Da Bobby a Michelle. Rivincita a Belfast

il Venerdì di Repubblica, 29 aprile 2022

Quella domanda era destinata a cambiare la storia. “Qualcuno, qui, avrebbe qualcosa da obiettare se prendessimo il potere in Irlanda con la scheda elettorale in una mano e la mitragliatrice nell’altra?” Danny Morrison, figura-chiave della comunicazione dell’IRA negli anni del conflitto, la rivolse all’assemblea del partito repubblicano indipendentista Sinn Féin nell’ottobre del 1981. Sei mesi prima, un prigioniero politico di nome Bobby Sands era stato eletto al parlamento di Westminster durante lo sciopero della fame in carcere che l’avrebbe condotto alla morte. Oltre trentamila voti suggellarono il suo sacrificio e convinsero il movimento repubblicano irlandese che la guerra si poteva vincere anche con le armi della democrazia. Di quella memorabile campagna elettorale Morrison fu il portavoce e l’alter ego di Sands, che era in fin di vita e non poteva muoversi dalla sua cella. Continua a leggere “Da Bobby a Michelle. Rivincita a Belfast”

L’Irlanda vede la riunificazione

Avvenire, 23 aprile 2021

“Non consentiremo alla storia di ripetersi”: da bambino Séan Murray vide il suo quartiere dato alle fiamme, nell’estate del 1969. Ancora oggi vive di fronte a uno dei cosiddetti “muri della pace” che dividono Belfast, nell’area intorno al monastero Redentorista di Clonard, nel cuore della roccaforte cattolica di Falls Road. Nei giorni scorsi è sceso in strada insieme al deputato di Sinn Féin Gerry Kelly e ad alcuni esponenti del clero locale per convincere i ragazzi del quartiere a non rispondere alle provocazioni della vicina area unionista-protestante di Shankill Road. Continua a leggere “L’Irlanda vede la riunificazione”

La Brexit riaccende gli scontri in Nord Irlanda

Avvenire, 4 aprile 2021

Le conseguenze della Brexit risvegliano i fantasmi rimossi dei “Troubles” in una nuova Pasqua di passione per l’Irlanda del Nord. La rabbia dei lealisti protestanti è sfociata in violenti disordini che si protraggono ormai da quattro giorni a Belfast e a Derry. Venerdì notte una folla di circa duecento giovani a volto coperto ha attaccato la polizia schierata in assetto antisommossa nel pieno centro di Belfast, a ridosso della roccaforte protestante di Sandy Row. Continua a leggere “La Brexit riaccende gli scontri in Nord Irlanda”

Irlanda, ricatto unionista contro la Brexit

Avvenire, 5 marzo 2021

“Ritiriamo il nostro appoggio all’accordo di pace del 1998”: l’annuncio dei paramilitari protestanti dell’Irlanda del Nord è clamoroso, anche se non del tutto inaspettato, e riporta indietro all’improvviso l’orologio della storia. Dopo settimane di tensione la protesta degli unionisti contro il protocollo sulla Brexit assume adesso la forma di una minaccia ben precisa: quella di far saltare il trattato che 23 anni fa mise fine a tre decenni di violenza nel Paese. Continua a leggere “Irlanda, ricatto unionista contro la Brexit”

Brexit, esplode la rabbia unionista

Avvenire, 28 febbraio 2021

Il termometro della rabbia sono come sempre i manifesti sui lampioni. Ne hanno affissi a centinaia, nei quartieri protestanti di Belfast e del resto dell’Irlanda del Nord, per ribadire minacciosamente che il ‘confine’ con la Gran Bretagna non sarà mai accettato. Accanto ad alcuni manifesti sono spuntate anche le bandiere dei gruppi paramilitari mentre gli addetti ai controlli portuali post-Brexit continuano da settimane a subire pressioni per non recarsi al lavoro, pena la loro stessa incolumità. Continua a leggere “Brexit, esplode la rabbia unionista”

Un’Irlanda unita entro il 2025?

