In carcere chi nega la dittatura

Venerdì di Repubblica, 4 ottobre 2019

Punire con il carcere chi nega, giustifica o minimizza il genocidio perpetrato dalla dittatura militare argentina negli anni ‘70. È quanto prevede la proposta di legge presentata nelle settimane scorse da Horacio Pietragalla Corti, deputato di Unidad Ciudadana, il partito dell’ex presidente Cristina Kirchner che ha trionfato alle primarie dell’agosto scorso. “Se alle elezioni del 27 ottobre riusciremo a far cadere il presidente Macri la legge sarà sicuramente approvata dal nuovo parlamento argentino”, garantisce Pietragalla Corti. Secondo il deputato 43enne l’Argentina deve imitare la Germania e altri paesi, che da anni sanzionano con la galera il negazionismo dell’Olocausto. Il suo disegno di legge va in quella direzione, e se il condannato è un funzionario dello Stato prevede anche l’interdizione dalle cariche pubbliche per un periodo di tempo pari al doppio della condanna.

Horacio Pietragalla Corti

“Purtroppo negli ultimi anni il mio paese ha fatto enormi passi indietro in tema di diritti umani”, spiega. “Il presidente di centrodestra Mauricio Macri ha fatto venir meno il consenso sulla gravità dei crimini commessi dalla dittatura tra il 1976 e il 1983. Ha messo in discussione il numero dei desaparecidos e continua a negare che nel nostro paese sia stato compiuto un genocidio”. Ma ancor più grave – denuncia Pietragalla Corti – è il fatto che questo governo abbia interrotto il percorso di democratizzazione delle forze dell’ordine e dell’esercito, incoraggiando nuovamente l’uso della forza indiscriminata. “In Argentina abbiamo di nuovo i prigionieri politici, molti di essi sono ex funzionari del governo precedente che si trovano in carcere senza alcuna condanna”. Da sempre impegnato nella difesa dei diritti umani, Pietragalla Corti non è un deputato come tutti gli altri: nel 2003, all’età di 27 anni, scoprì di essere figlio di due desaparecidos uccisi all’inizio della dittatura. A cinque mesi venne rapito dal tenente colonnello Hernán Tefzlaff che lo affidò alla sua governante. Ma crescendo iniziò ad avere sospetti sulla sua vera identità. Decise di sottoporsi al test del Dna dopo aver visto sul sito delle Nonne di Plaza de Mayo la foto di Liliana Corti, una vittima della dittatura che si sarebbe rivelata la sua vera madre. Oggi Horacio è uno degli uomini di punta della coalizione guidata dal candidato presidente Alberto Fernández. “Se vincereremo le prossime elezioni – conclude – saremo chiamati a ricostruire l’economia argentina dalle macerie lasciate dall’ultimo governo ma dovremo anche tornare a occuparci di diritti umani. Ad esempio ripristinando l’inchiesta parlamentare sulle aziende che furono complici della dittatura. Anche quella è stata insabbiata da Macri”.
RM

