Pristavkin, una penna per i diritti umani

Avvenire, 10.11.2018

Nessuno scrittore è stato capace di rappresentare la storia recente della Russia con il crudo realismo di Anatolij Pristavkin, la cui vicenda personale è stata anche un barometro dei mutamenti politici in atto nel suo paese negli ultimi cinquant’anni. Romanziere prolifico e di successo ma anche instancabile attivista per i diritti umani, se n’è andato nel 2008, dopo aver ottenuto risultati straordinari nella lotta per l’abolizione della pena di morte. Negli anni del Secondo conflitto mondiale, come tanti orfani di quella che era allora l’Unione Sovietica fu costretto a trascorrere un’infanzia e una giovinezza fatte di lavoro, stenti e paura. Da bambino finì persino in carcere perché la fame l’aveva spinto a rubare un cesto di verdure.

Anatolij Pristavkin

Nato nel 1931 in una famiglia poverissima dei bassifondi di Mosca, rimase senza genitori a undici anni e fu mandato a lavorare in una fabbrica di conservazione di cibi in scatola. Più tardi, nel suo romanzo di maggior successo, avrebbe cercato di restituire una dimensione letteraria a quell’esperienza: “l’unica cosa che potevamo definire ‘nostra’ – scrisse – eravamo noi stessi e le nostre gambe, sempre pronte a correre via nel caso succedesse qualcosa. E anche le nostre anime, sebbene tutti ci ripetessero che non le avevamo”. Quel romanzo è Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso, che l’editore Guerini ha appena fatto uscire nella sua nuova collana “Narrare la memoria” con la traduzione e la curatela di Patrizia Deotto, colmando un vuoto significativo del panorama editoriale italiano. Un’opera già tradotta in trenta lingue, che Pristavkin terminò nel 1981 ma poté vedere pubblicata soltanto alcuni anni più tardi, nel pieno della Perestrojka, e che racconta con toni autobiografici la vita dei cosiddetti besprizornye, le centinaia di migliaia di bambini e ragazzi senza casa e senza famiglia, abbandonati “come foglie secche, che andavano dove li portava il vento” dopo gli anni della guerra civile, delle carestie, delle epidemie e della collettivizzazione forzata. La storia, sulle orme di Puškin e Tolstoj, è piena di riferimenti ai classici russi e prende forma durante l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, quando una colonia di orfani viene evacuata da Mosca e trasferita nel Caucaso, “una terra dove regna un silenzio profondo, interrotto di tanto in tanto dall’eco di spari ed esplosioni”. I protagonisti sono due gemelli di undici anni, Saska and Kol’ka, davvero inseparabili come recita il titolo e soprattutto costantemente alla ricerca di un modo per contrastare i morsi della fame. Insieme a tanti altri bambini e ragazzi i due fratelli vengono mandati in Cecenia, in un villaggio dove la popolazione è stata appena deportata verso la Siberia con l’accusa – falsa – di collaborazionismo con il nemico nazista. È una pagina crudele e poco conosciuta della storia sovietica, segnata dalla xenofobia e dalle tensioni inter-etniche, nella quale spicca il contrasto tra il mondo scintillante promesso dalla propaganda staliniana e le reali condizioni di vita dei piccoli protagonisti. Orrori che sono spesso stemperati dal senso di leggerezza, talvolta persino dagli spunti di ironia, di una narrazione che non può che sfociare in un finale tragico.
Quasi tutti i ventisei romanzi che hanno solcato l’intensa attività di Anatolij Pristavkin portano i segni della povertà e della disperazione che lo scrittore originario dei dintorni di Mosca visse sulla propria pelle in gioventù, prima manovale poi operaio della centrale elettrica di Bratsk, in Siberia. Il completamento degli studi e i primi successi letterari non gli fecero mai dimenticare quel mondo e la necessità di impegnarsi a fondo per i diritti umani e la giustizia sociale. Nella seconda metà degli anni ‘50, quando Kruscev iniziò a denunciare i crimini di Stalin, Pristavkin aveva già pubblicato i suoi primi scritti e cominciò ad assumere anche un ruolo pubblico, schierandosi apertamente contro il culto della personalità. Un impegno che di lì a poco lo vedrà diventare il capofila di una nuova élite letteraria che non teme di chiedere l’abolizione della pena di morte in uno dei paesi col più elevato numero di condanne eseguite. Nei giorni della caduta del regime sovietico è alla testa del Comitato di Aprile, un gruppo di cinquecento intellettuali desiderosi di promuovere la democrazia e decisi a sfidare il monolitismo del sindacato degli scrittori. Nel novembre 1989 è a Berlino per partecipare alle grandi manifestazioni che precedono la caduta del Muro, in seguito prende posizione a favore dell’indipendenza delle Repubbliche Baltiche. Ma la vera svolta si compie nel 1991, quando Boris Yeltsin lo chiama a presiedere la Commissione per la Grazia. Per la prima volta giuristi e intellettuali sono incaricati di esaminare le richieste di clemenza dei condannati a morte. Pristavkin decide che da allora in poi la Commissione svolgerà le sue sedute nella stanza dove un tempo i funzionari del Cremlino emettevano le condanne a morte. Sui muri dell’ufficio fa attaccare i disegni della figlia tredicenne e ogni settimana riunisce i quindici membri intorno a un tavolo e a una bottiglia di vodka per esaminare una decina di casi di condanne a morte. Vuole educare un’opinione pubblica che è ancora largamente favorevole alla pena capitale e chiede sempre, anche di fronte ai delitti più efferati, almeno la commutazione della condanna nel carcere a vita. Definisce il suo lavoro “una goccia in un oceano di crudeltà” ma a partire dal 1993 riesce a far diminuire in modo esponenziale il numero di esecuzioni, fino a ridurle ad appena una decina l’anno. In precedenza non erano state mai meno di duecento, con punte massime annuali fino a cinquecento. Durante il suo mandato alla guida della Commissione salva così dal patibolo migliaia di condannati a morte. Il sogno abolizionista si interrompe però bruscamente con l’arrivo di Putin: la Commissione viene prima ostacolata – sostenendo che un suo presunto effetto controproducente sui criminali -, poi delegittimata e infine sostituita nel 2001 con decine di piccole commissioni regionali dagli scarsi poteri. Curiosamente sarà lo stesso Putin a ricordare la “dignità morale” e i “grandi ideali” di Anatolij Pristavkin, nel giorno della sua morte.
RM