Avvenire, 29 febbraio 2020

Dublino – “Se volete davvero una repubblica irlandese votate Sinn Féin”. A Dublino, nei giorni dell’ultima campagna elettorale, un manifesto spiccava su tutti gli altri. Riproduceva lo slogan e la grafica di un poster affisso in città nel 1918, quando il partito repubblicano si presentò per la prima volta alle elezioni, in un’Irlanda non ancora divisa. E le vinse con largo margine. Il risultato non venne però accettato dagli inglesi: seguirono anni di guerra che furono il preludio alla nascita dell’Irlanda del Nord. Poco più di un secolo dopo lo Sinn Féin è tornato alla vittoria nella Repubblica d’Irlanda ottenendo un risultato elettorale che va ben oltre le aspettative e i sondaggi, e proietta l’isola verso una possibile riunificazione. Un’Irlanda unita è infatti da sempre in cima all’agenda politica dello Sinn Féin, che dopo essere tornato al governo a Belfast sta adesso cercando di formare un esecutivo anche nella capitale irlandese. Secondo Aidan Regan, docente di politica economica all’University College di Dublino, la sua vertiginosa ascesa è il risultato di tre fattori economici interconnessi: “un modello di crescita di cui hanno beneficiato in pochi, il grave conflitto sociale intergenerazionale generato dalla crisi abitativa e un decennio di austerità che ha causato un declino nei servizi e nelle infrastrutture”. Per la prima volta nella storia irlandese i due partiti centristi Fianna Fail e Fine Gael, dopo essersi alternati al governo per quasi un secolo, hanno ottenuto insieme meno della metà dei consensi. Considerando che l’Irlanda ha un livello elevato di crescita economica e un tasso di disoccupazione tra i più bassi dell’area UE, la clamorosa bocciatura dell’ex premier Leo Varadkar può a prima vista apparire inspiegabile. “La ripresa dopo la recessione di dieci anni fa è stata favorita dagli investimenti delle multinazionali dell’high-tech ma la situazione economica non è rosea come sembra”, ribatte Regan. “Secondo gli studi del Fondo Monetario Internazionale circa tre quarti degli investimenti diretti esteri sono fittizi, dovuti a semplici spostamenti di capitali per aggirare gli obblighi fiscali”. In compenso il costo della vita è aumentato in modo esponenziale, creando un divario sociale sempre più insostenibile sulla sanità, l’assistenza all’infanzia e la scuola. Per non parlare del costo delle case ormai alle stelle, con Dublino che è oggi una delle città più care d’Europa. “Gli elettori hanno voluto punire le politiche di austerità imposte negli ultimi anni dai governi Fianna Fail-Fine Gael e hanno dato invece fiducia allo Sinn Féin, che si è presentato come il partito dei lavoratori e della gente comune, deciso a tassare le multinazionali, le banche e i grandi capitali investendo nei servizi pubblici e nell’edilizia popolare”.
Spesso definito sbrigativamente ‘l’ex braccio politico dell’IRA’, lo Sinn Féin è in realtà il più antico partito politico d’Irlanda, fondato nel 1905 quando il paese era ancora una colonia britannica, e pur mantenendo fede all’obiettivo iscritto nel suo Dna – la piena sovranità nazionale irlandese – ha più volte cambiato pelle nel corso del tempo. In passato è stato convintamente anti-europeo: nel 1973 si oppose all’adesione di Dublino alla CEE ma poi, di fronte ai benefici portati dai fondi strutturali e alla spinta di Bruxelles al processo di pace, ha virato verso un euroscetticismo morbido che non gli ha impedito di schierarsi contro i vari trattati di riforma, da Maastricht, a Nizza, fino a Lisbona. Due anni fa un calcolo politico interno portò il partito anche a modificare la propria posizione sull’aborto, diventando a favore della nuova legislazione pur di cavalcare l’onda del consenso popolare. Fino a poco più di trent’anni fa lo Sinn Féin era solo un piccolo partito astensionista ma ha saputo trasformarsi in una formidabile