Il giornale simbolo della lotta contro Putin è rinato a Riga

Intervista al direttore di Novaya Gazeta Europe, Kirill Martynov

La prima vittima della guerra, diceva Eschilo, è la verità. Anche perché in guerra le testate libere e indipendenti vengono di solito costrette a chiudere. Un destino che alcuni mesi fa è toccato anche alla Novaya Gazeta, il più importante organo di informazione indipendente russo, il quotidiano di due premi Nobel per la pace: Dmitrij Muratov che lo dirigeva e Mikhail Gorbaciov che l’aveva finanziato fin dagli albori, nel 1993. Novaya Gazeta era stato il giornale di Anna Politkovskaja, che fu uccisa in un agguato a Mosca nel 2006, e di altri sei giornalisti assassinati negli anni seguenti per aver detto la verità. Un mese dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina il Roskomnadzor, l’agenzia statale delle comunicazioni russa, ha messo a tacere l’ultima voce libera del Paese e poi un tribunale di Mosca gli ha revocato la licenza di stampa. Ma nel frattempo il giornale simbolo della lotta contro Putin era già rinato a Riga, in Lettonia, dove si sono rifugiati centinaia di giornalisti russi invisi al regime. Continua a leggere “Il giornale simbolo della lotta contro Putin è rinato a Riga”

Séamus Heaney lirico e “politico”

Avvenire, 30 luglio 2020

Dopo la lunga chiusura imposta dalla pandemia è stata finalmente riaperta al pubblico, nel centro di Dublino, la grande mostra dedicata alla vita e all’opera di Seamus Heaney ospitata negli spazi culturali della Bank of Ireland, di fronte al Trinity College. Fu Heaney in persona, alcuni mesi prima di morire, a consegnare alla National Library della capitale irlandese una dozzina di scatoloni contenenti centinaia di reperti cartacei, scritti, bozze di poesie, lettere e dattiloscritti. Materiale che, debitamente arricchito da alcuni oggetti personali del poeta, ha costituito l’embrione di “Listen Now Again”, la mostra curata da Geraldine Higgins che consente di rivisitare l’opera e l’eredità di uno dei più grandi poeti contemporanei. Nato da una famiglia cattolica in una fattoria dell’Irlanda del Nord, figlio di un commerciante di bestiame, Heaney ha saputo fondere magistralmente la povertà materiale e la ricchezza spirituale della campagna irlandese dov’era cresciuto con la sua cultura di fine conoscitore del latino, del gaelico, dell’antico anglosassone, di letterato che come pochi altri poteva confrontarsi con le opere di Virgilio, di Ovidio, di Sofocle. Continua a leggere “Séamus Heaney lirico e “politico””

Bufera sul Nobel, “Handke amico di Milosevic”

Avvenire, 12 ottobre 2019

Le Madri di Srebrenica hanno chiesto all’Accademia svedese delle scienze di revocare il premio Nobel a Peter Handke, perché “un riconoscimento così importante non può andare a un uomo che ha difeso i carnefici delle guerre balcaniche”. Ma il giorno dopo l’annuncio dei giurati di Stoccolma sono già molte le voci di condanna che si sono levate nei confronti del premio a Handke, tra cui quella del primo ministro albanese Edi Rama, del membro bosgnacco della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina Sefik Dzaferović e dell’ambasciatrice del Kosovo negli Stati Uniti, Vlora Çitaku, che su Twitter l’ha definito “uno schiaffo a tutte le vittime del regime di Milošević”. Un vero e proprio coro di indignazione al quale si sono già uniti anche alcuni intellettuali. Il filosofo sloveno Slavoj Žižek non ha esitato a definire Handke “un apologeta dei crimini di guerra”, la scrittrice statunitense Jennifer Egan – a nome del Pen American center – si è detta sbalordita dalla scelta di un autore che “ha usato la sua voce pubblica per sminuire verità storiche e sostenere i perpetratori del genocidio” mentre Salman Rushdie, che già vent’anni fa attaccò Handke con toni quasi infamanti, ha ribadito ieri di pensarla ancora allo stesso modo. Sotto accusa sono le controverse posizioni assunte dallo scrittore e drammaturgo austriaco (ma di madre slovena) fin dai primi anni ‘90, al tempi della dissoluzione della ex-Jugoslavia, e reiterate almeno fino alla morte del presidente serbo Slobodan Milošević, nel 2006. Handke non ha mai fatto mistero delle sue aperte simpatie nei confronti dei serbi e già durante le guerre balcaniche si attirò non poche critiche per aver respinto con decisione l’immagine di aggressori che l’opinione pubblica internazionale attribuiva alle truppe di Milošević e Karadzić. Nel suo libro Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia, uscito per Einaudi nel 1996, cercò di difendere i serbi da quella che era a suo avviso un’ingiusta criminalizzazione messa in atto dalla stampa tedesca e francese. In un intervento uscito quello stesso anno sul quotidiano francese Libération arrivò persino ad attribuire alle milizie bosniaco-musulmane le colpe del genocidio di Srebrenica e dell’assedio di Sarajevo. Le sue convinzioni sarebbero rimaste sostanzialmente inalterate anche alcuni anni più tardi, nonostante la scoperta delle fosse comuni, le sentenze del Tribunale dell’Aja e un giudizio della Storia ormai sempre più definito.

