Stalin pianificò il genocidio in Ucraina

Avvenire, 21.12.2017

Washington, il memoriale all’Holodomor

Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow, uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ‘30. Da allora il dibattito storiografico ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause scatenanti di quella carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla ‘un atto di genocidio’, con le implicazioni politiche che ne deriverebbero. Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dalla strenua opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini – alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ‘90 -, nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.
Com’è già stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di “spezzare la schiena alla classe contadina”, e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan. Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti – come racconta Applebaum – affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanoff. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina – essenzialmente conservatrice e anti-comunista – non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ‘20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano nelle case e nelle fattorie, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga della popolazione. Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Unione Sovietica non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini.
Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche soltanto di una buccia di patata era passato per le armi. Applebaum spiega che la carestia non fu causata direttamente dalla collettivizzazione ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, nonché delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare. Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma poi su tutti gli aspetti storiografici e politici della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a questa tragedia, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che per decenni hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e infine manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono neanche di provare a raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del Christian Science Monitor scrisse che i cronisti stranieri “lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa”. Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la Convenzione sul genocidio. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.
RM

Ucraina, il genocidio nascosto

Da “Avvenire” di oggi

La collettivizzazione forzata delle campagne voluta da Stalin all’inizio degli anni ’30 fu la pagina più nera del comunismo sovietico: causò milioni di morti ed è ancora oggi alla radice del risentimento degli ucraini nei confronti di Mosca. Un’immane tragedia della quale l’opinione pubblica internazionale, anche in Occidente, fu tenuta all’oscuro fino a non molto tempo fa, anche grazie alla colpevole complicità di intellettuali come lo storico Edward Carr, l’economista John Kenneth Galbraith, la scrittrice Simone De Beauvoir, il giornalista premio Pulitzer William Duranty. Persino il premio Nobel russo Alexander Solzhenitsyn, grande accusatore degli orrori del regime staliniano, negò che gli ucraini fossero stati vittime di un genocidio fino a definire le loro rivendicazioni un atto di revisionismo storico. Il tragico capitolo della fame e della carestia (Holodomor) che portò allo sterminio della popolazione contadina in Ucraina è stato quasi ignorato dagli storici fino al 1986, quando l’inglese Robert Conquest riuscì finalmente a dare alle stampe il suo epocale Harvest of Sorrow (Raccolto di dolore). Morto il 3 agosto scorso all’età di 98 anni, Conquest è stato il primo storico occidentale a svelare nel dettaglio il dramma della carestia orchestrata da Stalin – che causò la morte di milioni di contadini ucraini – e a definirla un atto di genocidio. holodomor_v1Ma la strenua opposizione della Russia ha finora impedito alle Nazioni Unite di riconoscerlo ufficialmente come tale, mentre gli storici continuano a dividersi sulle cause scatenanti di quella carestia. Un contributo fondamentale al dibattito storiografico arriva adesso dal lavoro di uno storico italiano, Ettore Cinnella, considerato uno dei massimi esperti di storia russa in Italia, che ha recentemente dato alle stampe il libro Ucraina: il genocidio dimenticato 1932-1933 (Della Porta editori). Approfondendo la documentazione emersa dopo il crollo dell’Urss nell’Archivio centrale di Mosca, Cinnella è stato in grado di ricostruire quei drammatici avvenimenti e di far emergere la verità sul più terribile dei crimini di Stalin.
