La famiglia “desaparecida”

Avvenire, 13.3.2018

Non era mai successo, neanche nei giorni più bui della dittatura argentina, che la barbarie dei militari golpisti inghiottisse un’intera famiglia. “Arrivarono a casa nostra il 15 luglio del 1976, fecero saltare la porta d’ingresso con una bomba e portarono via i miei genitori, mio fratello, mia cognata e mia sorella di soli quindici anni. Io riuscii a salvarmi solo per caso, perché ero nascosto in casa di amici e neanche i miei sapevano dove fossi”.

La famiglia Tarnopolsky al completo (Daniel è il secondo da sinistra)

Quel giorno maledetto, Daniel Tarnopolsky aveva appena diciott’anni e all’improvviso si ritrovò solo, costretto a fare i conti con l’esilio e con un vuoto incolmabile. Trovò rifugio prima in Israele, poi in Francia, potendo contare soltanto su una nonna materna distrutta dal dolore e su una rete di amici di famiglia che lo aiutò a ricostruirsi una vita lontano dall’Argentina. “Quando di colpo niente esiste più perché te l’hanno strappato”, spiega, “ciò che resta è un buco impossibile da riempire, con ferite sanguinanti incurabili che per anni continuano a farti male”. Col trascorrere dei mesi le ricerche dei familiari si rivelano inutili, seguendo il triste copione di migliaia di altri desaparecidos, e al dolore, alla paura, all’incertezza e al senso di smarrimento si unisce l’impossibilità di comprendere le ragioni della loro scomparsa. I Tarnopolsky erano una famiglia ebrea di idee progressiste ma soltanto Sergio, il primogenito, era politicamente impegnato. I genitori di Daniel erano due professionisti: il padre, Hugo, era un chimico, la madre Blanca lavorava in ospedale come psicopedagoga, e il loro rapimento era apparentemente inspiegabile anche in quel periodo terribile. Solo molti anni dopo, grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, emerse che Sergio aveva provato a piazzare una bomba all’interno della Esma, la famigerata Scuola di meccanica della Marina, ma era stato scoperto. Dopo averla disinnescata, i militari avevano deciso di vendicarsi di lui accanendosi contro la sua famiglia. “Peraltro eravamo ebrei, e nella logica deviata dall’antisemitismo dei militari, questo costituiva un’aggravante”, spiega Daniel, che ha trascorso il resto della sua vita cercando di dare un senso a quel vuoto. Alcuni anni fa ha scritto un libro che è stato appena tradotto anche in italiano (Betina sin aparecer. La storia intima del caso Tarnopolsky, qudulibri, traduzione di Antonella Cancellier), nel quale ricostruisce la sua esperienza di sopravvissuto e la sua ricerca incessante di una giustizia terrena per quei crimini che cancellarono la sua famiglia. Nel 2004, dopo una coraggiosa battaglia legale, è riuscito a far condannare uno dei massimi esponenti della giunta militare golpista, l’ammiraglio Eduardo Massera. Già punito con l’ergastolo in precedenza per crimini contro l’umanità, Massera fu costretto a pagare un cospicuo risarcimento economico che Daniel ha interamente devoluto alle Abuelas de Plaza del Mayo, le nonne impegnate nella ricerca dei nipoti sottratti ai tempi della dittatura. Quello stesso anno il presidente Kirchner trasformò l’Esma, uno dei più orribili luoghi di tortura e di morte, dal quale passarono anche i suoi familiari, in un museo per la memoria di quei crimini. È in quel momento che Daniel decide di raccontare la sua storia di superstite rielaborando i tentativi di ricostruzione della sua vita che aveva compiuto fino ad allora. Quando tutto sprofondò intorno a lui, aveva sentito il bisogno di stabilire un legame tra la vita e la morte che lo aiutasse a sostenere le assenze eterne e prive di risposta dei suoi cari. Aveva trovato conforto nella mistica e nella religione. “Fin dai primi tempi, poiché non c’era alcun modo di conoscere la sorte dei miei familiari, dove si trovavano, se erano ancora vivi, iniziai a cercare informazioni anche con l’aiuto di veggenti e di medium. Tanti familiari di desaparecidos lo facevano, pur senza ammetterlo, per paura di essere giudicati”. Continua a leggere “La famiglia “desaparecida””

“Gli irlandesi torturati dall’esercito come a Guantanamo”

Intervista a padre Raymond Murray (Avvenire, 8.8.2017)