macchina elettorale. Nel medio-lungo periodo punta adesso al grande progetto politico della riunificazione, da ottenersi attraverso un referendum in tutta l’isola. Il suo programma prevede l’immediata istituzione di un apposito comitato parlamentare e di un’assemblea di cittadini che discuta i piani per l’unità, mentre una consultazione popolare vera e propria dovrebbe svolgersi entro il 2025, ovvero prima che finisca la legislatura. Finora l’ipotesi di una riunificazione era stata poco più che un sogno proibito dei repubblicani. La paura di possibili reazioni violente da parte dei paramilitari protestanti (da sempre ostili a Dublino) e le temute conseguenze di carattere economico l’avevano sempre fatta accantonare a priori. Ma adesso ci sono davvero le condizioni perché si possa realizzare. A cambiare le carte in tavola ci ha pensato la Brexit: i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno votato a maggioranza per il Remain e, sebbene l’intesa raggiunta da Boris Johnson con l’UE abbia fatto venir meno l’ipotesi di un confine terrestre tra le due parti dell’Irlanda, l’accordo minimalista sul commercio che Londra intende stringere con Bruxelles non funzionerebbe per le due parti dell’Irlanda, le cui economie sono da tempo profondamente legate e interdipendenti. Inoltre l’Irlanda del Nord non vuole perdere i 700 milioni di euro che arrivano ogni anno dall’Europa a sostegno dell’agricoltura, della crescita economica, dei progetti per la riconciliazione e delle iniziative culturali.
Già l’Accordo di pace del Venerdì Santo del 1998 stabiliva la possibilità di una futura riunificazione “quando entrambe le parti dell’isola lo avessero voluto” e negli ultimi due anni – complice la stessa Brexit – i sondaggi hanno mostrato un sostegno crescente nei confronti di una possibile riunificazione, persino all’interno della comunità protestante. L’ultima rilevazione si è svolta qualche settimana prima delle elezioni e ha visto circa due terzi degli intervistati al di sotto dei cinquant’anni dichiararsi a favore di un’Irlanda unita. Da tempo il dibattito ha anche varcato i confini dell’isola. La potente diaspora irlandese degli Stati Uniti – di cui fanno parte oltre trenta milioni di persone – solidarizza da sempre con i cattolici dell’Irlanda del Nord, ritenendo che la divisione del paese rappresenti un retaggio illegittimo del lungo dominio britannico. E c’è poi il censimento del 2021, che in Irlanda del Nord vedrà molto probabilmente i cattolici superare i protestanti per la prima volta nella storia. La presidente dello Sinn Féin, Mary Lou McDonald, non perde occasione per cercare alleati che possano sostenere il progetto del suo partito. In una recente intervista alla Bbc ha ribadito che l’UE deve prendere posizione sull’Irlanda come fece per la Germania dopo la caduta del Muro di Berlino. Un paragone affascinante ma forse non del tutto plausibile: lo sgretolamento del Regno Unito sarebbe in questo caso la conseguenza, non la causa della riunificazione irlandese, come fu invece il crollo del comunismo per la rinascita della Germania unita. Nel caso dell’Irlanda il processo di riavvicinamento appare assai più complicato, poiché secoli di divisioni tra le due comunità rendono alto il rischio di un ritorno alla violenza, se non sarà individuato un progetto unitario convincente per gli unionisti protestanti del Nord. Sul piano istituzionale il modello più credibile è quello di uno stato confederale con due giurisdizioni che condividano i poteri magari mantenendo un legame con la Corona britannica, sull’esempio del Canada. Al di là delle non trascurabili questioni identitarie vi sono poi anche problemi pratici, a partire dall’elevato costo della vita nella Repubblica d’Irlanda e dal suo programma di assistenza sanitaria privata che non può certo competere con il generoso National Health Service britannico.
RM

