic, candidato dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd) guidata dal leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, ha ottenuto circa il 70% battendo il sindaco uscente, il musulmano Camil Durakovic, che ha però chiesto il riconteggio dei voti. La commissione elettorale centrale ha stabilito che in alcuni seggi lo spoglio deve essere ripetuto, ma per avere un risultato definitivo si dovrà aspettare anche lo scrutinio dei voti a distanza che potrebbero ribaltare l’esito delle urne. La giornata elettorale si è svolta in un clima di tensione alla presenza di ingenti forze di polizia che hanno presidiato la cittadina per evitare scontri tra le opposte fazioni. Le Madri di Srebrenica contestano l’elezione del candidato serbo accusandolo di negazionismo. Grujicic, da parte sua, ha garantito che le commemorazioni dell’anniversario del genocidio continueranno a essere organizzate, e anche il presidente serbo Tomislav Nikolic ha affermato da Belgrado che l’elezione di Grujicic “non significherebbe l’oblio dei crimini commessi dai serbi a Srebrenica”. Le elezioni hanno visto la vittoria dei nazionalisti in tutto il paese: il Snsd di Dodik si è confermato primo partito nella Repubblica Srpska, il partito di azione democratica (Sda) di Bakir Izetbegovic ha prevalso invece nella Federazione croato-musulmana. Il municipio del centro di Sarajevo avrà per la prima volta una giunta guidata dai democratici musulmani, mentre nella cittadina nordoccidentale di Velika Kladusa è stato eletto sindaco Fikret Abdic, già condannato a 20 anni di carcere per crimini di guerra. La coalizione di Ong “Pod Ludom” ha denunciato numerose irregolarità e tentativi di corruzione dei commissari elettorali, definendolo “il voto più violento degli ultimi dieci anni”. L’incidente più grave si è verificato a Stolac, dove le procedure di votazione sono state sospese in seguito all’aggressione del presidente della Commissione elettorale locale da parte del candidato sindaco dell’Sda, Salmir Kaplan.
RM

“Nessuno scambio tra Srebrenica e Sarajevo”

Nel ventennale del genocidio di Srebrenica l’ex generale Jovan Divjak, eroe della resistenza di Sarajevo, ribadisce l’assenza di un accordo per far finire l’assedio.