L’ultimo grande difensore dei diritti umani d’Irlanda vive nella cittadina di Armagh, in un piccolo quartiere di recente costruzione situato ai piedi della cattedrale di San Patrizio, sede primaziale di tutta l’isola. Monsignor Raymond Murray ha oggi più di ottant’anni e dopo aver speso la sua intera esistenza a denunciare le torture nelle carceri, gli omicidi extragiudiziali e gli errori giudiziari che hanno solcato il più lungo conflitto europeo dell’era moderna, attende da un mese all’altro la sentenza che potrebbe suggellare una vita di battaglie. A breve la Corte europea dei diritti umani dovrebbe pronunciarsi sul caso degli “incappucciati” (Hooded Men), quattordici cittadini cattolici dell’Irlanda del Nord che nel 1971 furono arrestati dall’esercito britannico senza alcuna accusa a loro carico e sottoposti per giorni a brutali tecniche di privazione sensoriale. “Londra aveva appena introdotto l’internamento senza processo per punire la popolazione dei ghetti cattolici che rivendicava i propri diritti e in un giorno d’agosto oltre trecento persone furono arrestate indisciminatamente”, ricorda padre Murray. “Quei quattordici uomini furono torturati a lungo, costretti a stare in piedi per ore con le gambe e le braccia divaricate, sottoposti a un costante e assordante rumore metallico, privati del sonno, del cibo e dell’acqua. É un caso estremamente simbolico perché costituì la premessa di quello che è successo in tempi più recenti in Afghanistan e in Iraq, sempre ad opera dell’esercito britannico e di quello statunitense”.
Continua a leggere ““Gli irlandesi torturati dall’esercito come a Guantanamo””

Nessuno tocchi la Cina. Atene fa infuriare l’UE

Da Il Venerdì di Repubblica, 7.7.2017

Ennesima battuta d’arresto per il “soft power” dell’Unione europea. Stavolta la diplomazia culturale di Bruxelles si è inceppata persino sul tema dei diritti umani, non riuscendo a trovare l’unanimità neanche per condannare le gravi violazioni del governo cinese. Per la prima volta, la dichiarazione che l’UE presenta periodicamente alle Nazioni Unite per evidenziare gli abusi degli stati di tutto il mondo – e che necessita del sì dei 28 membri dell’Unione – è stata bloccata dall’inaspettato veto della Grecia. Da alcuni anni Bruxelles ha iniziato a fare pressioni su Pechino denunciando il giro di vite nei confronti di avvocati, attivisti e giornalisti critici verso il regime. Amnesty international e le altre organizzazioni in difesa dei diritti umani criticano invece la Cina da sempre, denunciando apertamente la repressione di ogni forma di dissenso, la limitazione delle libertà e l’utilizzo sistematico della pena di morte. Per l’UE, che da anni cerca di accreditarsi come difensore dei diritti umani, la sorprendente decisione di Atene rappresenta un colpo durissimo, ed è stata definita ‘vergognosa’ dalla diplomazia europea. “Abbiamo agito sulla base di una posizione di principio – ha cercato di spiegare un portavoce del governo di Alexis Tsipras -. Sul tema dei diritti è previsto un dialogo tra l’UE e la Cina e riteniamo che quello sia un modo più efficiente e costruttivo di ottenere risultati”. Nessun ministro, né tantomeno il premier, ha avuto il coraggio di metterci la faccia, e la spiegazione del funzionario non ha convinto nessuno. Particolarmente irritante è apparsa la tempistica del veto, giunto poche ore dopo che i ministri delle finanze dell’Eurozona avevano approvato la nuova tranche di aiuti finanziari alla Grecia, stanziando 8,5 miliardi di euro per il rilancio della sua disastrata economia. Ma soprattutto c’è chi punta il dito nei confronti dei legami sempre più stretti tra Atene e Pechino. Dopo la privatizzazione del porto del Pireo – passato sotto il controllo della Cosco, la più grande compagnia di trasporti cinesi – le società e i fondi del Dragone continuano ad acquisire pezzi di Grecia nelle infrastrutture, nella logistica e nell’immobiliare. Con buona pace dei diritti umani.
RM

