Bobby Sands, i podcast per il 40° anniversario

Per ricordare Bobby Sands nel 40° anniversario della morte (5 maggio 1981), una serie di podcast con le letture tratte dal suo libro “Scritti dal carcere” pubblicato da Paginauno edizioni.

Tutti i mercoledì a partire dal 24 febbraio un’opera in poesia o in prosa del rivoluzionario irlandese che morì di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, a Belfast.

Letture di Riccardo Michelucci e Sara Agostinelli

In memoria di Ibrahim Gökçek

Il collettivo del Grup Yorum perde anche İbrahim Gökçek, l’uomo che suonava il basso e che, rinunciando a mangiare per 323 giorni, era riuscito a piegare il regime turco costringendolo a concedere finalmente ai suoi compagni la possibilità di tornare a suonare. Una straordinaria affermazione di libertà, per un gruppo considerato “terrorista” al pari di chiunque si opponga al delirio criminale di Erdogan. Una lotta che aveva seminato speranza, trepidazione e gioia tra migliaia di persone in Turchia e in molti altri paesi del mondo intero. Tutti avevano seguito con il cuore in gola la resistenza estrema di Helin Bölek, Mustafa Kocak e İbrahim, fino alla vittoria e alla morte

[da Comune-Info] – Non ce l’ha fatta, è poco, è troppo, ma è così. Quello che vince oggi, giovedì 7 maggio, è l’eloquenza del dolore, cioè la verità. Nelle ultime 48 convulse ore s’era aperto lo spiraglio di un altro destino. D’altro canto, Theodor Adorno lo aveva spiegato in modo crudele quanto lucido: la necessità di far sì che il dolore diventi eloquente è la condizione della verità. No, non ce l’ha fatta, İbrahim Gökçek. Non ha neanche avuto il tempo per vedere se il regime di Erdoğan concederà ai compagni del Grup Yorum di suonare davvero in luglio senza far scorrere fiumi di sangue.
Un altro tempo, però, quello sufficiente a vedere come l’immensa debolezza che ha segnato i suoi 323 giorni senza mangiare sia riuscita a piegare un potere ritenuto invincibile, quello sì, İbrahim è riuscito a strapparlo. Anche alla morte. Il tempo è tiranno, si dice non senza ragione, ma non sempre è alleato della tirannia. Anche se quel tempo, il tempo degli orologi, molto diverso da quello del nostro fare, si ostina a lasciarci credere che possiamo ancora solo limitarci a scegliere nient’altro che una delle varianti del dominio dell’accumulazione di denaro sulle persone. Il collettivo degli Yorum ha, tra gli altri, l’ormai rarissimo merito di non essersi mai rassegnato a quell’idea, la menzogna più indecente e indiscutibile del secolo scorso e di quello che già entra nel terzo decennio.
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Turchia, Grup Yorum di nuovo sotto processo e in sciopero della fame

di Gianni Sartori

La prima udienza del maxi processo contro una trentina di musicisti di Grup Yorum si è svolta il 14 febbraio. Al momento, alcuni sono in carcere, due latitanti e altri due in sciopero della fame ormai da oltre 240 giorni.