Da “Avvenire” di oggi

“Srebrenica e tanti altri massacri avvenuti in Bosnia vent’anni fa rappresentano una ferita aperta che temo non si rimarginerà mai. Non avremo verità, giustizia e riconciliazione finché ci saranno tre versioni diverse della stessa storia, una croata, una serba e una bosniaca. Oggi ai giovani serbi non viene raccontato il genocidio ma solo i bombardamenti Nato su Belgrado”. Quella mattanza travestita da guerra, il generale Jovan Divjak l’ha vissuta in prima persona e continua a sentirla ogni giorno sulla propria pelle. Lui che, serbo, si trovò a difendere Sarajevo durante un assedio durato quasi quattro anni, che causò oltre diecimila morti. divjak-1_376234S1Nel 2006, per il lavoro svolto da allora con gli orfani di guerra, è stato nominato ambasciatore universale di pace. In città lo considerano tutti un eroe eppure molti, in Serbia, continuano a definirlo un disertore. “Ero comandante della difesa territoriale della Bosnia-Erzegovina – ci dice oggi, a margine delle celebrazioni del ventennale di Srebrenica – ho fatto solo il mio dovere, quello che mi era stato insegnato, cioè aiutare gli indifesi. Per questo, quando è iniziata la guerra, sono rimasto dalla parte dei più deboli, cioè dei civili”. Davanti ai suoi occhi, ancora oggi, ci sono quei giorni terribili d’inizio luglio del 1995: “Nessuno poteva prevedere una tragedia di quella entità. Srebrenica era isolata dal mondo, il nostro stato maggiore riusciva a comunicare con l’area solo un paio di volte al giorno, grazie ai radioamatori locali. Il 6 luglio i serbi cominciarono a bombardare la cittadina e le fragili linee difensive caddero una dopo l’altra. I 400 caschi blu olandesi che dovevano difenderla abbandonarono le loro postazioni, e migliaia di uomini di Srebrenica cercarono di fuggire attraverso i boschi per raggiungere la vicina città di Tuzla. Gran parte di loro furono uccisi dai serbi con bombe e armi leggere. Trentamila civili inermi si ammassarono nella vicina base Onu di Potocari, dove i serbi risparmiarono gran parte delle donne, dei vecchi e dei bambini. Ma uccisero tutti gli altri”. Da allora, c’è chi continua a sostenere che l’esercito bosniaco abbia abbandonato le enclave orientali – tra cui Srebrenica – per ottenere in cambio la fine dell’assedio di Sarajevo. Una tesi che Divjak respinge senza mezzi termini: “No, questo è inaccettabile, la colpa di quanto è accaduto è delle truppe di Mladic, il problema fu semmai che l’esercito e il governo della Bosnia non fecero niente per difendere Srebrenica. Ed era semplicemente folle pensare che un piccolo contingente di caschi blu potesse proteggere un’area che era stata completamente smilitarizzata. La difesa della cittadina disponeva solo di un paio di carri armati e di qualche mortaio ma era totalmente priva di artiglieria pesante”.
Da quei giorni, Divjak ha smesso d’indossare la divisa. Dalla fine della guerra dirige l’associazione locale Obrazovanje Gradi BiH (L’educazione costruisce la Bosnia), che difende il diritto all’istruzione dei più giovani fornendo borse di studio a bambini e ragazzi che non hanno risorse sufficienti per continuare gli studi. “Sono stato bambino anch’io dopo la Seconda guerra mondiale – ci spiega – e sapevo bene che si sarebbero ripresentati di nuovo gli stessi problemi con i profughi, gli invalidi, gli orfani. E che i primi da aiutare sarebbero stati i bambini”.
La sua disillusione sull’efficacia dell’operato delle Nazioni Unite risale a due decenni fa e poggia su basi molto solide, non può quindi stupirlo la notizia della risoluzione su Srebrenica bocciata tre giorni fa dal Consiglio di sicurezza a causa del veto russo. “Niente di nuovo – conclude con un sospiro – ma quello che servirebbe, più degli atti dei governi, sarebbe un impegno duraturo per sconfiggere tutti i nazionalismi”.
RM

Srebrenica, la memoria contesa

Non c’è pace per Srebrenica: la fragile memoria dell’ultimo genocidio del XX secolo rischia di essere distorta proprio alla vigilia del suo ventesimo anniversario, in programma l’anno prossimo. A lanciare il grido dall’allarme sono le associazioni dei familiari delle vittime, che denunciano il progetto di ampliamento del memoriale di Potočari, il luogo dove ogni anno si tengono in luglio le commemorazioni del massacro e le tumulazioni delle nuove vittime identificate grazie al lavoro degli antropologi forensi. Il progetto prevede il restauro della vecchia fabbrica di accumulatori che in quella drammatica estate del 1995 ospitava il quartiere generale del Dutchbat, il battaglione Onu olandese che fallì nel compito di proteggere l’enclave. La cittadina che avrebbe dovuto essere protetta dalle truppe di peacekeeping fu presa dalle milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladić, che in pochi giorni massacrarono oltre ottomila uomini, anziani, bambini e adolescenti, gettandone i resti in decine di fosse comuni.