Professor Cinnella, perché la tragedia che si consumò in Ucraina oltre ottant’anni fa può essere definita genocidio?
C’è ormai un consenso abbastanza vasto sul fatto che fu un genocidio sociale, cioè un tentativo di sterminare buona parte del mondo contadino sovietico, quindi anche i russi. Ma io ritengo che ci fu anche un altro tipo di genocidio, ovvero il tentativo di distruggere il carattere nazionale del popolo ucraino. Si vollero punire i contadini, dar loro una lezione memorabile per costringerli a riconoscere la collettivizzazione delle terre che li rendeva di fatto servi della gleba. Quando questi si ribellarono, si tentò anche di violentarli dal punto di vista della loro identità, attraverso un attacco deliberato alla loro chiesa e alla loro religione. Mi sono soffermato molto sull’aspetto delle persecuzioni antireligiose, della sconsacrazione e della distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava l’identità dei villaggi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale, ma non l’unico: fu attaccata anche l’intellighenzia del paese col chiaro intento di cancellare la sua memoria storica, soprattutto i maestri di scuola e la chiesa autocefala che era allora indipendente da Mosca. Furono poi colpiti anche i comunisti ucraini che sognavano una via ucraina al socialismo cercando uno sviluppo autonomo da Mosca. Mettendo insieme tutti questi tasselli, considerando che ci fu la volontà deliberata di ridimensionare e reprimere questo popolo, ritengo che sia lecito parlare di genocidio.
Perché la tragedia ucraina è stata a lungo oggetto di una vera e propria congiura del silenzio?
Perché fu un crimine gigantesco e inaudito, che bisognava nascondere a tutti i costi. Stalin e lo stato sovietico fecero di tutto – riuscendoci – per silenziare tutto. Cosa si sarebbe detto se si fosse saputo che Mosca faceva morire di fame deliberatamente milioni e milioni di contadini? Il quadro generale e anche alcuni dettagli erano abbastanza noti ma per ragioni diplomatiche si preferì tacere per mantenere buoni rapporti con l’Urss o per altri motivi.
Tutta l’opinione pubblica internazionale di sinistra che era infatuata dell’Urss scelse di tacere e dopo la guerra fu anche peggio, perché Stalin era uno dei grandi vincitori del secondo conflitto mondiale. Il silenzio durò a lungo, fino a Gorbaciov, perché anche Kruscev tra i crimini di Stalin si limitò a denunciare le purghe all’interno del partito comunista. Se si fosse saputo che i contadini sovietici erano stati lasciati morire di fame, il mito dell’Urss sarebbe crollato miseramente.
Ancora oggi i russi faticano a riconoscere appieno quello che accadde. Perché addirittura un personaggio come Solzhenitsyn negò le rivendicazioni degli ucraini?
È una conseguenza della grande forza dell’imperialismo culturale russo, non solo quello geopolitico, ma anche quello della tradizione e delle leggende russe. Non a caso si continua a credere che Kiev sia la culla della civiltà russa mentre invece fu la culla della civiltà degli slavi orientali. La storia della Russia è tutta avvolta nella leggenda. L’idea che la civiltà sia trasmigrata da Kiev a Mosca, che si è poi ripresa Kiev, è priva di fondamento. Da sempre in Russia si costruiscono leggende per giustificare un certo atteggiamento a fini di dominio. L’imperialismo culturale russo ha avuto tanti seguaci, e Solzhenitsyn era uno di quelli.
Qual è oggi la percezione del popolo ucraino nei confronti dell’Holodomor?
È un tragico simbolo dell’identità nazionale. È stato un processo faticoso e complesso che è poi sfociato in modo grandioso alla fine dello stato sovietico con la scoperta di questa terribile tragedia.
Il rancore degli ucraini nei confronti di Mosca è sopravvissuto anche alla fine del comunismo?
Sì, il risentimento nei confronti di Mosca non è mai svanito. Esiste una mole imponente di storie, memorie e ricordi di villaggi scomparsi che spiega bene perché gli ucraini non possono più stare con i russi. Potrebbero riconciliarsi solo se i russi ammettessero di avere sbagliato e di essere stati anche loro vittime di un’immane tragedia e di un regime mostruoso, e cercassero quindi il modo di andare avanti insieme. Ma un’unico stato non è più concepibile perché sono due mondi e due realtà diverse, che potranno collaborare soltanto se entrambi lo vorranno.
RM

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