Su questa questione sgombriamo il campo dagli equivoci. Al solito, qualcuno farà confronti con lo sciopero della fame del 1981 costato al vita a dieci Repubblicani irlandesi. I sette militanti dell’IRA e i tre dell’INLA morirono mediamente dopo un paio di mesi di astensione dal cibo. Bisogna però precisare che l’incredibile durata di questi scioperi nelle prigioni turche (così come di quelli in cui persero la vita oltre un centinaio di militanti della sinistra rivoluzionaria turca ormai venti anni fa) è dovuta ad alcuni accorgimenti, come l’utilizzo preventivo di vitamine. In realtà quella che si prolunga è soprattutto l’agonia, la sofferenza per i militanti che comunque, anche in caso di eventuale sospensione, rischiano danni irreparabili, sia fisici che mentali.
Detto questo, diventa prioritario “agire prima che qualcuno di loro perda la vita” come sostengono da tempo varie organizzazioni. In particolare, l’Associazione del foro di Istanbul, un’Associazione di medici di Istanbul, l’Iniziativa degli artisti e l’Assemblea artistica che hanno pubblicato una dichiarazione congiunta, un appello rivolto alle autorità affinché si comportino in maniera responsabile nei confronti degli imputati. E in particolare di chi è in sciopero della fame (ora diventato digiuno fino alla morte) ormai da oltre 240 giorni per protestare contro le restrizioni (proibizione dei loro concerti per il carattere politico delle canzoni) e la continua repressione a cui i membri di Grup Yorum vengono sottoposti da anni. Prima del processo iniziato il 14 febbraio, per molti di loro la “detenzione provvisoria” era durata due anni.
La cantante Helin Bölek e il chitarrista Ibrahim Gökcek non si alimentano dal 16 maggio 2019 rivendicando il diritto alla libera espressione artistica. Trattati dal governo turco alla stregua di delinquenti, musicisti e cantanti sono stati arrestati per “appartenenza a una organizzazione terrorista”. Per la precisione, sono accusati di far parte del DHKC-P (Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi) o comunque di fare propaganda per questa organizzazione armata. Continua a leggere “Turchia, Grup Yorum di nuovo sotto processo e in sciopero della fame”

L’eredità contesa di Bobby Sands

Venerdì di Repubblica, 24.3.2017

Rischia di finire in tribunale l’eredità di Bobby Sands, il simbolo della lotta di liberazione irlandese morto di sciopero della fame in carcere nel 1981. Oggetto del contendere è il controverso ruolo del Bobby Sands Trust, la fondazione controllata dal partito repubblicano Sinn Féin che detiene i diritti d’autore sugli scritti dal carcere di Sands, le testimonianze, le poesie e il toccante diario dei suoi primi diciassette giorni senza cibo. Da anni i familiari di Bobby sostengono che la fondazione lucra sulla sua memoria e utilizza il suo nome a fini commerciali senza avere più alcun titolo per farlo. L’ultimo scontro è nato in seguito alla pubblicazione del graphic novel Bobby Sands. Vita di un eroe di Gerry Hunt, appena tradotta in italiano da Red Star Press. La famiglia ha denunciato di non essere stata consultata durante la realizzazione del libro e ha chiesto lo scioglimento del Trust, accusandolo di voler sfruttare ancora una volta la vicenda a fini di lucro. Al centro del dissidio ci sarebbero perlopiù ragioni politiche. In passato anche Marcella e Bernadette, le sorelle di Bobby, hanno fatto parte del direttivo della fondazione ma negli anni cruciali del processo di pace qualcosa si è rotto poiché, a quanto sostiene la famiglia, il partito che la governa ha abbandonato i principi per i quali loro fratello lottò fino alla morte. Danny Morrison, ex prigioniero ai tempi di Sands e oggi presidente del Trust, ha spiegato che l’ente non ricava alcun profitto dalla biografia a fumetti, né da altre pubblicazioni simili. “Il nostro unico obiettivo – ha ribadito – è rispettare la volontà di Bobby, che in una lettera firmata davanti al suo avvocato poco prima di morire lasciò in eredità i suoi scritti al movimento repubblicano”. Un contenzioso legale potrebbe nascere proprio su quest’ultimo punto: all’epoca quel movimento coincideva infatti con l’IRA mentre la fondazione fu istituita dopo la morte di Sands per raccogliere fondi da destinare ai familiari dei prigionieri. Ma secondo la famiglia oggi i diritti d’autore dovrebbero appartenere a Gerard Sands, unico figlio del leader di quella memorabile protesta carceraria che segnò uno spartiacque nella lotta di liberazione irlandese.
RM

Quello di Long Kesh fu un martirio inutile?