L’Irlanda in ansia per la Brexit. “Sarà il caos”

Avvenire, 20 ottobre 2019

La pace in Irlanda del Nord è in bilico, messa a rischio dal cortocircuito istituzionale innescato dalla Brexit e dal futuro del confine tra le due parti dell’Irlanda. A lanciare l’ennesimo allarme in tal senso, proprio nel giorno del voto decisivo di Westminster sull’addio all’UE, è stato l’ex premier britannico Tony Blair, che fu uno dei principali artefici dell’Accordo del Venerdì Santo sottoscritto nel 1998. Era più o meno da allora che l’intera Irlanda non tratteneva il fiato come ha fatto in queste ore, in preda alle incertezze e ai timori per ciò che potrà accadere nei prossimi giorni, ma anche alla rabbia per essere stata fagocitata in un caos politico dalle conseguenze imprevedibili. Nella notte di mercoledì scorso migliaia di persone sono scese in strada e hanno partecipato alla manifestazione di protesta organizzata dalle Border Communities Against Brexit – le comunità di confine contrarie alla Brexit – che si è svolta in contemporanea in trentotto punti diversi del confine, piccole località di campagna che in passato sono state teatro di gravi violenze e attentati. Fiaccole e torce alla mano hanno denunciato l’indifferenza di Westminster nei loro confronti e una situazione di stallo che mette in pericolo la pace. Un’altra manifestazione si è tenuta invece a Belfast, davanti al palazzo di Stormont, sede del parlamento nordirlandese, per ‘celebrare’ polemicamente i mille giorni dal blocco dell’assemblea legislativa, sciolta all’inizio del 2017. Da allora i partiti non sono più riusciti a ripristinarla e ciò contribuisce a esacerbare gli animi alimentando le incognite sul futuro. Tutto questo mentre sugli schermi di Channel 4 andava in onda l’intervista a un esponente della cosiddetta “Nuova” IRA, a volto coperto, il quale affermava che le infrastrutture transfrontaliere saranno considerate un bersaglio legittimo per futuri attacchi armati, al pari del personale che le gestirà.
Un’atmosfera di ansia e preoccupazione si respira anche a Dublino e nel resto della Repubblica: secondo Conor Murphy, funzionario di lungo corso del ministero dell’agricoltura di Dublino, gli uffici del governo si trovano in un caos mai visto prima d’ora. “A breve saremo sepolti da una valanga di certificazioni agricole alle quali non riusciremo a far fronte e anche i colleghi che lavorano in altri settori prevedono gravi contraccolpi per la nostra economia”, ci confessa. Sul piano politico il primo ministro irlandese Leo Varadkar ha cercato fino all’ultimo di rassicurare gli unionisti nordirlandesi sulle future implicazioni costituzionali dell’accordo sulla Brexit, affermando che l’Irlanda del Nord continuerà a far parte del Regno Unito secondo quanto previsto dall’Accordo del Venerdì Santo, le cui disposizioni – ha aggiunto – dovranno essere utilizzate anche per far sì che Londra e Dublino continuino ad avere rapporti stretti dopo la Brexit. Ma il voto negativo espresso ieri a Westminster dai dieci deputati del Democratic Unionist Party riflette la paura dell’elettorato unionista che l’accordo su Brexit possa in realtà aprire la strada alla riunificazione dell’Irlanda. Come invece chiede l’altro grande partito nordirlandese, il repubblicano Sinn Féin, che non ha potuto influenzare in alcun modo la votazione di ieri perché pur eleggendo i propri deputati a Westminster porta avanti da sempre una rigorosa linea astensionista. La Brexit, comunque andrà a finire, ha riaperto in Irlanda vecchie ferite mai del tutto rimarginate e ha dimostrato che nonostante ventuno anni di coesistenza sostanzialmente pacifica la riconciliazione tra le due parti è ancora assai lontana.
RM

“Così in Irlanda emerge una Nuova IRA”

