La vite triste di Svetlana, figlia di Stalin

indexForse neanche Freud, Jung e gli altri illustri teorici del Complesso di Edipo potrebbero spiegare in modo compiuto cosa significa essere figli di Stalin e rincorrere inutilmente un’esistenza normale, anche mezzo secolo dopo la morte di quel padre che si è cercato in tutti i modi di “uccidere”. Rosemary Sullivan, autrice di una nuova, monumentale biografia di Svetlana Alliluyeva Stalina (Stalin’s Daughter. The Extraordinary and Tumultuous Life of Svetlana Alliluyeva, Harper Collins) prova a farcelo comprendere al termine del suo libro, usando le parole della stessa protagonista: “nascere con un padre come Stalin significa essere già morti. La tua vita è già finita. Non puoi vivere in alcun modo se non facendo sempre riferimento al suo nome”. Morta recentemente all’età di 85 anni, nel 1967 Svetlana si era trasferita negli Stati Uniti dov’era diventata la più famosa dissidente sovietica e aveva provato a ricostruirsi una vita col nome di Lana Peters. Ma non era bastato per lasciarsi alle spalle gli orrori del padre e sfuggire al destino che l’aveva resa prigioniera dalla nascita.
Al Cremlino aveva avuto un’infanzia degna di una principessa: servita e riverita da tutori e governanti, circondata dall’amore dei parenti, unica e adorata figlia femmina del sovrano assoluto di un grande paese che la coccolava scrivendole lettere tenerissime e riempiendola di baci che odoravano di tabacco. Il suo magico mondo di bambina cominciò però a incrinarsi quando aveva appena sei anni: le dissero che sua madre era morta di peritonite e la portarono davanti alla sua bara aperta, affinché potesse darle l’ultimo bacio. Nadezhda Alliluyeva, seconda moglie del dittatore, si era in realtà tolta la vita sparandosi un colpo di pistola al cuore. Mentre i parenti e le persone che vedeva intorno a lei sparivano nel nulla, la piccola Svetlana cresceva ignara dell’esistenza dei Gulag, delle esecuzioni e delle feroci purghe decise dal padre contro chi ostacolava il suo cammino o era soltanto sospettato di farlo. Solo a diciassette anni venne a sapere che sua madre si era suicidata e che il suo primo amore, il regista ebreo Aleksei Kapler, era stato internato in un campo di lavoro siberiano per tenerlo lontano da lei.
Alla morte di Stalin nel 1953, ormai adulta, Svetlana affermò di essere distrutta dal dolore per la perdita del padre, nei cui confronti provava persino dei sensi di colpa. Da quel momento in poi, la sua vita sarebbe ruotata per sempre intorno al tragico paradosso che la costringeva a cercare di conciliare la figura del padre che l’aveva amata con quella del satrapo responsabile della morte di milioni di persone. Quando apprese la mostruosità dei crimini che aveva commesso senza provare alcun senso di colpa, quando capì che aveva sacrificato la propria umanità per perseguire il potere assoluto a qualsiasi costo, cercò in tutti i modi di prendere le distanze da lui. Ma non ci riuscì. Nel 1967, ancora profondamente odiata da chi aveva sofferto a causa sua e considerata invece una traditrice dai suoi sostenitori, Svetlana scappò negli Stati Uniti creando uno scandalo internazionale. Abbandonò i suoi figli, di 21 e 16 anni, scrivendo loro che “non è possibile essere sempre schiavi”. Ma neanche in Occidente trovò la pace interiore che cercava. Tra matrimoni fugaci e amicizie fasulle, sfruttata da tutti per il suo nome, alla disperata ricerca di un equilibrio emotivo, Svetlana tornò per un breve periodo in Russia, ai tempi di Gorbaciov, giusto in tempo per essere ripudiata per sempre dai suoi figli. Per il resto della sua vita avrebbe vissuto come una fuggitiva, scappando da un luogo all’altro, tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, cercando inutilmente di liberarsi dallo spettro e dalla tremenda eredità di suo padre. “Ovunque io vada – spiegò –, fosse anche in Australia o in qualche isola sperduta, rimarrò sempre prigioniera politica del suo nome”. Per realizzare le oltre settecento pagine di questa biografia – peraltro corredata da uno straordinario apparato iconografico – Rosemary Sullivan ha raccolto materiale inedito negli archivi del regime sovietico, del Kgb e della Cia, e si avvalsa anche della collaborazione della figlia della Alliluyeva, la nipote di Stalin.
RM