“Mio padre è stato lasciato morire per niente”

La figlia di Mickey Devine accusa il Sinn Fein

La 35enne Louise Devine ha trascorso tutta la sua vita senza suo padre, dopo averlo visto morire di fame in carcere quando era solo una bambina piccola. È cresciuta forte e temprata dal dolore, convinta che suo padre è stato un eroe e che il suo sacrificio sovrumano è servito a dare la libertà agli irlandesi scrivendo la storia di uno dei momenti-chiave del conflitto con Londra. Nella primavera- estate del 1981 dieci giovani prigionieri rinchiusi nel carcere di Long Kesh cominciarono uno sciopero della fame che li avrebbe portati alla morte in rapida successione. Il primo era Bobby Sands, l’ultimo sarebbe stato Mickey Devine, il papà di Louise. Una manciata di anni fa la giovane donna ha visto incrinarsi tutte le tragiche ma confortanti certezze nelle quali aveva fino ad allora avvolto il suo incubo personale.

I martiri di Long Kesh. Mickey Devine è l'ultimo a destra, nella seconda fila

I capisaldi della sua vita hanno cominciato a sprofondare lentamente leggendo le pagine del libro Blanketmen, nel quale l’autore Richard O’Rawe – anch’egli reduce da quella tragica esperienza carceraria di trent’anni fa – ha raccontato l’esistenza di un accordo segreto formulato dal governo britannico che avrebbe potuto salvare la vita agli ultimi sei irlandesi in sciopero della fame. Un accordo che la leadership del partito Sinn Féin avrebbe rifiutato senza sottoporlo alle famiglie dei prigionieri in sciopero, perché voleva ottenere il massimo beneficio in termini elettorali dallo scontro carcerario. Se quell’accordo fosse stato accettato si sarebbero salvati in sei, tra questi c’era anche “Red Mickey”, il ragazzo di Derry con i capelli rossi, padre di due figli e militante del gruppo di estrema sinistra INLA. E’ certo che un libro – anche se contiene rivelazioni clamorose e molto documentate – non può bastare da solo a riscrivere la storia di un martirio contemporaneo, svalutandone l’utilità concreta oltre al significato epico. Ma da quando Blanketmen è apparso sugli scaffali delle librerie sono accadute molte cose che hanno purtroppo confermato la tesi del suo autore, che due anni fa è uscito con un altro volume – Afterlives – che arricchisce la vicenda di ulteriori particolari. Liam Clarke, uno dei veterani del giornalismo irlandese, ha poi scovato l’accordo originale consegnato in carcere da un emissario del governo di Londra. E a confermare tutto, alcune settimane fa, è giunta anche la pubblicazione di una serie di documenti declassificati dagli archivi di Stato britannici allo scadere della regola dei trent’anni. Ecco perché oggi Louise Devine si sente crollare la terra sotto i piedi e lancia un pesante atto d’accusa contro la dirigenza del Sinn Féin. “Esiste ormai una montagna di prove sull’esistenza di un’offerta degli inglesi, che fu accettata dalla direzione carceraria dell’IRA, ma venne respinta dalla dirigenza esterna – ha affermato la ragazza in un’intervista al quotidiano Sunday World – se papà avesse saputo di quella proposta, avrebbe terminato il suo sciopero. Era un uomo giovane con due figli che adorava e meno di due anni ancora da scontare in prigione. Aveva tutte le ragioni per continuare a vivere. Invece ha trascorso sessanta giorni d’agonia ed è morto per niente, perché gli inglesi erano già disposti a soddisfare quasi tutte le richieste dei prigionieri”. Louise ha detto di essere disgustata dai vertici partito repubblicano e ha chiesto un incontro urgente con Gerry Adams, Martin McGuinness e altri personaggi-chiave che 30 anni fa gestirono da fuori dal carcere quella fase drammatica. “Voglio delle risposte. Avevo solo cinque anni quando ho visto mio padre agonizzare e poi morire in quel campo di concentramento che era la prigione di Long Kesh. Mi sono seduta sul suo letto e lui non riusciva neanche a vedere me e mio fratello perché era cieco. Mi ricordo le lacrime che gli colavano sul viso quando l’abbiamo lasciato per l’ultima volta”. I Devine sono la prima famiglia di una vittima dello sciopero del 1981 che si scaglia frontalmente contro la leadership del Sinn Féin in seguito alle recenti rivelazioni.
RM