Srebrenica, il parco della memoria

Da “Avvenire” di oggi

Oltre 8mila alberi e piante per tenere viva la memoria del peggior crimine compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, per simboleggiare la risurrezione di altrettante vittime innocenti. Mentre si avvicina il ventesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, sono stati piantati i primi alberi del “Bosco della memoria 8372”, un progetto ideato dall’associazione bosniaca Muftijstvo Gorazde con il sostegno del governo, del cantone e del comune. srebrenica1Per dar vita al primo complesso memoriale del genere in Bosnia è stata scelta una collina che domina la cittadina di Gorazde, un’area di oltre quattro ettari di terreno al centro della quale sarà issato un grande fiore, simbolo di Srebrenica, verde al centro e circondato da undici petali bianchi. Ricorderà per sempre quello che accadde poco lontano da qui l’11 luglio del 1995, quando le truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic trucidarono almeno 8372 persone, in gran parte vecchi, bambini e ragazzi, macchiandosi del più grave atto di pulizia etnica delle guerre balcaniche degli anni ’90. Il parco ospiterà alberi di castagno, frassino e abete rosso – uno per ciascuna delle vittime del genocidio – oltre a diverse specie di piante, che si alterneranno a sentieri, terrazze con viste panoramiche e panchine per i visitatori. 
Sette arbusti saranno invece piantati per ricordare il mese del genocidio. Pochi giorni fa, nel corso della piantumazione delle prime piante, è stato spiegato che il progetto non è dedicato soltanto a Srebrenica, ma a tutte le vittime delle guerre, presenti e passate. “Dopo la Seconda guerra mondiale – ha detto il muftì di Gorazde, Remzija Pitic – abbiamo detto ‘mai più’, ma purtroppo il mondo non ha imparato alcuna lezione da quello che è accaduto a Srebrenica, come possiamo vedere oggi in Siria, in Iraq, in Ucraina e in molti altre parti del mondo. Vogliamo che questo parco della memoria ricordi per sempre i drammi del passato e contribuisca a evitare che drammi simili si ripetano in futuro”.
Il lancio del progetto “8372 Srebrenica Memorial Forest” inaugura di fatto le commemorazioni che si terranno come sempre l’11 luglio ma che quest’anno assumono un carattere particolare per via di un ventennale che purtroppo non si annuncia privo di polemiche, sia per l’annunciata defezione del presidente serbo Tomislav Nikolic, che ha già declinato l’invito all’annuale cerimonia che si tiene nella piana di Potocari, il luogo dove si consumò il dramma, sia per la sentenza d’appello che qualche settimana fa ha confermato l’assoluzione di Thomas Karremans, il comandante olandese delle truppe Onu accusato di non aver protetto le migliaia di sfollati che finirono nelle mani degli uomini di Mladic.
Non è un caso che un’iniziativa come quella del “Bosco della memoria 8372” nasca proprio a Gorazde, piccola cittadina bosniaca di poco più di 22mila abitanti a meno di cento chilometri da Sarajevo, sulla riva sinistra della Drina. Nella primavera del 1994 si consumò qua un tragico assedio da parte delle truppe serbo-bosniache, che si fecero beffe delle risoluzioni Onu uccidendo centinaia di persone in poco più di un mese. Le postazioni di artiglieria dell’esercito serbo-bosniaco guidate dal generale Mladic, appostate sulle colline circostanti, bombardarono la città a un ritmo di tre granate al minuto, mentre i carri armati colpivano dalla riva destra della Drina. La presunta “zona di sicurezza” di Gorazde che le Nazioni Unite avrebbero dovuto proteggere era in realtà destinata a rivelarsi un fallimento: l’enclave musulmana fu facilmente attaccata dai serbi, proprio come sarebbe accaduto l’anno dopo a Srebrenica, seppur con esiti assai più drammatici. Oggi, con un effimero senno di poi, si può affermare che la diplomazia internazionale avrebbe potuto – e dovuto – far tesoro di quanto accaduto a Gorazde per evitare il genocidio di Srebrenica.
RM

Verbitsky: da grande accusatore a colpevole?