In memoria di Andrej Mironov

elenco_188310“Alla mia cara amica e collega Anna Politkovskaja è andata molto peggio”, ci aveva detto nell’intervista che ci rilasciò per Avvenire nel gennaio scorso. Andrej Mironov si riferiva al fatto che la nota giornalista russa era stata assassinata per il suo impegno a difesa dei diritti umani, mentre lui era stato “solo” condannato a quattro anni di carcere e tre di esilio interno da scontare in un campo di lavoro in Mordovia, riservato agli autori di crimini contro lo stato particolarmente pericolosi. Non erano gli anni dei gulag staliniani, ma quelli della perestrojka di Gorbaciov, alla metà degli anni ‘80. Il suo “crimine” era stato quello di aver distribuito clandestinamente un romanzo, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov, un potente atto d’accusa contro i gulag. Mironov è stato ucciso da un colpo di mortaio il 24 maggio scorso in Ucraina, dove si trovava insieme al fotografo italiano Andrea Rocchelli. L’aveva portato là il suo attivismo quasi missionario per i diritti umani. Aveva lavorato per lunghi anni nell’organizzazione non governativa Memorial, era stato in Tagikistan, in Afghanistan, nel Caucaso. Nel 2003, dopo aver più volte promosso incontri tra rappresentanti ceceni e parlamentari russi per favorire una soluzione pacifica del conflitto, era stato aggredito nel centro di Mosca e gravemente ferito. Nel dicembre dell’anno scorso aveva preso parte, ospite di Amnesty International, a una serie d’incontri pubblici in Italia, tra cui uno a Firenze, dove aveva parlato della drammatica situazione attuale in Russia. Ciao Andrej. Il tuo coraggio, il tuo impegno e la tua passione ci mancheranno.
RM

“Ora la mia Russia spera nella libertà”

La nostra intervista ad Andrej Mironov, difensore dei diritti umani, uscita oggi su Avvenire

annaFu tutta colpa di un libro. Per aver distribuito clandestinamente “I racconti della Kolyma” di Varlam Salamov – una cronaca agghiacciante dei gulag nell’omonima regione – il giornalista e attivista Andrey Mironov fu arrestato dalla polizia segreta russa, il Kgb, e condannato a quattro anni di detenzione e tre di esilio per propaganda sovversiva antisovietica. Era il 1985 e al potere a Mosca c’era ancora Gorbaciov. Mironov fu spedito in un gulag in Mordovia, e rinchiuso in cella di punizione, costretto a mangiare cibi pieni di vermi e a bere acqua sporca. Venne liberato dopo un anno e mezzo, grazie all’intercessione di Reagan e alla perestrojka che stava facendo il suo corso. Da allora ha iniziato a lavorare come ricercatore specializzato in diritti umani in diverse zone di conflitto: Nagorno Karabakh, Tagikistan, Afghanistan e soprattutto in Cecenia, dove ha provato a organizzare incontri tra rappresentanti ceceni e deputati russi per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Un’iniziativa destinata a rivelarsi fallimentare perché Mosca aveva già deciso di schiacciare l’insurrezione con la forza. Nel 2003 venne aggredito in circostanze misteriose riportando gravi ferite alla testa. “Alla mia cara amica e collega Anna Politkovskaja è andata molto peggio”, chiosa con amarezza, adesso che è tornato in Italia insieme ad Amnesty International e ad altre Ong per denunciare ancora una volta le gravi violazioni dei diritti umani nel suo paese. Durante la sua visita a Firenze, Mironov ci spiega in un ottimo italiano che purtroppo la Russia continua a dover essere identificata con Vladimir Putin e con la polizia politica che sta dietro di lui, con un enorme potere. “Dai tempi dell’Unione Sovietica non è cambiato molto sul piano dei diritti umani e della libertà d’opinione. È come se dopo Hitler in Germania fosse rimasta a comandare la Gestapo. Non è un caso che, oltre a Politkovskaja, negli ultimi anni abbiano fatto sparire altri quattro giornalisti della Novaja Gazeta, che è l’unico quotidiano che si permette di criticare la politica di Putin”.
Da alcuni anni Mironov collabora assiduamente con l’associazione Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani, che assiste i familiari delle vittime dei campi di concentramento sovietici. Ma il suo rischioso lavoro di denuncia si concentra soprattutto sul presente: “in Russia continua a esserci un pesante controllo dell’informazione, a tutti i livelli, basti pensare che i media russi hanno taciuto persino sulla notizia dell’ora di ritardo con cui Putin si è presentato in Vaticano, al recente incontro con papa Francesco”. Quanto alla Cecenia, altro grande tasto dolente del quale la stampa internazionale ormai non parla più, Mironov ci tiene a sottolineare quanto sia falsa l’immagine di pacificazione che Mosca è riuscita a far passare. “C’è sempre un regno di terrore in Cecenia – spiega – perché non si può stabilizzare un paese con la repressione e l’assenza di giustizia e diritto. Viceversa ci sono ancora uccisioni extragiudiziali, e le vittime non sono i terroristi ma gli operatori dei diritti umani”. Il dramma ceceno accende l’indignazione di questo anziano giornalista-attivista e il ricordo sempre vivo della sua amica Anna Politkovskaja torna a velargli gli occhi di tristezza. “Anna era una persona straordinaria, che aiutava le persone, che non sapeva dire di no a chi le chiedeva aiuto. La nostra collaborazione era costante e basata su ideali comuni. Mi manca tanto. Sia le indagini che stava portando avanti prima di morire che gli attentati subiti in precedenza fanno pensare a una precisa volontà di eliminarla da parte del regime”. Negli ultimi trent’anni della sua vita quest’uomo ha conosciuto una lunga scia di orrori che parte dagli ultimi gulag del regime sovietico agli orrori interni ed esterni della Russia del Terzo Millennio. Ha subito minacce e attentati. Ha visto amici, compagni e colleghi imprigionati, uccisi, spariti nel nulla. Eppure negli ultimi anni è riuscito a intravedere qualcosa che ha riacceso in  lui la speranza in un futuro migliore. “Vedo che sta crescendo una nuova generazione di ventenni e trentenni, che è finalmente orfana del paternalismo che caratterizzava il regime sovietico, e quindi non ha niente da perdere. Una generazione di giovani più liberi perché non si aspettano nulla dal potere, che cercano le notizie su internet invece che ascoltare le tv controllate dallo stato. Che si è indignata per l’evidente falsificazione degli ultimi risultati elettorali, e che per questo è scesa in piazza a protestare. Forse la società civile sta diventando più forte rispetto al passato, e non è più disposta a tollerare un regime autoritario fondato sulla paura”.
RM