I mondiali della vergogna

Focus Storia n. 140, giugno 2018

Quelli che si giocarono nel 1978 in Argentina saranno sempre ricordati come “i mondiali della vergogna”. Mai come in quell’occasione lo sport più popolare, il calcio, venne trasformato in un colossale strumento di propaganda da una feroce dittatura militare. Il trionfo sportivo della squadra di casa rappresentò l’apice del consenso internazionale per il regime e servì a coprire i terribili crimini che stava commettendo. Mentre gli occhi del mondo erano puntati sui campi di calcio, a poca distanza dagli stadi dove si sfidavano i migliori giocatori del mondo continuò a funzionare a pieno ritmo la macchina della repressione. Nei luoghi di prigionia languivano decine di migliaia di oppositori politici veri e presunti. Ogni giorno le persone venivano rapite e fatte sparire, alimentando il terrore inaugurato due anni prima, con il colpo di stato del 24 marzo 1976. Alcuni superstiti hanno raccontato che durante le partite del Mondiale sia le torture che i “voli della morte” – con i quali le vittime erano gettate vive nell’Oceano – venivano sospese ma al fischio finale tutto riprendeva come prima, come se niente fosse. Dal primo al venticinque giugno di quarant’anni fa, i giorni in cui si svolsero quei campionati del mondo, l’elenco dei desaparecidos si allungò con altri 63 nomi.
Eppure quasi tutti fecero finta di non sapere quanto stava accadendo a Buenos Aires e nelle altre città del paese. Nessuna federazione calcistica prese neanche in considerazione l’ipotesi di rifiutare la partecipazione al torneo. Nessun giocatore rilasciò dichiarazioni di critica del regime o a sostegno delle vittime, sostenendo che il calcio dovesse restare estraneo alla politica. Al ritorno nei loro paesi, i calciatori e gli addetti ai lavori portarono come unico ricordo della dittatura la presenza asfissiante dei militari nei ritiri e negli spostamenti. Il capitano della squadra tedesca, Berti Vogts, dichiarò: “L’Argentina è un paese dove regna l’ordine. Io non ho visto nessun prigioniero politico”. Qualcuno si illuse che la mancata partecipazione al torneo di Johann Crujiff, all’epoca il più grande calciatore del mondo, fosse un gesto di protesta politica; ma anni dopo lo stesso giocatore olandese spiegò che la sua assenza era dovuta al tentativo di rapimento subito mesi prima a Barcellona, che lo aveva convinto a limitare gli spostamenti.
Per Jorge Rafaèl Videla, il dittatore argentino, quel palcoscenico straordinario fu un regalo della storia che giunse quasi inaspettato. I mondiali erano stati infatti assegnati al paese sudamericano una decina d’anni prima, in base alla regola in vigore all’epoca dell’alternanza tra Europa e America. La giunta militare, al potere da due anni, decise di sfruttarli al massimo per ottenere il consenso del popolo e rafforzare la propria immagine internazionale. Fiumi di denaro pubblico furono impiegati senza curarsi della crisi economica in corso in un paese fortemente impoverito. La manifestazione costò una cifra quattro volte superiore a quella che la Spagna avrebbe speso quattro anni dopo, per ospitare i mondiali del 1982. Sullo sfondo delle partite tutti avrebbero visto un paese efficiente, senza miseria, né violenza. I quartieri malfamati di Buenos Aires e di Rosario vennero abbattuti prima del calcio d’inizio, gli arresti furono intensificati arrivando a circa duecento al giorno, per impedire contatti tra i dissidenti e la stampa estera. Il giornalista argentino Pablo Llonto, che nel 1978 seguì i Mondiali per il più importante quotidiano di Buenos Aires, Clarìn, ha raccontato nel suo