Avvenire, 22 maggio 2022
da Visegrád (Bosnia Erzegovina)
I muri di Visegrád annunciano tempesta. L’ennesima provocazione è apparsa qualche settimana fa, all’ingresso della cittadina bosniaca vicina al confine con la Serbia che ha la triste reputazione di essere al secondo posto, dopo Srebrenica, per la massiccia opera di pulizia etnica compiuta esattamente trent’anni fa. Una grande “Z” bianca dipinta sul muro di una delle strade principali plaude all’attacco russo in Ucraina, accanto ai simboli barrati della Nato e dell’UE. Dalla parte opposta del fiume spiccano invece i murales dell’esercito serbo-bosniaco che nei primi anni ‘90 massacrò la popolazione civile a maggioranza musulmana. Ovunque sventolano bandiere serbe, dei colori della Bosnia neanche l’ombra. Per le strade della città si ha l’impressione che la retorica nazionalista di Milorad Dodik, leader indiscusso della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese, sia ampiamente condivisa. D’altra parte la Bosnia Erzegovina sta affrontando la più grave minaccia alla sua esistenza dai tempi della pace di Dayton del 1995. La missione militare europea Eufor è stata potenziata subito dopo l’inizio dell’invasione russa, per paura che la guerra possa riaccenderei altri conflitti locali. Nel gennaio scorso gli Stati Uniti hanno varato sanzioni nei confronti di Dodik, accusandolo di “attività destabilizzanti che minano gli accordi di pace”. Non solo per aver organizzato una minacciosa esercitazione militare delle forze di polizia della Repubblica Srpska – in aperta violazione delle leggi bosniache che prevedono l’esistenza di un solo esercito, quello federale – ma anche per aver annunciato la creazione di un sistema giudiziario, fiscale, doganale e sanitario separato. L’Alto Rappresentante ONU Christian Schmidt ha parlato di “una secessione non dichiarata” denunciando il rischio di un nuovo conflitto. Ma in molti minimizzano, ritenendo che la retorica di Dodik sia funzionale soltanto alle prossime elezioni di ottobre, quando la Bosnia sarà chiamata al rinnovo dei complessi organismi federali. “Dodik può avvalersi del consenso di un piccolo gruppo di estremisti – sostiene la giornalista serbo-bosniaca Gordana Katana – ma non ha il sostegno popolare sufficiente per un’avventura separatista che rischierebbe di sfociare in una nuova guerra”. Secondo Vedran, 50enne di Sarajevo che durante la guerra fece parte della difesa territoriale bosniaca, i politici nazionalisti agitano lo spettro della secessione solo per nascondere i veri problemi e continuare i loro affari.
Lungo i cento chilometri di strada che dividono Visegrad da Sarajevo gli scorci naturali di rara bellezza della valle della Drina si alternano a cittadine e villaggi che furono teatro di massacri e di fosse comuni. Rogatica, Sokolac, Prača, fino ad arrivare infine a Pale, la cittadina dietro le colline di Sarajevo che ai tempi di Karadzic fu la capitale dei secessionisti. Qui, come in altre località della Repubblica Srpska, si continuano a celebrare i criminali di guerra locali con monumenti e murales vanificando ogni speranza di riconciliazione. Eppure oggi molti residenti di Pale lavorano a Sarajevo, che dista mezz’ora di auto, e non sentono alcun bisogno di separarsi dalla Federazione, poiché non ne trarrebbero alcun beneficio concreto. Senad Pecanin, direttore del settimanale di Sarajevo Dani pensa che in Bosnia ci sia una reale minaccia alla pace perché quella attuale è la crisi profonda degli ultimi trent’anni. “I nazionalisti serbi vogliono una frammentazione etnica che può essere ottenuta solo con un’altra guerra”, spiega. “E contano sul sostegno della Russia, che ha un interesse specifico a mantenere una forte instabilità nei Balcani”.