Antifascisti sepolti nel Gulag

L’indifferenza di Togliatti per gli esuli arrestati in Urss nel nuovo saggio di Arrigo Petacco, “A Mosca, sola andata” (Mondadori)

gulag«Non rivedrò più te, né mio figlio, né fratelli, né compagni. E io che sognavo una morte gloriosa all’ombra di quella bandiera per cui ho dato e sono pronto a dare la vita! Mi trovo nella regione più infame che ci sia: 40 gradi di freddo e manca tutto. Guai se mi mettessi a raccontare quello che mi capita… Ti pare giusto arrestare altri dieci italiani solo perché erano miei amici, e tre operai russi che della mia questione non sanno nulla?». È straziante rileggere ? nel nuovo saggio di Arrigo Petacco A Mosca, solo andata, che la Mondadori manda oggi in libreria ? la lettera scritta dal Gulag alla moglie Angelina da Luigi Calligaris, un uomo che Leo Valiani ? confinato con lui a Ponza ? definì «una delle figure più eroiche della lotta antifascista», arrestato e deportato all’inizio delle purghe staliniane. «Angiolina mia, ti supplico, anche se non dovessi più scrivere, fin che hai un attimo di respiro insisti di voler sapere dove sono finito. Scrivi alla Croce Rossa, a Parigi, va a Roma dall’ambasciatore russo e insisti per sapere cosa hanno fatto di me. Se ti diranno che mi sono ammazzato, che sono finito sotto un’automobile, non credere e non credere neppure se ti mostrassero le firme dei testimoni. Questo (…) è il grido disperato di un comunista che, dopo avere visto la morte sui campi di battaglia della guerra imperialista e della lotta politica, non vuole fare una morte ingloriosa per mano dei propri fratelli». Continua a leggere “Antifascisti sepolti nel Gulag”