Nessuno tocchi la Cina. Atene fa infuriare l’UE

Da Il Venerdì di Repubblica, 7.7.2017

Ennesima battuta d’arresto per il “soft power” dell’Unione europea. Stavolta la diplomazia culturale di Bruxelles si è inceppata persino sul tema dei diritti umani, non riuscendo a trovare l’unanimità neanche per condannare le gravi violazioni del governo cinese. Per la prima volta, la dichiarazione che l’UE presenta periodicamente alle Nazioni Unite per evidenziare gli abusi degli stati di tutto il mondo – e che necessita del sì dei 28 membri dell’Unione – è stata bloccata dall’inaspettato veto della Grecia. Da alcuni anni Bruxelles ha iniziato a fare pressioni su Pechino denunciando il giro di vite nei confronti di avvocati, attivisti e giornalisti critici verso il regime. Amnesty international e le altre organizzazioni in difesa dei diritti umani criticano invece la Cina da sempre, denunciando apertamente la repressione di ogni forma di dissenso, la limitazione delle libertà e l’utilizzo sistematico della pena di morte. Per l’UE, che da anni cerca di accreditarsi come difensore dei diritti umani, la sorprendente decisione di Atene rappresenta un colpo durissimo, ed è stata definita ‘vergognosa’ dalla diplomazia europea. “Abbiamo agito sulla base di una posizione di principio – ha cercato di spiegare un portavoce del governo di Alexis Tsipras -. Sul tema dei diritti è previsto un dialogo tra l’UE e la Cina e riteniamo che quello sia un modo più efficiente e costruttivo di ottenere risultati”. Nessun ministro, né tantomeno il premier, ha avuto il coraggio di metterci la faccia, e la spiegazione del funzionario non ha convinto nessuno. Particolarmente irritante è apparsa la tempistica del veto, giunto poche ore dopo che i ministri delle finanze dell’Eurozona avevano approvato la nuova tranche di aiuti finanziari alla Grecia, stanziando 8,5 miliardi di euro per il rilancio della sua disastrata economia. Ma soprattutto c’è chi punta il dito nei confronti dei legami sempre più stretti tra Atene e Pechino. Dopo la privatizzazione del porto del Pireo – passato sotto il controllo della Cosco, la più grande compagnia di trasporti cinesi – le società e i fondi del Dragone continuano ad acquisire pezzi di Grecia nelle infrastrutture, nella logistica e nell’immobiliare. Con buona pace dei diritti umani.
RM