2670915671_64747739d6_mLa nostra galleria fotografica

A finanziare la ricostruzione dell’edificio sarà il governo dell’Aja – recentemente condannato per quei fatti –, che allestirà al suo interno un’esposizione permanente sulla presenza internazionale a Srebrenica nel periodo tra il 1993 e il 1995. Sono previste mostre fotografiche e percorsi guidati realizzati in collaborazione con gli esperti del campo di Westerbork, l’ex lager aperto dai nazisti su territorio olandese durante la Seconda guerra mondiale e trasformato in monumento nazionale negli anni ’70. Per la prima volta saranno raccolte a Potočari anche le testimonianze dei soldati olandesi, che andranno a integrare le storie dei sopravvissuti e avranno dunque un ruolo attivo nel ricostruire la memoria di quei fatti. Non era difficile immaginare che ciò sarebbe stato inevitabilmente motivo di controversia. I rassicuranti opuscoli informativi ufficiali del progetto sottolineano che “spesso gli ex caschi blu olandesi si sentono ignorati. Anche se i sopravvissuti possono avere una diversa visione riguardo a determinati eventi, gran parte di loro è convinta che le storie e le informazioni dei veterani del Dutchbat siano importanti per ottenere una ricostruzione completa di quanto avvenne a Srebrenica”. Ampio spazio – assicura lo stesso opuscolo – sarà quindi riservato “al rapporto particolare che si è sviluppato tra l’Olanda e Srebrenica dopo il 1995”. Forse non è corretto affermare che sia in atto un tentativo di revisionismo, ma di sicuro ce n’è abbastanza per suscitare più di una perplessità e far sentire puzza di bruciato alle associazioni delle vittime. L’obiettivo dichiarato dal progetto, cioè quello di costruire una narrativa comune sulla caduta dell’enclave, rischia viceversa di aprire la strada a un’improvvida e inopportuna riabilitazione postuma del ruolo dei caschi blu. D’altra parte, il pessimo operato delle truppe giunte in Bosnia dai Paesi Bassi ebbe fin da subito conseguenze catastrofiche sulla politica e sull’opinione pubblica: nel 2002 il governo olandese fu costretto alle dimissioni da un’inchiesta che provò le responsabilità del proprio battaglione durante il conflitto; subito dopo si dimise anche il comandante delle forze armate, mentre molti veterani erano già da tempo finiti in cura dagli psicologi a causa dei traumi e dei sensi di colpa dovuti alle conseguenze della caduta dell’enclave. Fino alla sentenza del luglio scorso, con la quale il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto “civilmente responsabile” lo stato olandese di quel massacro, condannandolo al risarcimento materiale dei danni nei confronti dei congiunti delle vittime. Era dunque inevitabile che alcune settimane fa, in occasione della presentazione ufficiale del progetto di ampliamento del memoriale(che prevede anche il restauro di due delle torri di controllo dell’ex fabbrica di Potočari), i familiari ribadissero che non ci sarà mai spazio per altre interpretazioni su quanto accadde diciannove anni fa, mentre il conflitto in Bosnia si avviava a una difficile conclusione. Munira Subasic, storica portavoce delle Madri di Srebrenica, ha fatto sapere che non sarà ammessa alcuna rilettura, neanche parziale, del ruolo svolto dai caschi blu e dal governo olandese e che i familiari delle vittime rivendicheranno sempre il diritto di essere gli unici supervisori del progetto. Il fatto che l’ennesima fossa comune della zona sia stata scoperta proprio all’interno del quartier generale del Dutchbat, di certo, non aiuta.
RM

Bratunac, ovvero, il giorno dopo

di Azra Nuhefendić

L’11 luglio è stato commemorato il genocidio di Srebrenica, al Memoriale di Potočari. Il giorno dopo, a pochi chilometri di distanza, i nazionalisti serbi hanno commemorato le “loro vittime”. Quando il negazionismo rischia di cancellare la storia.

Fino a un paio d’anni fa, la “cerimonia” si consumava con oltraggiosi cortei di nazionalisti locali e “colleghi” che venivano dalla Serbia e dal Montenegro. Marciando nel centro di Srebrenica, vestiti con maglie che portavano stampati i volti dei criminali massacratori Ratko Mladić e Radovan Karadžić, i fieri nazionalisti sventolavano le bandiere nere dei cetnici ed esibivano poster con l’infame scritta/minaccia: “Nož-žica-Srebrenica” (coltello-filo spinato-Srebrenica). La commemorazione si concludeva con una sagra svolta tra fiumi di birra, rakija (la grappa dei Balcani), maiali allo spiedo e gare sportive. L’obiettivo era umiliare i sopravvissuti al genocidio, facendo capire alle vittime che i colpevoli non erano pentiti delle atrocità commesse e, anzi, si consideravano padroni della terra in cui fecero pulizia etnica.
Negli ultimi anni, il programma della cerimonia è cambiato. Oggi viene tenuta nel cimitero militare, costruito nella città di Bratunac – a soli 11 chilometri dal Centro Memoriale di Potočari – dove sono sepolte le vittime del genocidio. Le autorità serbo-bosniache asseriscono che, nel cimitero militare di Bratunac, siano sepolti più di 3500 serbi, “vittime di terroristi musulmani. “Se si dovesse parlare di genocidio, il posto giusto sarebbe questo”, disse il presidente della RS Milorad Dodik, un paio d’anni fa, durante la commemorazione.