Avvenire, 4 settembre 2019

Secondo molti analisti una nuova stagione di tensioni in Irlanda del Nord potrebbe essere uno dei possibili effetti collaterali della Brexit. Tutta colpa dell’“Irish Border”, la frontiera artificiale tra le due Irlande che fu cancellata alcuni anni fa, in seguito all’attuazione del processo di pace. Un tempo controllato dai checkpoint militari, quel confine è svanito a poco a poco fino a diventare impalpabile, e si può oggi attraversare decine di volte quasi senza rendersene conto. Ma il suo eventuale ripristino potrebbe fornire un pretesto a quei gruppi dissidenti che contestano da sempre gli esiti del processo di pace. E riaccendere una crisi sopita da tempo. Ad alimentare quest’idea ci sono i recenti fatti di cronaca avvenuti nella cittadina nordirlandese di Derry, in particolare i gravi scontri dell’aprile scorso culminati con l’assassinio della giovane giornalista Lyra McKee. La responsabilità dell’omicidio è ricaduta fin da subito sulla cosiddetta “New IRA”, la sigla più significativa e letale tra i repubblicani dissidenti. Un’organizzazione armata nata nel 2012 dalla fusione tra vari gruppi, che ha il suo braccio politico nel piccolo partito Saoradh (termine gaelico per “liberazione”). Proprio come la vecchia IRA, che ebbe un alter ego politico nel Sinn Féin, ai tempi del conflitto. “Il sostegno di cui dispongono Saoradh e New IRA all’interno della comunità cattolico-nazionalista dell’Irlanda del Nord è minimo. Tuttavia la Brexit rappresenta per loro un’opportunità e se certi scenari dovessero materializzarsi, le contee di confine potrebbero diventare l’obiettivo di un’escalation delle attività armate”. A sostenerlo è Marisa McGlinchey della Coventry University, divenuta una delle voci più autorevoli sull’argomento dopo aver dato alle stampe Unfinished Business: The Politics of ‘Dissident’ Irish Republicanism (Manchester University Press), un libro che raccoglie novanta interviste all’interno della galassia dei contrari all’Accordo di pace del 1998. Un’inchiesta durata sette anni, durante i quali la studiosa ha raccolto anche molte voci all’interno del carcere di massima sicurezza di Maghaberry. “Quella dei dissidenti repubblicani è una realtà composta da molte sfaccettature. Il loro obiettivo è la riunificazione dell’Irlanda e la completa indipendenza dalla Gran Bretagna ma la strategia della lotta armata non è condivisa da tutti. Alcuni continuano a rifiutare la violenza”.
Qual è l’obiettivo preciso della New IRA? Credono davvero di poterlo raggiungere in un contesto come quello dell’Irlanda moderna?
Innanzitutto rifiutano persino di essere chiamati ‘New IRA’. Si definiscono semplicemente IRA e sostengono di essere i continuatori della lunga lotta repubblicana per l’unità del paese. È un’organizzazione rivoluzionaria repubblicana di estrema sinistra anti-imperialista che vorrebbe riunire tutto il territorio dell’isola sotto una repubblica socialista indipendente. I comunicati della New IRA o di Saoradh, oggi, veicolano di fatto gli stessi messaggi divulgati dall’IRA e dal Sinn Féin negli anni ‘70 e ‘80. I volontari della New IRA sanno perfettamente che non stanno facendo passi avanti significativi verso un’Irlanda unita. Ma mirano ugualmente “a tenere la fiamma accesa” nella speranza che la campagna possa riprendere in futuro e intendono ostacolare il processo di ‘normalizzazione’ in corso nel paese. Molti rifiutano anche di essere definiti dissidenti perché sostengono che le loro posizioni politiche sono le stesse di sempre. A essere cambiate, affermano, sono piuttosto le idee e le strategie del Sinn Féin da quando è entrato a pieno titolo nell’arco istituzionale.
Qual è l’età media degli attivisti? E quale motivazione li spinge a entrare nella lotta armata ai giorni nostri?
È difficile affermarlo con precisione poiché l’operazione agisce ovviamente sotto copertura. Alcuni suoi membri sono ex esponenti dell’IRA, altri sono invece giovani che al tempo del conflitto erano bambini, o magari non erano ancora nati. Coloro che entrano al suo interno credono nel principio del diritto alla lotta armata per raggiungere l’indipendenza. I dati della polizia negli ultimi dieci anni mostrano un livello basso ma costante dell’attività armata, in particolare in zone come Derry, Strabane, North Armagh e in alcune zone di Belfast.
Qual è oggi la loro potenza di fuoco?
Al momenti dispongono di almeno una cinquantina di membri attivi. Non si sa con precisione quale sia l’arsenale nelle loro mani ma, sempre stando ai dati della polizia, negli ultimi dieci anni si può notare che dispongono di una notevole quantità di armi da fuoco, di munizioni e di esplosivi.
Qual è la cosa che l’ha colpita di più nel corso delle sue ricerche?
Una frase pronunciata da Kevin Hannaway, cugino di Gerry Adams. Mi ha detto che l’attuale leadership del Sinn Féin, se davvero voleva creare una repubblica irlandese, ha fallito. Se invece voleva ottenere i diritti civili li ha ottenuti nel 1973. Allora – si è chiesto – a cosa diavolo sono serviti trent’anni di guerra? Mi ha colpito molto anche il solco che esiste ormai tra vecchi compagni di lotta, persino all’interno delle stesse famiglie.
Che tipo di sostegno hanno da parte della popolazione in Irlanda del Nord?
Saoradh è un partito che non si presenta alle elezioni perché ritiene che prendervi parte sia un modo per legittimare le istituzioni del Nord Irlanda. È dunque difficile calcolare con precisione il sostegno popolare nei loro confronti. Secondo una ricerca condotta dall’Università di Liverpool nel 2010 appena il 14% dei cattolici-nazionalisti affermano di essere solidali con le ragioni che stanno dietro la violenza dei dissidenti. Sinn Féin continua ad avere dalla sua parte la maggioranza della comunità nazionalista dell’Irlanda del Nord e il sostegno per gruppi come la New IRA è minimo. E anche all’interno della galassia dei dissidenti repubblicani ci sono alcuni che non appoggiano le campagne della New IRA.
I repubblicani dissidenti fanno proseliti anche nella Repubblica d’Irlanda?
Sì, le organizzazioni dissidenti abbracciano l’intera isola e per loro stessa natura sono presenti e attive in tutta l’Irlanda.
Crede che questo sostegno sia calato ulteriormente dopo l’omicidio di Lyra McKee?
Dopo la morte di Lyra i commentatori hanno ipotizzato che un repubblicano dissidente come Gary Donnelly non sarebbe stato rieletto al consiglio comunale di Derry. Invece non solo è stato rieletto ma è risultato anche campione di preferenze. Certo, l’omicidio di Lyra ha suscitato una profonda avversione nei confronti della New IRA e lo stesso Donnelly ha condannato l’omicidio. Non penso che il sostegno per Saoradh sia calato sensibilmente dopo l’omicidio di McKee ma credo che all’interno della stessa base del movimento la sua morte abbia suscitato molte critiche sul ricorso alle azioni armate.
RM

