di Anthony McIntyre
In occasioni come la morte di Ian Paisley, un osservatore esterno potrebbe giungere alla conclusione che si tratti di eventi pre-organizzati apposta per lanciare una gara a chi spara la cazzata più grossa. E, se non è ancora entrata nel vivo, aspettate tra adesso e il giorno del funerale per assistere alla produzione in serie di idiozie in copiosa quantità: enormi bugie per mascherare gli enormi sbagli di un enorme ego.
Gli sms dei festaioli che ci invitano ai party si stanno già sprecando; proprio come quando morì Margaret Thatcher. A me non importa se mi arrivano, e non mi importa se non mi arrivano. La morte di Ian Paisley non mi ha reso né felice, né triste. Com’è stato scritto in un grande romanzo sul Ruanda, A Sunday by the Pool in Kigali, morire è semplicemente qualcosa che facciamo tutti, prima o poi. E più o meno chiunque abbia perso la vita durante il conflitto nel Nord Irlanda era molto meno colpevole di Ian Paisley.
Il fondatore della Free Presbyterian Church era tutto meno che innocente. È vissuto fino a 88 anni, ed è morto nel suo letto. La stragrande maggioranza delle vittime del conflitto, qualunque fosse la loro estrazione sociale, e sia che fossero combattenti o civili, non hanno raggiunto quell’età. Molti morirono giovanissimi, appena adolescenti. In alcuni casi, nemmeno ancora adolescenti. Forse oggi non se ne sente parlare granché, ma le loro vite finirono in un’agonizzante ricerca di ossigeno tra i tossici fumi di veleno emanati con satanica energia da una rete d’odio, al centro della quale, come un ragno, pronto sia a cacciare che a comandare, stava Ian Paisley. Quest’uomo di Dio predava con molto più vigore di quanto abbia mai pregato.
Martin McGuinness ci ha detto che grande amico (e come lo sia diventato, il processo di pace lo mostra da sé) abbia perso. Martin una volta aveva altri grandi amici, i quali, a differenza di quello che ha perso oggi, eseguivano i suoi ordini e ammazzavano membri della congregazione di Paisley che guarda caso erano membri delle forze di sicurezza britanniche, il cui dovere era difendere i principi che Martin adesso sostiene. A volte non erano nemmeno membri di nient’altro che della Martyrs Memorial Church di Paisley. I loro assassini non sono più amici di Martin, soltanto traditori dell’isola d’Irlanda. Cosa che, presumibilmente, rendeva il Grande Ian un amico dell’Irlanda. E con amici così…
Senza dubbio, Paisley tollerava McGuinness, a cui scherzando si riferiva come “il vice”, puntualmente ricordando all’ex Capo di Stato Maggiore dell’IRA del suo stato di cittadino di serie B nel “nuovo” Nord, la cui partizione non è una novità. In quel cattolico di Derry, il protestante di Ballymena trovò le conferme e la strada della sua redenzione politica, la madre della retorica amica dell’orco che ci dobbiamo sorbire oggi. Solo dopo che lo Sinn Féin ha accettato una nuova forma di dominio britannico sul Nord Irlanda, Paisley ha iniziato a banchettare con l’uomo che fino a poco prima aveva chiamato “un mostro assetato di sangue”. Colui che ‘da solo era la più grande minaccia allo Stato britannico’, che aveva giurato di castrare la RUC, è finito a succhiarne il manganello. Paisley aveva davvero qualcosa di cui godere orgasmicamente.
Quando lo descrivono come un uomo di stato, io riesco solo pensare a Henry Kissinger definito “fautore di pace”. Ma a queste schifezze siamo abituati. Ma non dobbiamo stare buoni e tranquilli a subirle, o restare in silenzio per il timore di offendere la contrita sensibilità di qualcuno o di essere etichettati come dannosi per il processo di pace. Rigiratelo, ridicolizzatelo, nessuna parola viscida può diluire la verità: che Paisley è stato uno dei più grandi uomini d’odio dell’Europa Occidentale. Bertie Ahern può anche cercare di nascondere l’ovvio raccontandoci che Paisley è stato “un grande uomo con un grande cuore” invece di dire le cose come stanno, cioè che era un grande uomo con un grande odio, e lo sputava fuori con furia biblica. Invano: “Odio con odio perfetto” era un dono del cielo per il grand’uomo.
La morte di Ian Paisley non deve significare la morte della nostra etica nel linguaggio. Di sicuro è stata già danneggiata, non perché ci siamo trovati a parlare inglese o scozzese dell’Ulster, ma perché siamo stati indotti a desiderare di esprimerci nel gergo del processo di pace, l’Ambiguese (Weaselanto in originale, NdT), in modo che potremmo trovarci a non avere le parole giuste per descrivere cose sbagliate.
In casa mia non ci saranno feste per la morte di Ian Paisley. Né sarà pianto o rimpianto. Sarebbe meno che umano, però, dire che non ci sia un’ombra di dispiacere non che sia morto, ma che sia vissuto.
Ian Paisley, nato in un’Irlanda divisa nel 1926, morto in un’Irlanda divisa nel 2014 ‘dopo una lunga battaglia con l’odio’. Gli sopravvivono più persone costrette a vivere in un’Irlanda divisa di quante ce ne siano mai state.
(traduzione di Elena Chiorino)