Il modello di rieducazione sovietico teorizzato da Anton Makarenko. L’Isola Calva della Jugoslavia titoista. Il lavaggio del cervello cinese e cambogiano. Il laboratorio del dottor Josef Mengele: Auschwitz, Blocco 10. Qual è stata la verità antropologica profonda del totalitarismo che ha abbagliato con la sua luce corrusca il secolo scorso? Me lo sono chiesto, dentro un cupo e angoscioso sconcerto, leggendo questo libro bello e terribile che Dario Fertilio ha pubblicato per Marsilio e che s’intitola Musica per lupi. L’ha scritto, Fertilio, non soltanto con la curiosità del giornalista e la perizia dello storico, ma con la passione lucida e allucinata dello scrittore, consapevole d’accingersi a narrare l’inenarrabile. Non per niente, se deve pensare a libri che possano parlarci di luoghi analoghi alla «prigione solitaria, un centinaio di chilometri da Bucarest», dove questa storia si svolge dal 1949 al 1952, non può non riferirsi a due antecedenti letterari: Dracula di Bram Stoker e Le 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade. Qual è stata, insomma, la verità antropologica profonda dei totalitarismi novecenteschi? La risposta più semplice potrebbe essere questa: la decostruzione e la vanificazione, in nome dell’uomo nuovo del futuro, di qualsiasi antropologia. Se si considerano i detenuti, i perseguitati e i discriminati – scrive Fertilio – «la metà dei romeni ha sperimentato» l’universo concentrazionario. Ora attenti, però: siamo a Pitesti, dove la rivoluzione diventa finalmente permanente, ma come tortura. È qui che Eugen Turcanu («Un atleta sul tipo del pugile, un guerriero.
Impressionante la sua presa ferrea»), ex legionario ‘rieducato’ (e dunque con un passato di militanza fascista, nazionalista e antisemita) sperimenta, con geniale e atroce creatività, e contro Legionari dell’Arcangelo Michele, Guardie di ferro, monarchici e ogni sorta d’oppositori al regime, il più spietato sistema d’annullamento – di distruzione ed autodistruzione – della personalità, fondato sulla promiscuità tra carnefici e vittime, di cui i carnefici sono gli amici migliori e i confidenti. Con una ferocia tale che, nel 1954, lo stesso regime che l’aveva inventato è costretto a liberarsi di lui: chiudendo la pratica con una fucilazione. A Pitesti è stato possibile anche l’impossibile: soprattutto sul piano della complicità criminale tra aguzzini e vittime. In modo tale da rendere inutilizzabile una categoria come quella della ‘banalità del Male’ approntata da Hannah Arendt per gli orrori nazisti. C’è sempre una possibilità di perfezionamento nel Male. Scrive Fertilio: «Se il marchese De Sade voleva essere lupo, e il conte Dracula era lupo, gli smascheramenti condotti da Eugen Turcanu a Pitesti mirarono a trasformare tutti, indiscriminatamente, in belve». Testa di lupo e coda di drago sventolavano sulla bandiera dei Daci prima che i Romani occupassero questa terra. L’ululato del lupo è la voce di questo libro.
(Massimo Onofri da Avvenire, 1 maggio 2010)