Negare il genocidio
Di questa cerimonia, è contestabile quasi tutto: il numero di vittime, la data di commemorazione, il luogo, i messaggi mandati da chi si riunisce. La “rievocazione” a Bratunac, fa parte di una lunga campagna indetta dai nazionalisti serbi che ha lo scopo di negare il genocidio e alleggerire i loro crimini, giustificandoli con presunte vittime serbe. Così, riaggiustano la storia, distorcono i fatti, tentano di presentare i difensori di Srebrenica come aggressori, manipolando l’opinione pubblica. Il nodo centrale dei tentativi di negare il genocidio è l’argomentazione che l’offensiva serba venne provocata da attacchi musulmano-bosniaci, da Srebrenica, contro i villaggi serbi vicini.
Tali conclusioni sugli eventi che precedettero il genocidio di Srebrenica non stanno in piedi. Sono tentativi di presentare assediati e vittime quali aggressori. Srebrenica fu sotto assedio per tre anni e mezzo e venne bombardata dai villaggi serbi vicini pesantemente militarizzati. Durante l’assedio, gli abitanti della cittadina vivevano in condizioni disumane, esposti ogni giorno a bombardamenti e spari da parte dei cecchini cetnici. L’ex ambasciatore alle Nazioni Unite, Diego Arria, che guidò la delegazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu a Srebrenica – nell’aprile 1993 – descrisse la situazione quale un “processo di slow motion genocida”.
Nella relazione delle Nazioni Unite sulla condotta dei musulmani nella Srebrenica dell’epoca, si afferma che, “da un punto di vista militare, gli attacchi non ebbero rilevanza e vennero eseguiti da persone in cerca di cibo”, poiché le forze serbe impedirono ogni accesso ai convogli umanitari e, di conseguenza, la popolazione versò in stato di fame e freddo”. Anche le fonti serbe che parteciparono alla compilazione del documento, confermarono che “le operazioni (dei musulmani, ndr) non rappresentarono alcuna minaccia”. In aggiunta, la “difesa per necessità”, come nel caso di Srebrenica, è riconosciuta come principio consolidato nel diritto internazionale. Continua a leggere “Bratunac, ovvero, il giorno dopo”

La sepoltura dei morti di Srebrenica

Srebrenica, BosniaDue giorni fa migliaia di persone si sono radunate lungo le strade di Sarajevo, in Bosnia, per assistere al passaggio di tre mezzi che trasportavano i resti di 409 persone morte nella strage di Srebrenica, nel 1995, e identificate negli ultimi dodici mesi. Le bare erano dirette al piccolo comune di Potocari, vicino al luogo della strage, dove giovedì 11 luglio si terrà – nel 18esimo anniversario della strage – l’annuale cerimonia di sepoltura dei cadaveri identificati nel corso dell’anno.
La riesumazione e l’identificazione dei morti nella strage di Srebrenica negli anni Novanta dal Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia, ma negli ultimi anni è passata sotto la responsabilità delle autorità bosniache. Le fosse comuni in cui vennero sepolti i morti di Srebrenica dai serbo-bosniaci sono numerose e sparse per tutto il territorio circostante al paesino. In alcuni casi, nel tentativo di nascondere l’entità della strage e le responsabilità, gli autori del massacro scavarono nuove fosse in cui trasferirono parte dei morti, complicando ulteriormente le procedure di ritrovamento e identificazione.

