Bosnia, la memoria tradita nella Disneyland serba

Avvenire, 16 dicembre 2022

Visegrad (Bosnia Erzegovina)
Ormai sono rimaste soltanto le acque del fiume a ricordarci quello che c’era prima. La Drina continua a scorrere incessante, maestosa, accarezzando la città di Visegrad e quel confine naturale tra oriente e occidente in cui musulmani, ebrei e cristiani convissero per oltre quattro secoli, prima che la sua fisionomia venisse cambiata per sempre. Un lungo processo di rimozione ha impedito di fare i conti con la tragica memoria del conflitto bosniaco e sta cercando di riscrivere il passato di queste terre. Il ponte in pietra a undici arcate che il visir ottomano Mehmed Paşa Sokolovic fece costruire ai piedi della città nel 1571, per collegare le due sponde del fiume, si staglia sul paesaggio circostante come un disegno divino. Non a caso Ivo Andric lo definì “un dono di Dio” ed eresse intorno ad esso un monumento letterario che gli sarebbe valso il premio Nobel. Ma esattamente trent’anni fa, agli albori delle guerre balcaniche, proprio da lì le milizie serbo-bosniache gettarono centinaia di cadaveri di musulmani, trasfigurando quel meraviglioso ponte ottomano in un tragico simbolo della pulizia etnica. Oggi non c’è neanche una lapide a ricordare che quelle acque, a lungo simbolo di convivenza tra i popoli, divennero la più grande fossa comune di tutta la Bosnia. Le associazioni dei sopravvissuti si sono battute a lungo per averla, scontrandosi con le istituzioni locali della Repubblica serba di Bosnia. Alcuni anni fa provarono a collocare una targa in memoria delle migliaia di musulmani scomparsi nella regione ma qualcuno la rimosse la notte stessa. Oggi, mentre le scolaresche provenienti dalla vicina Serbia attraversano il ponte chiassosamente, né i libri di scuola del luogo, né le guide turistiche si preoccupano di raccontare la storia recente di questa terra, per non rovinare la bellezza bucolica della valle. Meglio dimenticare. Ma il processo di rimozione non è motivato soltanto da ragioni di marketing. C’è molto di più. Nel 1992 Visegrad, a causa della sua posizione strategica, divenne una delle tante città-martiri di quel conflitto e tuttora ha la triste reputazione di essere al secondo posto, dopo Srebrenica, per le atrocità compiute contro i musulmani. Adesso rappresenta meglio di qualsiasi altro luogo le contraddizioni della Bosnia del dopoguerra. Un drastico rovesciamento degli equilibri demografici ha dato ragione agli aggressori e ai criminali di guerra (nel 1991 i musulmani nell’area erano il 63 percento, adesso sono ridotti a circa il cinque percento) alimentando le rivendicazioni dei nazionalisti serbi, che in anni recenti si sono appropriati anche della memoria letteraria dello stesso Andric, primo e unico premio Nobel della storia degli slavi del sud. Nel tentativo di rafforzare fuorvianti e pericolose letture identitarie sono riusciti a strumentalizzare persino il prestigio di uno scrittore che si era sempre definito jugoslavo. Alcuni anni fa, a poca distanza dal famoso ponte è sorta Andricgrad (“città di Andric”), una curiosa cittadella-parco tematico fatta costruire dal regista Emir Kusturica con i fondi di Belgrado e dell’entità serba di Bosnia in una lingua di terra alla confluenza tra due fiumi, la Drina e il Rzav. L’antica Visegrad raccontata dallo scrittore è stata ricreata artificialmente erigendo una cinquantina di edifici in pietra in una combinazione di stili greco, romano e bizantino. Cancellando però del tutto l’influenza ottomana che costituisce invece il tessuto narrativo del romanzo di Andric. Il giorno dell’inaugurazione lo stesso Kusturica, che dopo la guerra si è avvicinato sempre più alla causa nazionalista serba, affermò con orgoglio che Andricgrad “riportava indietro la storia alla fine del Medioevo con l’intento di pacificare i popoli dell’area”. Quella che sembrò avverarsi era piuttosto la profezia dello stesso Andric, che nel suo romanzo aveva intravisto una maledizione originale nelle vicende umane susseguitesi nei secoli intorno al ponte. “Quella che a prima vista può sembrare un’attrazione turistica innocua e un po’ kitsch è in realtà la Disneyland del nazionalismo serbo, il fulcro di un’operazione di revisionismo storico che intende cancellare completamente la presenza musulmana dalla storia di questa regione ed è sorta su terreni che durante il conflitto ospitarono un campo di prigionia per i musulmani bosniaci”, denuncia Bakira Hasecic, presidente dell’associazione Zene Zrtve rata (Donne vittime della guerra).
Le sue strade e le sue piazze sono un condensato di simboli nazionalisti raccolti in un assemblaggio artificiale che cancella in un colpo solo la memoria delle pulizie etniche di trent’anni fa. Una statua dell’incolpevole Ivo Andric venne inaugurata anni fa in occasione del Vidovdan, il giorno di San Vito martire caro alla chiesa ortodossa serba (28 giugno), proprio al fine di rivendicare una sua presunta origine serba. Peccato che lo scrittore sia sempre stato un simbolo del multiculturalismo jugoslavo: nacque in una famiglia di cattolici croati a Travnik, nella Bosnia centrale, e dopo essersi formato dai gesuiti trascorse la sua giovinezza a Visegrad – che avrebbe fatto da sfondo al suo capolavoro assoluto, Il ponte sulla Drina –, passando poi il resto della sua vita a Belgrado, a Sarajevo e a Zagabria.
L’anno scorso il Nobel austriaco Peter Handke – noto anche per le sue posizioni filo-serbe e per aver più volte negato il genocidio di Srebrenica – ricevette il premio Andric proprio di fronte alla statua del suo omologo. Kusturica e il leader nazionalista serbo-bosniaco Milorad Dodik lo accompagnarono lungo il viale principale della cittadella che è stato intitolato alla Mlada Bosna, l’organizzazione rivoluzionaria che nel 1914 pianificò l’attentato di Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando. Nella grande piazza affacciata sul fiume, oltre a un istituto per lo studio della storia e della cultura serba e la promozione dell’alfabeto cirillico, c’è anche la riproduzione di una chiesa ortodossa kosovara intitolata al principe Lazar, che sconfisse i turchi nella battaglia di Kosovo Polje del 1389 e da allora simboleggia il martirio redentivo della nazione serba. Oltre a bancarelle di souvenir e ristoranti, un albergo e una libreria con più bottiglie di vino che libri, la cittadella non offre molto altro. Il cinema multisala ha però una curiosa facciata ricoperta di mosaici celebrativi in stile bizantino-realsocialista: uno dedicato a Gavrilo Princip, l’assassino dell’arciduca, l’altro che ritrae Dodik, Kusturica e altri impegnati in un tiro alla fune che allude alle aspirazioni separatiste dei serbi di Bosnia, mentre il tennista Novak Djokovic e lo scrittore serbo-bosniaco Branko Copic osservano compiaciuti. C’è infine un bar dal nome eloquente (“Secesja”, ovvero “Secessione”), che dietro al banco dei gelati mostra una singolare rassegna di gigantografie. Oltre a Geronimo, Fidel Castro e Gandhi compare addirittura Putin, a ribadire che la visione politica dell’etno-nazionalismo serbo-bosniaco si inserisce a pieno titolo nell’orbita russa. “Con Andricgrad vogliono portare a compimento ciò che non sono riusciti a completare durante la guerra, riscrivendo completamente gli ultimi secoli della nostra storia”, commenta Hasecic.