libro I mondiali della vergogna che i militari riuscirono a imporre il silenzio ai giornalisti di tutto il mondo, costringendoli a scrivere solo di calcio, evitando ogni riferimento alla società, alla politica e all’economia. La stampa argentina obbedì quasi totalmente agli ordini del regime tacciando i contestatori e gli esuli di essere “antiargentini” e descrivendo un paese tranquillo, ordinato e finalmente libero dai “sovversivi”. Nelle telecronache delle squadra di casa, il giornalista José Maria Muñoz irrideva i nemici della dittatura con un gioco di parole, ripetendo che gli argentini erano “derechos y humanos” (giusti e umani). L’unica forma di opposizione fu quella silenziosa delle Madri di Plaza de Mayo, che ogni giovedì sera si ritrovavano davanti al palazzo presidenziale, a Buenos Aires, e sfilavano in cerchio reclamando verità e giustizia per i figli scomparsi. Le loro manifestazioni vennero ignorate dai mezzi di informazione di tutto il mondo con l’unica eccezione della televisione olandese, che mandò in onda un servizio su quei coraggiosi cortei proprio nel giorno dell’inaugurazione dei Mondiali.
Ma per realizzare fino in fondo l’obiettivo della giunta militare, l’Argentina doveva vincere la coppa a tutti i costi. La guida della squadra fu affidata a Cesar Luis Menotti detto ‘El Flaco’, un allenatore di vedute politiche completamente opposte a quelle del regime ma ritenuto l’unico in grado di far vincere alla Selecciòn biancoceleste il primo titolo della sua storia. Su di lui, e su campioni come il capitano Daniel Passarella, il centravanti Mario Kempes e il regista Osvaldo Ardiles, si riversarono le speranze di una nazione. Dopo una prima fase poco convincente iniziata con la sconfitta contro l’Italia di Enzo Bearzot, l’Argentina arrivò in finale grazie a qualche arbitraggio favorevole e a una partita con il Perù che – come si sospettò fin da subito – era stata truccata per favorire la squadra di casa. Prima del fischio d’inizio il dittatore Videla si era presentato nello spogliatoio dei giocatori peruviani in compagnia del segretario di stato americano Henry Kissinger. La sfida si concluse con un clamoroso sei a zero per gli argentini, che sfruttando la differenza reti guadagnarono l’accesso alla finale a discapito del Brasile. Alcuni anni dopo, una dettagliata inchiesta del giornalista statunitense Tim Pears ha confermato che il governo argentino aveva regalato un milione di tonnellate di grano al Perù per “ammorbidire” i suoi giocatori.
Il 25 giugno 1978 Argentina e Olanda si sfidarono per l’atto conclusivo del Mondiale, davanti agli ottantamila spettatori che gremivano lo stadio monumentale di Buenos Aires. A poche centinaia di metri di distanza si trovava la famigerata Scuola di meccanica della Marina (Esma), il principale luogo di tortura del regime, eloquentemente definito l’“l’Auschwitz argentino” dallo scrittore Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio. Negli anni della dittatura (1976-1983) circa cinquemila persone furono rinchiuse là dentro e appena cinquecento ne sono uscite vive. Prima di scendere in campo per la finale, Menotti chiese ai suoi uomini di giocare per alleviare il dolore del popolo e non per i generali seduti in tribuna d’onore. Al termine della partita la nazionale argentina sconfisse quella olandese per tre a uno dopo i tempi supplementari, aggiudicandosi il trofeo e facendo esplodere la festa in tutto il paese. Per i militari fu un trionfo che consacrò il regime agli occhi del mondo. Anche grazie a quella vittoria, i generali poterono contare su altri cinque anni di silenzio e di impunità.
RM