horacio-verbitsky1-400x235Horacio Verbitsky, l’uomo che ha accusato pubblicamente e ripetutamente Jorge Mario Bergoglio di complicità con gli esponenti della dittatura militare argentina quando era provinciale dei Gesuiti nella seconda metà degli anni ’70, avrebbe lavorato per i dittatori militari del Paese dal 1978 al 1981 ed era sul loro libro paga. L’ha rivelato il blog argentino Plazademayo.com in un articolo intitolato Verbitsky: Con Dios y Con el Diablo (Verbitsky: Con Dio e Con il Diavolo), scritto da due reporter investigativi, Gabriel Levinas e Sergio Serrichio, che hanno trascorso più di un anno a indagare sulla questione e si sono avvalsi della testimonianza di personaggi chiave.
Nell’articolo i due – che sull’argomento stanno anche scrivendo un libro – offrono prove apparentemente inconfutabili che dimostrerebbero come Verbitsky, ex membro dei Monteneros, sia stato uno dei ghostwriter del capo della Giunta Militare del Paese, il brigadiere Omar Domingo Rubens Graffigna. Affermano anche che Verbitsky, insieme al commodoro Juan José Guiraldes e ad un altro collaboratore di nome Pedrerol, scrisse i discorsi dei massimi comandanti delle Forze Armate durante la dittatura. Descrivono Guiraldes come un “un intellettuale organico” delle Forze Armate, che ha avuto un’influenza sulla leadership della Giunta. Sulla base della testimonianza di tre testimoni indipendenti, affermano che Guiraldes – morto nel 2003 – fornì protezione a Verbitsky nelle settimane immediatamente successive al colpo di Stato militare del 24 marzo 1976 in una fattoria vicino Buenos Aires.
Gli autori dell’articolo rivelano che alla fine dell’aprile 2014 uno dei figli di Guiraldes ha trovato nella fattoria un manoscritto di 34 pagine con la grafia di Verbitsky, e affermano che vari documenti trovati lì provano che il 5 ottobre 1978 Verbitsky firmò un contratto di sei mesi in base al quale avrebbe ricevuto un pagamento mensile di 700.000 pesos. Hanno anche trovato le prove del fatto che avrebbe collaborato a un libro per un istituto delle Forze Armate pubblicato nel maggio 1979, El Poder Aereo de los Argentinos.
Altri documenti mostrano che Verbitsky firmò un nuovo contratto nel marzo 1981, e che questa collaborazione con le Forze Armate durò almeno 4 anni, dal 1978 al 1982.
Levinas e Serrichio scrivono che Verbitsky pose fine alla sua collaborazione con le Forze Armate subito dopo la sconfitta militare Argentina nelle Malvine. In seguito iniziò ad apparire in pubblico come reporter, e negli anni Novanta denunciò implacabilmente le violazioni dei diritti umani commesse negli anni della dittatura militare e la corruzione diffusa durante la presidenza di Carlos Menem.
Nel 2003, Verbitsky ha pubblicato il libro El Silencio (in italiano “L’isola del silenzio”), sul silenzio della Chiesa cattolica in Argentina negli anni della dittatura militare. Nel testo, ha accusato Bergoglio di complicità con la Giunta militare quando era provinciale dei Gesuiti nel Paese. In particolare, ha detto che ritirando a due sacerdoti gesuiti – Orlando Yorio e Francisco Jalics – la protezione del suo ordine, Bergoglio diede sostanzialmente il via libera al loro arresto da parte degli ufficiali della Marina nel maggio 1976. I due presbiteri vennero torturati. Bergoglio, allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires, negò l’accusa definendola una calunnia. Le prove oggi disponibili mostrano che egli non solo riuscì ad ottenere il rilascio dei sacerdoti quello stesso anno, ma salvò e aiutò molte altre persone durante gli anni della dittatura militare.
Secondo Levinas, uno degli autori dell’articolo, Verbitsky ha rifiutato la sua richiesta di un’intervista per il libro e si è limitato a rispondere solo ad alcune domande via e-mail attraverso la sua segretaria.

In carcere ma innocenti? Il caso dei “Craigavon Two”