Galleria fotografica: la cerimonia del 2008

Le prime identificazioni, alla fine degli anni Novanta, vennero effettuate con una procedura lenta e piuttosto inaccurata: gli effetti personali trovati nelle fosse comuni venivano fotografati e le immagini venivano poi fatte circolare in volumi tra le comunità locali. Se qualcuno pensava di poter associare un oggetto a un suo parente, veniva effettuato un test del DNA per cercare di stabilire l’identità. Solo nel 15 per cento dei casi si otteneva però un’identificazione sicura.
La svolta è arrivata a partire dal 2001, con i test del DNA computerizzati. Gran parte del lavoro di identificazione si svolge oggi nelle due strutture di Tuzla (alcune decine di chilometri a nordovest di Srebrenica) della Commissione Internazionale per le Persone Scomparse, creata nel 1996, un’organizzazione internazionale che si occupa tra le altre cose delle molte migliaia di corpi da identificare nella guerra combattuta in Bosnia. Nel Centro per il coordinamento dell’identificazione, una quindicina di antropologi bosniaci e stranieri, insieme a diversi tecnici, lavorano sui resti dei corpi, prelevando DNA e confrontandolo con circa 90 mila campioni di parenti di persone scomparse.
In totale, il laboratorio di Tuzla ha contribuito a identificare i resti di circa 14 mila persone morte nella guerra in Bosnia: di queste, 6.877 sono state uccise nella strage di Srebrenica. Il numero dei morti nella strage è stimato intorno a 8.100 persone.
Nel 1995, a Srebrenica, le forze militari serbo-bosniache guidate da Ratko Mladic organizzarono il massacro di migliaia di musulmani bosniaci. All’epoca era in corso la guerra di Jugoslavia e la zona di Srebrenica era sotto la tutela delle Nazioni Unite, presenti con tre compagnie olandesi di caschi blu. L’area era diventata protetta a partire dal 1993, in seguito a un’offensiva serba che aveva indotto le forze bosniache a ritirarsi e lasciare il controllo all’ONU. L’attacco delle forze guidate da Mladic iniziò il 9 luglio e due giorni dopo le truppe serbo-bosniache entrarono in città. Dopo aver separato gli uomini adulti dalle donne, dai bambini e dagli anziani, iniziò il massacro che portò all’uccisione di oltre 8 mila persone. Le forze dell’ONU non intervennero per ragioni che non sono mai state chiarite fino in fondo. Secondo la versione ufficiale, i 600 caschi blu nella zona non erano preparati e armati a sufficienza per affrontare le forze serbo-bosniache.

Srebrenica, il negazionismo e l’ignavia

“Srebrenica? In Serbia non ho sentito nessuno definirlo genocidio, e non l’ho fatto neanch’io”. Alla vigilia del suo viaggio istituzionale in Italia, il neopremier serbo Tomislav Nikolic non rinnega il suo nazionalismo e non si vergogna affatto di esporre all’anestetizzata giornalista del Corriere della Sera le sue tesi negazioniste sul peggiore crimine contro l’umanità compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Personalmente non smetto mai di stupirmi di fronte all’ignavia di quello che viene considerato il più autorevole quotidiano italiano, incapace di ricordare, come sarebbe doveroso in un’occasione come questa, che quanto accaduto a Srebrenica nel luglio 1995 è stato riconosciuto come genocidio dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e dalla Corte internazionale di giustizia.

Riportiamo sotto la replica inviata dalla giornalista bosniaca Azra Nuhefendic al Corriere, che per il momento non è stata pubblicata…