Un pensiero riguardo “Bosnia, la memoria tradita nella Disneyland serba”

  1. COME NEL GENNAIO 2013, ALTRI TRE CURDI ASSASSINATI A PARIGI

    Gianni Sartori

    Tra pochi giorni cadeva il decimo anniversario dell’uccisione di tre femministe curde a Parigi.

    Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Saylemez erano state assassinate nel gennaio 2013 in un’operazione in cui è lecito intravedere l’operato del MIT (i servizi segreti turchi).

    Oggi, 23 dicembre 2022, la cosa si è ripetuta e altri tre militanti curdi (ma il bilancio potrebbe aggravarsi) sono caduti sotto i colpi esplosi da un francese già noto per due aggressioni di matrice razzista.

    La sparatoria mortale è avvenuta in rue d’Enghien, in un quartiere a forte presenza curda, nei pressi di un Centro culturale curdo dedicato alla memoria di Ahmet Kaya*.

    Il responsabile dell’eccidio sarebbe un autista di autobus in pensione di 69 anni, già conosciuto come responsabile di due tentati omicidi risalenti al 2016 (quando aveva accoltellato una persona in casa sua) e al 2021. In questo caso si trattava di un reato con evidenti implicazioni razziste avendo assalito un bivacco di migranti (nel 12° arrondissement di Parigi).

    L’immediato raduno di cittadini curdi aveva generato una serie di proteste dato che in molti sospettano che anche in questo tragico evento vi sia la longa manus – e lo stile -dei servizi turchi.

    La contestazione si è conclusa con scontri e tafferugli (oltre all’impiego massiccio di lacrimogeni) tra manifestanti e polizia. Per il 24 dicembre è stata indetta una grande manifestazione contro l’ennesima aggressione alla comunità curda.

    Gianni Sartori

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