Il confine fantasma che minaccia la pace

Avvenire, 26 febbraio 2019

“Ricordi quel villaggio attraversato dal confine / laggiù in fondo alla strada / Con il macellaio e il panettiere in due stati diversi?” Nel 1980 il poeta nordirlandese Paul Muldoon dedicò una delle sue opere a quella frontiera che per decenni ha tagliato in due le esistenze di intere comunità. Circa cinquecento chilometri di sentieri, corsi d’acqua e distese di prati che corrono dal mare d’Irlanda fino all’estuario del fiume Foyle separando in modo schizofrenico le due parti dell’isola. Un confine che Diarmaid Ferriter, uno dei più autorevoli storici irlandesi contemporanei, non esita a definire “ridicolo” perché la sua stessa natura morfologica lo rese sostanzialmente incontrollabile, ma riuscì comunque a stravolgere la vita di migliaia di persone con effetti distruttivi sull’economia di entrambe le parti dell’Irlanda. Fu anche una delle frontiere più atipiche del mondo, faticosamente cancellata dopo decenni di guerra nel cuore dell’Europa. Negli ultimi vent’anni era svanito a poco a poco fino a diventare impalpabile: lo si poteva attraversare decine di volte quasi senza rendersene conto. Le ispezioni doganali vennero abolite nel 1993 per effetto delle normative europee mentre i controlli ai checkpoint militari furono rimossi del tutto nel 2005, dopo la messa fuori uso delle armi da parte dell’IRA. Ma dopo l’esito del referendum sulla Brexit il problema è riesploso in tutta la sua complessità, diventando oggetto di una controversia apparentemente irrisolvibile tra Londra e Bruxelles. Appare dunque particolarmente puntuale e opportuna l’uscita del nuovo saggio storico di Diarmaid Ferriter, The Border: The Legacy of a Century of Anglo-Irish Politics. Quel confine – ricorda l’autore, che è docente all’University College di Dublino – fu creato ormai quasi un secolo fa per risolvere la “questione irlandese”, cancellandola una volta per tutte dalla politica britannica. Ma oggi la Brexit, per effetto di una sorta di nemesi, ha riavvolto l’orologio della Storia riaprendo ferite che si credevano rimarginate per sempre, rischiando persino di far saltare l’architettura istituzionale dell’Accordo del Venerdì Santo, che si basava proprio sulla cancellazione di quel confine. Un intricato rompicapo politico che i negoziati di Bruxelles non sembrano in grado di risolvere e per il quale gli inglesi – vittime della legge del contrappasso – possono ora solo biasimare sé stessi.
Nel 1954 il deputato laburista Aneurin Bevan, stanco delle dispute parlamentari con i colleghi unionisti irlandesi, affermò durante una seduta della Camera dei Comuni che non doveva più essere consentito a quei pochi irriducibili di condizionare il processo legislativo di Westminster con i loro voti. Oltre sessant’anni dopo, la sopravvivenza del governo di Theresa May e il futuro della Brexit dipendono da un pugno di deputati del Democratic Unionist Party, il partito unionista radicale che fa da stampella alla fragile maggioranza parlamentare dei conservatori inglesi. Sono loro a tenere in ostaggio il governo e a condizionare l’esito delle trattative con Bruxelles sul confine irlandese. “La storia a volte si ripete e spesso non è priva di ironia – rileva Ferriter – poiché il Government of Ireland Act, la legge che nel 1920 aprì la strada alla sciagurata divisione dell’Irlanda fu approvata proprio da una maggioranza parlamentare conservatrice alleata con gli unionisti dell’Ulster”. Per oltre un secolo i tories britannici hanno assecondato il loro fanatismo con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. All’inizio del ‘900, quando l’Impero britannico giunse al crepuscolo e Londra non fu più in grado di giustificare la repressione militare di fronte alle istanze democratiche degli irlandesi, fu imposto a tutta l’Irlanda il durissimo compromesso della divisione. Sei delle nove contee