Una ventina d’anni fa, lo splendido film “Nel nome del padre” di Jim Sheridan fece conoscere a tutto il mondo l’agghiacciante vicenda dei Guildford Four, i quattro irlandesi innocenti trasformati in capri espiatori dalla pseudo-giustizia britannica negli anni ’70, nel periodo più duro del conflitto anglo-irlandese.
Purtroppo la tragica storia degli errori giudiziari britannici rischia di ripetersi, nel colpevole silenzio dell’opinione pubblica odierna. Due irlandesi, John Paul Wooton e Brendan McConville, soprannominati i Craigavon Two, sono in carcere da cinque anni con l’accusa di aver ucciso nel 2009 un poliziotto nella cittadina irlandese di Craigavon, nella contea di Armagh. Il loro caso assomiglia terribilmente a quello dei Guildford Four: a loro carico non esistono prove e sono stati giudicati da uno dei vergognosi tribunali Diplock, privi di giuria e composti da un solo giudice. I due si sono sempre dichiarati innocenti e sono in carcere soltanto sulla base della deposizione di un testimone che si è contraddetto più volte, ha mentito sotto giuramento ed è stato poi anche sconfessato dalle prove forensi. La sua identità è stata tenuta inoltre nascosta agli avvocati della difesa per evitare esami incrociati delle deposizioni. E come se non bastasse, le impronte digitali riscontrate sull’arma usata per l’omicidio non coincidono con quelle di Wooton e McConville. Se l’imputazione a loro carico fosse stata portata di fronte a un tribunale europeo o statunitense, sarebbero stati sicuramente assolti. Invece sono stati entrambi condannati all’ergastolo, sebbene Wooton all’epoca dei fatti avesse appena 17 anni.

John Paul Wootton
John Paul Wootton

Viene spontaneo chiedersi perché dunque si trovino in prigione da cinque anni, e la risposta non può che essere di natura politica. Al tempo dei Guildford Four, esprimere dubbi sulla loro colpevolezza equivaleva a sostenere la violenza, quasi a essere un fiancheggiatore dell’IRA. Ma erano gli anni ’70, e il clima politico in Gran Bretagna era quello della “caccia all’irlandese”, con un sistematico ribaltamento dell’onere della prova a carico degli accusati, e un apparato politico e giudiziario che non si faceva alcuno scrupolo a far incarcerare per anni anche degli innocenti. Conlon, Hill, Richardson e Armstrong (noti come i Guildford Four) divennero i capri espiatori perfetti e rimasero in carcere quindici anni. Wooton e McConville, nonostante un clima politico completamente diverso, rischiano oggi di fare la loro stessa fine. La loro colpa, al momento attuale, è solo quella di essere due repubblicani irlandesi “dissidenti”, cioè contrari alla strategia politica inaugurata con il processo di pace del 1998 e sostenuta dal partito repubblicano maggioritario, lo Sinn Féin, che infatti non ha mosso un dito per chiedere un giusto processo per loro. Purtroppo oggi chi dissente dal pensiero unico espresso da quel partito viene automaticamente considerato un sostenitore della lotta armata, con conseguenze che possono rivelarsi devastanti.
RM

La Spagna finanziò la dittatura argentina

juan carlos_videla
Dopo anni di accurate ricerche, il giornalista d’origine argentina Danilo Albin è riuscito a dimostrare che la Spagna firmò accordi economici con l’Argentina durante la dittatura di Videla e dunque aiutò i militari della giunta guidata da Videla a mettere in atto le terribili tattiche di sterminio del popolo argentino. Lo rivela in una clamorosa inchiesta appena pubblicata sul periodico spagnolo Público secondo la quale, nei primi anni del regno di re Juan Carlos, la Spagna sottoscrisse accordi milionari con il sanguinoso regime del dittatore argentino. Intese commerciali che nella seconda metà degli anni ’70 permisero all’Argentina di ricevere crediti dalla Spagna e coprire le spese causate dalla repressione.
Juan Carlos di Borbone, re di Spagna dal 1975 fino al giugno scorso – quando ha abdicato in favore del figlio Felipe – sarebbe stato, secondo il giornale, tra le figure responsabili di tale accordi. Nella sua intensa campagna alla ricerca di soci facoltosi, la giunta militare di Buenos Aires avrebbe anche contattato il potente banchiere spagnolo Emilio Botín, affinché il banco Santander recuperasse le due filiali che erano state nazionalizzate dai peronisti.
L’autore dell’inchiesta, Danilo Albin, sostiene inoltre che il rapporto tra i due governi è andato ben oltre la cooperazione commerciale. “C’è stata una collaborazione molto stretta che si mantenne in segreto tra entrambi i paesi. Continueremo a fornire prove che le relazioni tra la Spagna di Juan Carlos e Adolfo Suarez, e Videla in Argentina e i voli della morte sono andati molto più in là dei semplici accordi economici “, ha detto Albin, la cui inchiesta prosegue e sarà pubblicata a puntata sul giornale Pùblico. Il direttore del periodico spagnolo, Carlos Enrique Bayo, ha aggiunto che esistono documenti segreti (ancora classificati come riservati) che dimostrano il coinvolgimento diretto di Juan Carlos. L’ex re sarebbe stato infatti incaricato di facilitare, in qualità di mediatore, gli accordi tra la Spagna della transizione e l’Argentina dei voli della morte. Accordi che di fatto sostennero una dittatura alla ricerca di finanziamenti per continuare la sua brutale repressione.