Nella foto: Peter Handke al funerale di Slobodan Milosevic

Nel 2006 si recò a Belgrado per pronunciare un’orazione funebre durante le esequie di Milošević, deceduto in carcere prima del processo che lo vedeva imputato per crimini contro l’umanità. La presenza al funerale dell’ex leader serbo costò cara al futuro premio Nobel, poiché la Comédie Française di Parigi decise di cancellare un suo spettacolo mentre la città di Dusseldorf gli revocò il prestigioso premio letterario “Heinrich Heine” che si era aggiudicato quello stesso anno. Handke era anche andato a trovare Milošević nel carcere di Scheveninghen, due anni prima della sua morte, e aveva raccontato il loro incontro in un lungo articolo dai toni apologetici, nei quali ribadiva di essere convinto della sua innocenza e dell’illegittimità del Tribunale dell’Aja. Per chiedere la revoca del premio Nobel per la letteratura a lui assegnato è stata lanciata anche una petizione on-line sulla piattaforma Change.org che ha già raccolto migliaia di firme.
RM

Višegrad e la memoria cancellata per decreto

di Giorgio Fruscione (EastJournal)

20 anni dopo la guerra di Bosnia la città del ponte sulla Drina torna a far parlare di sé. Un’ordinanza della maggioranza comunale, guidata dal partito che fu di Karadžić, ha imposto la rimozione della parola “genocidio” dal monumento che ricorda le vittime.

C’era una volta Višegrad, piccola ed economicamente insignificante città della Bosnia orientale, in quello che per oltre 400 anni ha rappresentato il confine naturale, tra due mondi, due stati, due religioni, e forse due popoli. C’era una volta il Ponte sulla Drina, “dono di Dio” che per oltre 400 anni ha riunito le sponde di un grosso fiume in una cittadina sperduta e poco abitata. Il ritorno del gran visir ha portato alla piccola città l’architettura del grande impero. C’era una volta Ivo Andrić, un po’ bosniaco, un po’ croato, un po’ serbo e nessuno dei tre, che 400 anni dopo la costruzione del Ponte sulla Drina di  Višegrad vinceva il primo e unico premio Nobel della storia degli slavi del sud. Ivo Andrić, bosniaco per l’anagrafe, croato per la parrocchia e serbo per l’accademia riceve nel 1961 il prestigioso riconoscimento per il suo capolavoro Na Drini Čuprija (Il Ponte sulla Drina, appunto), facendo balzare all’onore della cronaca il suo paese, la Jugoslavia. Quella Jugoslavia socialista nata sulle ceneri di una guerra fratricida ed iniziata con l’occupazione nazista nell’aprile del ‘41, grazie anche alla firma dello stesso Ivo Andrić, ambasciatore jugoslavo a Berlino.
Lui che meglio di molti altri ha saputo riflettere l’immagine della Jugoslavia multiculturale – nonostante il suo essere conservatore l’avesse ideologicamente distaccato dal marxismo – ha raccontato al mondo intero l’esperienza dell’occupazione ottomana, dove i cristiani che non si sottomettevano venivano impalati vivi e quelli che erano più fortunati venivano rapiti da bambini, per arricchire il corpo dei giannizzeri e divenire, come nel caso di Mehmet Paša Sokolović, il gran vizir che commissionerà la costruzione di un’opera voluta da Dio in quella che era la sua città natale.
L’esperienza del Ponte sulla Drina è scandita dal ritmo delle rivolte e delle guerre. La portata “storica“ di questo ponte potrebbe infatti collegare ben di più che due sponde di fiume e invece, nel 1992 è teatro di un’ altra guerra e altro sangue. Mentre i carnefici della guerra usavano il ponte “voluto da Dio” come rampa per liberarsi dei cadaveri, le vittime troveranno nella Drina il loro eterno riposo. A quasi vent’anni dall’ultima guerra la piccola e ormai insignificante Višegrad torna a far parlare di sé, ma per fortuna o purtroppo il vecchio ponte non c’entra. Continua a leggere “Višegrad e la memoria cancellata per decreto”

Pamuk: la letteratura è tolleranza

(Intervista al premio Nobel turco uscita anche su “Avvenire” di oggi)

“Non ho mai detto di essere un ponte tra Oriente e Occidente. Questo è un luogo comune cui vengo comunemente associato e che intendo sfatare. Io non sono un diplomatico: sono uno scrittore che scrive con rabbia e ira. Per me la letteratura non è un esercizio di diplomazia ma una forma di espressione”. Giunto a Firenze per ricevere la laurea honoris causa in studi letterari e culturali internazionali, Orhan Pamuk approfitta della prima tappa del suo viaggio in Italia per riaffermare con forza la sua identità di scrittore fuori dagli schemi, difficilmente catalogabile. “Certo se le persone che leggono i miei libri li interpretano come un messaggio di tolleranza e di confronto tra le culture sono contento, ma non è quello l’obiettivo dei miei romanzi. Io non voglio fare politica con le mie opere”. Continua a leggere “Pamuk: la letteratura è tolleranza”