dell’Ulster andarono a costituire un’entità politica mai esistita fino ad allora, frutto della convergenza di interessi tra il governo britannico e la borghesia industriale dell’Ulster: lo stato dell’Irlanda del Nord, pari al 17% scarso del territorio dell’isola, con un proprio Parlamento presso il palazzo di Stormont, alle porte di Belfast. Ne facevano parte quattro contee a maggioranza protestante (Antrim, Armagh, Down e Londonderry) e due a maggioranza cattolica (Fermanagh e Tyrone). I confini del nuovo stato furono tracciati in modo arbitrario al fine di assicurare una prevalenza di due terzi ai protestanti e a questo scopo fu necessario escludere dall’accordo le tre contee dell’Ulster a maggioranza cattolica (Cavan, Monaghan e Donegal). L’Irlanda sarebbe rimasta divisa sine die, contro la volontà della maggioranza della popolazione e ogni logica politico-giuridica. Ferriter fa notare che spesso persino i funzionari britannici riconoscevano in privato che quel confine era “artificiale e assurdo” ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Fin dalla sua nascita nel 1921, lo staterello artificiale dell’Irlanda del Nord fu fondato sulla discriminazione della minoranza cattolica, analogamente al Sudafrica dei tempi dell’apartheid. E proprio come accadde in India e in Palestina dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, le divisioni imposte dagli inglesi non riuscirono a risolvere i problemi di quei territori ma, al contrario, finirono per esacerbarli. I cattolici nordirlandesi divennero cittadini di seconda classe: già negli anni ‘20 oltre settemila persone furono cacciate dai posti di lavoro e costrette a vivere in alloggi fatiscenti. Circa cinquecento di essi morirono in appena tre anni a causa degli attacchi settari compiuti dagli estremisti protestanti. La crisi si inasprì negli anni ‘60, quando il Movimento per i diritti civili dell’Irlanda del Nord iniziò a chiedere la fine delle discriminazioni sul lavoro, sul voto e sull’accesso alla casa ma in tutta risposta ottenne solo l’inasprimento della repressione. La conseguente escalation di violenza fece deflagrare il conflitto nei decenni successivi: gli scontri tra l’IRA e l’esercito britannico – che agiva spesso in collusione con i paramilitari lealisti – scatenò un conflitto lungo quasi tre decenni, durante il quale il confine divenne una zona militarizzata con gigantesche torri di osservazione, posti di blocco dell’esercito e ponti abbattuti per impedire gli sconfinamenti illegali. Una situazione che creò perdite economiche incalcolabili favorendo il contrabbando di bestiame, di benzina, di alcol e di generi alimentari. Per anni quel confine fu anche uno dei luoghi più pericolosi d’Europa, con attentati ed episodi di violenza che divennero una prassi quasi quotidiana. Finché il coraggio e la diplomazia non riuscirono finalmente a trovare una faticosa via d’uscita con l’accordo del Venerdì Santo del 1998, che cementò una pace basata sul compromesso. Nel suo libro, Ferriter non manca di sottolineare il ruolo decisivo dell’Europa nel favorire il processo di pace e gli enormi benefici economici portati in questi ultimi anni da un confine aperto. Avrebbe potuto essere una storia a lieto fine, se il terremoto della Brexit non avesse infine sparigliato le carte contro il volere della maggioranza della popolazione dell’Irlanda del Nord. Il 56% di essa votò infatti a favore della permanenza nell’UE. Adesso, a meno che non sia trovata una soluzione momentanea con il cosiddetto “backstop”, quando Londra abbandonerà il mercato unico e l’unione doganale sarà inevitabile anche il ripristino dell’infrastruttura transfrontaliera tra le due parti dell’isola. “Il nuovo confine occidentale dell’UE avrà più attraversamenti in un remoto angolo d’Irlanda che in tutta l’Europa dell’est – conclude Ferriter – con conseguenze imprevedibili sul processo di pace”.
RM