Gentile Direttore,

Riguardo all’intervista con il presidente serbo Tomislav Nikolic, pubblicata dal Corriere della Sera, volevo informarvi che, secondo il Tribunale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, a Srebrenica è stato compiuto un genocidio vero e proprio e non, come afferma Nikolic, un “crimine … compiuto da alcune singole persone appartenenti al popolo serbo”.
Il Parlamento Europeo ha proclamato l’11 luglio Giornata della memoria con una risoluzione in cui afferma che il genocidio di Srebrenica è stato il maggior crimine di guerra perpetrato in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale
Il signor Nikolic può dire quello che vuole, ma per un’informazione completa e accurata la giornalista (e il vostro quotidiano) doveva informare i lettori e porre l’accento che si trattava dell’opinione di Nikolic e che questa sua opinione contraddice quanto appurato dal Tribunale dell’Aja. Per questo credo che il titolo o sottotitolo accurato dell’intervista sarebbe: “Nikolic nega il genocidio”.
C’è una differenza sostanziale tra i termini “genocidio” e “crimine”, e Tomislav Nikolic né è ben consapevole. Basta leggere i titoli dei giornali, le agenzie e i portali web, che ripetono le sue parole: “A Srebrenica non c’è stato genocidio”.
Secondo la definizione adottata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, costituiscono genocidio “gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, razziale o religioso. Ed è proprio quello che i serbi hanno fatto a Srebrenica, secondo il Tribunale dell’Aja.
Contrariamente a quanto sostenuto nell’intervista da T. Nikolic, vari politici serbi sono stati processati/condannati per il genocidio di Srebrenica, tra gli altri l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic che, secondo l’imputazione dell’Aja, “ha partecipato a un’organizzazione criminale il cui scopo era il trasferimento forzato e permanente fuori dalla Bosnia Erzegovina dei non serbi”.
Il genocidio non è una cosa spontanea, ma ben organizzata. Ad esempio, per trasportare i bosniaci nei posti dell’esecuzione sono stati utilizzati gli autobus pervenuti dalla Serbia, e i musulmani bosniaci sono stati fucilati con le pallottole prodotte nella “Zastava” di Kragujevac, tutto affermato preso Tribunale di Aja.
Attualmente all’Aja è sotto processo il generale Ratko Mladic, e l’ex presidente dei serbi bosniaci Radovan Karadjic, entrambi accusati per il genocidio di Srebrenica.
Quando T. Nikolic dice che a Srebrenica è stato commesso un crimine non fa altro che negare il genocidio, e la negazione è l’ultima fase del genocidio.
Azra Nuhefendic

Bosnia, l’oblio dopo gli stupri

di Riccardo Noury, Amnesty International sezione italiana

L. (non è il suo vero nome) viveva a Zvornik, nella Bosnia ed Erzegovina nordorientale. Quando nel 1992 scoppiò la guerra dei Balcani, aveva un figlio di un anno ed era incinta del secondo. Suo marito era in Croazia, aveva trovato lavoro lì. Quando Zvornik venne invasa dai paramilitari serbi, L. riuscì a fuggire e si nascose nei boschi per mesi, insieme ad altri abitanti. Nel gennaio 1993, i profughi di Zvornik uscirono dai loro rifugi per andare verso Tuzla in cerca di cibo e riparo: l’inverno era impossibile.  Durante il tragitto, L. e suo figlio rimasero separati dagli altri. Perse i sensi per lo sfinimento. Si risvegliò in un ospedale di Zvornik, circondata da soldati serbi. Le dissero che suo figlio era morto. Incinta all’ottavo mese, la torturarono fino a farle perdere il secondo figlio che aveva in grembo. I serbi prelevarono L. dall’ospedale e la fecero passare per tre diversi centri di prigionia dalle parti di Zvornik e di Bijeljina, dove venne stuprata più volte.  La foto mostra un monumento fatto in uno dei villaggi della zona di Zvornik, per ricordare le oltre 120 donne che, con L., vennero stuprate; 27 di loro furono assassinate. Alla fine L.  fu liberata, in uno scambio di prigionieri. Riuscì ad arrivare a Tuzla, dove rincontrò suo marito.
Finita la guerra, la coppia ha avuto due figli. L. sta male, la sua salute fisica e quella mentale sono compromesse e, ciò nonostante, è lei a occuparsi dei figli, del marito e dei suoceri. A quasi 17 anni dagli accordi di Dayton, che hanno posto fine al conflitto balcanico, L. e altre centinaia di donne della Bosnia ed Erzegovina continuano a convivere con le conseguenze dello stupro e della tortura, senza avere un’assistenza medica e psicologica adeguata, per non parlare di un sussidio economico. Continua a leggere “Bosnia, l’oblio dopo gli stupri”