Nelle carceri irlandesi si tortura come 30 anni fa

Ci voleva l’omicidio del cinquantaduenne David Black, la prima guardia carceraria uccisa dai repubblicani irlandesi in quasi vent’anni, per svegliare la stampa e l’opinione pubblica britannica sulle condizioni delle carceri del Nord Irlanda. Martedì scorso Black è stato ucciso in un’imboscata in pieno giorno, sull’autostrada che collega Belfast a Dublino, risuscitando d’un sol colpo i fantasmi che si credeva fossero stati ormai da tempo consegnati alla storia. Aveva oltre trent’anni di esperienza come agente di sorveglianza: la sua carriera era cominciata nel supercarcere di Maze ai tempi di Bobby Sands ed era proseguita nella famigerata prigione di Maghaberry, dove tuttora sono rinchiusi decine di dissidenti repubblicani. Quello che appare certo è che chi gli ha sparato voleva mandare un messaggio alle autorità carcerarie, sbattendo in prima pagina le torture e le feroci perquisizioni corporali che vengono giornalmente compiute all’interno della prigione. Oggi come trent’anni fa, nonostante gli Accordi di Stormont del 1998 e a dispetto di tutto lo sproloquiare sul processo di pace ‘esemplare’, le più autorevoli organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani (Amnesty International in testa) denunciano le condizioni terribili nelle quali versano i prigionieri politici e l’utilizzo di uno strumento coercitivo il cui semplice nome ha il potere di evocare tristi ricordi del passato: l’internamento senza processo. In un recente resoconto che non può non mettere i brividi, Alan Lundy ha raccontato come si vive ancora oggi a Maghaberry.
La verità è che mentre ex capi di Stato Maggiore dell’I.R.A. stringono la mano della Regina, mentre Cameron chiede simbolicamente scusa per i massacri del passato (ma si guarda bene dal perseguirne i responsabili), mentre Londra si accolla buona parte del debito pubblico irlandese, le carceri del Nord Irlanda sono tornate a essere quelle di trent’anni fa, con abusi e torture, incarcerazioni arbitrarie e prigionieri politici che, proprio come in passato, rifiutano di lavarsi, di radersi e spalmano i loro escrementi sui muri delle celle. La prigione di Long Kesh, uno dei simboli del conflitto, è stata chiusa nel 2000 ma il sistema carcerario nordirlandese è rimasto quello ante-1998 e gran parte dei secondini, dei funzionari e dei dirigenti sono rimasti quelli di allora, nonostante la loro lunga storia di abusi e vessazioni perpetrate soprattutto nei confronti della comunità cattolico-nazionalista. Un panorama reso ancora più esplosivo dal silenzio e dall’omertà dei principali mezzi d’informazione britannici.
RM

Mezzo secolo di carcere per Videla

L’ex dittatore argentino ha ricevuto finalmente una sentenza di condanna esemplare per il rapimento dei figli dei desaparecidos durante la dittatura.

L’ex dittatore argentino Jorge Rafael Videla è stato condannato a 50 anni di carcere per il sequestro dei figli dei desaparecidos durante l’ultimo regime militare (1976-1983). Videla, 87 anni fra meno di un mese, già condannato all’ergastolo due anni fa, è detenuto nella prigione militare di Campo de Mayo alla periferia della capitale argentina.
Insieme a Videla sono stati condannati, per lo stesso reato, altri esponenti della giunta fra i quali il generale Reynaldo Brignone, ultimo capo del regime militare, a 15 anni; e Jorge Acosta, “el Tigre”, che diresse il campo di concentramento dell’Esma, la scuola tecnica della Marina, a 30 anni. La sentenza conclude una lunghissima battaglia giudiziaria iniziata sedici anni fa dall’associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo, le nonne dei bambini rubati ai genitori assassinati e consegnati segretamente in affidamento a famiglie di militari. Condannando Videla al massimo della pena prevista, i giudici del Tribunale hanno riconosciuto la tesi sostenuta dalle “Abuelas” e cioè che nel corso della dittutura i militari misero in atto un programma sistematico di sequestro dei bambini. Continua a leggere “Mezzo secolo di carcere per Videla”