Se questa è Europa

Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca. È l’11 aprile del 2011, un’esplosione nella stazione Oktiabrskaia della metropolitana di Minsk, provoca 15 morti e circa 200 feriti. Il giorno successivo la polizia arresta numerosi sospetti. L’azione viene considerata un attacco terroristico. Gli investigatori sostengono che l’ordigno sia stato realizzato “in casa” e radio-controllato a distanza ravvicinata. Due giorni dopo il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, definito “l’ultimo dittatore d’Europa”, dichiara alla nazione che sono stati individuati i colpevoli. Si tratta di due bielorussi che hanno ammesso di aver compiuto il fatto. Il ministro dell’Interno fa sapere, intanto, che sono state raccolte in merito sufficienti prove per dimostrare la colpevolezza dei due arrestati.
Sono Dmitry Konovalov e Vladislav Kovalyov, entrambi poco più che ventenni, amici d’infanzia e residenti a Vitebsk. Secondo gli investigatori i due hanno agito da soli. La storia va avanti, si dà vita al processo e nel dicembre del 2011 arriva la sentenza. Dmitri Konovalov, reo confesso, è ritenuto l’esecutore della strage, mentre Vladislav Kovalov, dichiaratosi innocente, è accusato di aver aiutato l’amico ad attivare l’esplosivo e di non aver fatto nulla per impedire l’attentato. Per entrambi la condanna è a morte. Secondo l’accusa il movente non sarebbe stato di natura politica.
La Bielorussia è l’unico Paese europeo che applica ancora la pena di morte, eseguita generalmente con un colpo di pistola. Ai due ragazzi, inoltre, vennero attribuiti anche tutti gli altri attentati giudicati terroristici in Bielorussia degli ultimi dieci anni, ovvero quello del 2005 a Vitebsk, che causò una decina di feriti e quello del 2008 a Minsk durante il concerto per la celebrazione dell’indipendenza, che ne causò circa sessanta. Entrambi gli attentati furono compiuti con ordigni artigianali. Il giudice Aleksandr Fedortsov giustificò la condanna a morte, sostenendo che i due imputati rappresentavano “un pericolo eccezionale per la società”, soprattutto perché, secondo la Corte, i due non appartenendo a nessuna organizzazione di natura politica o a gruppo organizzato, avrebbero agito spinti “dall’odio per il genere umano”. Già un mese prima della sentenza Lukashenko aveva dichiarato che gli accusati meritavano “per i loro atti, la pena più pesante”.
Così il 14 marzo scorso Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca, mentre è mistero sulla sorte di Dmitry Konovalov, che risulterebbe peraltro il principale indiziato. Sono molte le ombre che hanno accompagnato, com’era prevedibile, la vicenda, a partire dalla velocità con cui sono stati individuati i colpevoli. Dopo la morte dei presunti responsabili sarà quasi impossibile arrivare alla verità sui fatti di Minsk: c’è chi sostiene che dietro l’attentato ci sia una sorta di strategia della tensione messa in atto dal sempreverde Kgb. E continua a restare senza risposta una domanda cruciale: per quale motivo i due giovani avrebbero compiuto l’attentato, o come sostiene la Corte, gli attentati? Cosa volevano ottenere?
Quale che sia la verità sulla loro presunta colpevolezza, resta il fatto che nell’Europa del XXI secolo esiste uno stato che applica ancora la pena di morte, a volte, come in questo caso, anche senza la certezza matematica di colpevolezza dei condannati. Alexandr Lukashenko salì ai (dis)onori delle cronache qualche tempo fa per aver affermato che “era meglio essere un dittatore che un gay”. Da quando è in carica sono passati 17 anni, sono stati chiusi una ventina di giornali indipendenti, sono stati perseguitati gli omosessuali e imprigionati decine di prigionieri politici.
Da allora nessuno gli ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei diritti umani – adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1948 – riconosce a ogni individuo il diritto alla vita (articolo 3) e afferma categoricamente che Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti(articolo 5).

Una sentenza giusta, anche se razzista

Iraq Rape SlayingNessun crimine merita la pena di morte. Nessuna atrocità può giustificare una sentenza di condanna alla pena capitale. Neanche quella che è stata compiuta da una pattuglia di militari statunitensi nella città irachena di Mahmudiya, vicina a Baghdad, il 12 marzo 2006. “Protagonista” di un’operazione che ha ispirato anche il durissimo film Redacted di Brian De Palma, fu il soldato Steven Dale Green: il 24enne originario del Texas stuprò e uccise una ragazzina irachena di 13 anni, bruciandone poi il corpo nel tentativo di non lasciarne traccia. Non contenti, Green e i suoi compari si accanirono poi sulla famiglia della malcapitata giovane, ammazzando il padre, la madre e la sorellina di cinque anni. Fu un crimine talmente atroce (peraltro aggravato dalla provata premeditazione) da spingere, caso più unico che raro, la giustizia statunitense a sottrarre gli imputati alla giurisdizione dei tribunali per sottoporli a quella ordinaria, dopo averli espulsi dall’esercito. Nei giorni scorsi il tribunale del Kentucky – stato dov’è prevista la pena di morte per iniezione letale – non ha trovato l’unanimità necessaria per mandare Green alla forca e l’ha condannato al carcere a vita. Una sentenza a nostro avviso giusta, perché neanche lo schifoso bastardo ritratto nella foto qui sopra  merita la pena capitale. Ma è inevitabile considerarla allo stesso tempo una sentenza venata di razzismo. Cosa sarebbe successo infatti se le vittime non fossero state irachene? E soprattutto, la giuria avrebbe trovato o no l’unanimità se sul banco degli imputati fosse salito un soldato di origine portoricana, o messicana? Se lo stupratore-pluriomicida, invece di Green, si fosse chiamato, per esempio, Mendoza?
RM