Shin e gli orrori dei gulag nordcoreani

Da “Avvenire” di oggi

Shin Dong-hyuk ha vissuto i primi ventitre anni della sua vita in un girone infernale di privazioni, lavori forzati e torture. Nato all’interno del Campo 14, uno dei peggiori campi di prigionia del regime nordcoreano, è cresciuto in un mondo dominato dai più bassi istinti di sopravvivenza senza conoscere mai né la libertà, né i più elementari sentimenti umani. Un mondo che l’ha spinto anche a  competere con sua madre per garantirsi il cibo ed evitare le brutali punizioni dei carcerieri. Il regime di Kim Il Sung l’aveva condannato a una vita di prigionia insieme a tutta la sua famiglia per vendicarsi dei suoi zii, disertori ai tempi della guerra di Corea. Ad appena quattro anni, Shin assistette per la prima volta a un’esecuzione all’interno del campo. A quattordici, vide sua madre e suo fratello mandati alla forca per aver organizzato un tentativo di fuga. In quella stessa occasione le guardie si accanirono anche contro di lui, torturandolo per otto mesi. Secondo le stime più attendibili sono circa 200.000 le persone attualmente rinchiuse nei campi nordcoreani e destinate a morire di stenti: Shin sarebbe ancora uno di loro se il 2 gennaio 2005 non fosse riuscito quasi per miracolo a eludere la sorveglianza e a scappare da quell’inferno per cominciare finalmente a vivere, nel vero senso della parola. È agghiacciante, eppure drammaticamente vera, la storia dell’unica persona nata nei lager nordcoreani che è riuscita a fuggire in Occidente. Blaine Harden, corrispondente dall’Asia per il Washington Post, l’ha raccontata per la prima volta nel libro Escape from Camp 14: One Man’s Remarkable Odyssey from North Korea to Freedom in the West. L’ha fatto senza limitarsi a compiere un viaggio nell’abisso degli indicibili orrori del regime di Pyongyang ma analizzando anche il lento processo di ricostruzione della vita di un uomo che ha conosciuto l’inferno sulla Terra. “Soltanto adesso Shin sta imparando a provare emozioni, prima non sapeva neanche cosa fossero – ci ha spiegato Harden – dice sempre che è uscito dal campo solo fisicamente, non ancora psicologicamente, e continua a fare i conti con il suo tremendo passato”. Continua a leggere “Shin e gli orrori dei gulag nordcoreani”

Gli orrori del regime di Ceausescu

Il modello di rieducazione sovietico teorizzato da Anton Makarenko. L’Isola Calva della Jugoslavia titoista. Il lavaggio del cervello cinese e cambogiano. Il laboratorio del dottor Josef Mengele: Auschwitz, Blocco 10. Qual è stata la verità antropologica profonda del totalitarismo che ha abbagliato con la sua luce corrusca il secolo scorso? Me lo sono chiesto, dentro un cupo e angoscioso sconcerto, leggendo questo libro bello e terribile che Dario Fertilio ha pubblicato per Marsilio e che s’intitola Musica per lupi. L’ha scritto, Fertilio, non soltanto con la curiosità del giornalista e la perizia dello storico, ma con la passione lucida e allucinata dello scrittore, consapevole d’accingersi a narrare l’inenarrabile. Non per niente, se deve pensare a libri che possano parlarci di luoghi analoghi alla «prigione solitaria, un centinaio di chilometri da Bucarest», dove questa storia si svolge dal 1949 al 1952, non può non riferirsi a due antecedenti letterari: Dracula di Bram Stoker e Le 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade. Qual è stata, insomma, la verità antropologica profonda dei totalitarismi novecenteschi? La risposta più semplice potrebbe essere questa: la decostruzione e la vanificazione, in nome dell’uomo nuovo del futuro, di qualsiasi antropologia. Se si considerano i detenuti, i perseguitati e i discriminati – scrive Fertilio – «la metà dei romeni ha sperimentato» l’universo concentrazionario. Ora attenti, però: siamo a Pitesti, dove la rivoluzione diventa finalmente permanente, ma come tortura. È qui che Eugen Turcanu («Un atleta sul tipo del pugile, un guerriero.
Impressionante la sua presa ferrea»), ex legionario ‘rieducato’ (e dunque con un passato di militanza fascista, nazionalista e antisemita) sperimenta, con geniale e atroce creatività, e contro Legionari dell’Arcangelo Michele, Guardie di ferro, monarchici e ogni sorta d’oppositori al regime, il più spietato sistema d’annullamento – di distruzione ed autodistruzione – della personalità, fondato sulla promiscuità tra carnefici e vittime, di cui i carnefici sono gli amici migliori e i confidenti. Con una ferocia tale che, nel 1954, lo stesso regime che l’aveva inventato è costretto a liberarsi di lui: chiudendo la pratica con una fucilazione. A Pitesti è stato possibile anche l’impossibile: soprattutto sul piano della complicità criminale tra aguzzini e vittime. In modo tale da rendere inutilizzabile una categoria come quella della ‘banalità del Male’ approntata da Hannah Arendt per gli orrori nazisti. C’è sempre una possibilità di perfezionamento nel Male. Scrive Fertilio: «Se il marchese De Sade voleva essere lupo, e il conte Dracula era lupo, gli smascheramenti condotti da Eugen Turcanu a Pitesti mirarono a trasformare tutti, indiscriminatamente, in belve». Testa di lupo e coda di drago sventolavano sulla bandiera dei Daci prima che i Romani occupassero questa terra. L’ululato del lupo è la voce di questo libro.
(Massimo Onofri da Avvenire, 1 maggio 2010)