La famiglia “desaparecida”

Avvenire, 13.3.2018

Non era mai successo, neanche nei giorni più bui della dittatura argentina, che la barbarie dei militari golpisti inghiottisse un’intera famiglia. “Arrivarono a casa nostra il 15 luglio del 1976, fecero saltare la porta d’ingresso con una bomba e portarono via i miei genitori, mio fratello, mia cognata e mia sorella di soli quindici anni. Io riuscii a salvarmi solo per caso, perché ero nascosto in casa di amici e neanche i miei sapevano dove fossi”.

La famiglia Tarnopolsky al completo (Daniel è il secondo da sinistra)

Quel giorno maledetto, Daniel Tarnopolsky aveva appena diciott’anni e all’improvviso si ritrovò solo, costretto a fare i conti con l’esilio e con un vuoto incolmabile. Trovò rifugio prima in Israele, poi in Francia, potendo contare soltanto su una nonna materna distrutta dal dolore e su una rete di amici di famiglia che lo aiutò a ricostruirsi una vita lontano dall’Argentina. “Quando di colpo niente esiste più perché te l’hanno strappato”, spiega, “ciò che resta è un buco impossibile da riempire, con ferite sanguinanti incurabili che per anni continuano a farti male”. Col trascorrere dei mesi le ricerche dei familiari si rivelano inutili, seguendo il triste copione di migliaia di altri desaparecidos, e al dolore, alla paura, all’incertezza e al senso di smarrimento si unisce l’impossibilità di comprendere le ragioni della loro scomparsa. I Tarnopolsky erano una famiglia ebrea di idee progressiste ma soltanto Sergio, il primogenito, era politicamente impegnato. I genitori di Daniel erano due professionisti: il padre, Hugo, era un chimico, la madre Blanca lavorava in ospedale come psicopedagoga, e il loro rapimento era apparentemente inspiegabile anche in quel periodo terribile. Solo molti anni dopo, grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, emerse che Sergio aveva provato a piazzare una bomba all’interno della Esma, la famigerata Scuola di meccanica della Marina, ma era stato scoperto. Dopo averla disinnescata, i militari avevano deciso di vendicarsi di lui accanendosi contro la sua famiglia. “Peraltro eravamo ebrei, e nella logica deviata dall’antisemitismo dei militari, questo costituiva un’aggravante”, spiega Daniel, che ha trascorso il resto della sua vita cercando di dare un senso a quel vuoto. Alcuni anni fa ha scritto un libro che è stato appena tradotto anche in italiano (Betina sin aparecer. La storia intima del caso Tarnopolsky, qudulibri, traduzione di Antonella Cancellier), nel quale ricostruisce la sua esperienza di sopravvissuto e la sua ricerca incessante di una giustizia terrena per quei crimini che cancellarono la sua famiglia. Nel 2004, dopo una coraggiosa battaglia legale, è riuscito a far condannare uno dei massimi esponenti della giunta militare golpista, l’ammiraglio Eduardo Massera. Già punito con l’ergastolo in precedenza per crimini contro l’umanità, Massera fu costretto a pagare un cospicuo risarcimento economico che Daniel ha interamente devoluto alle Abuelas de Plaza del Mayo, le nonne impegnate nella ricerca dei nipoti sottratti ai tempi della dittatura. Quello stesso anno il presidente Kirchner trasformò l’Esma, uno dei più orribili luoghi di tortura e di morte, dal quale passarono anche i suoi familiari, in un museo per la memoria di quei crimini. È in quel momento che Daniel decide di raccontare la sua storia di superstite rielaborando i tentativi di ricostruzione della sua vita che aveva compiuto fino ad allora. Quando tutto sprofondò intorno a lui, aveva sentito il bisogno di stabilire un legame tra la vita e la morte che lo aiutasse a sostenere le assenze eterne e prive di risposta dei suoi cari. Aveva trovato conforto nella mistica e nella religione. “Fin dai primi tempi, poiché non c’era alcun modo di conoscere la sorte dei miei familiari, dove si trovavano, se erano ancora vivi, iniziai a cercare informazioni anche con l’aiuto di veggenti e di medium. Tanti familiari di desaparecidos lo facevano, pur senza ammetterlo, per paura di essere giudicati”. Continua a leggere “La famiglia “desaparecida””

L’ultima voce delle “matite spezzate”

Avvenire, 26.4.2016

Le giovanissime vittime della "Notte delle matite spezzate"
Le giovanissime vittime della “Notte delle matite spezzate”

C’è una linea di continuità universale, indistruttibile, che unisce e valorizza la memoria dei desaparecidos argentini, anche a 40 anni di distanza da quella immane tragedia. È l’amore. “Con la mia testimonianza di sopravvissuto ho voluto ‘liberare’ i miei compagni dal campo di concentramento perché per me rappresentano, sia a livello individuale che collettivo, una storia d’amore. E oggi vivono attraverso i tanti giovani che scoprono la loro storia, cercando di essere liberi, formando la propria identità, amando e riflettendo sulla necessità di cambiare un presente che soffoca il loro sogno di una società giusta, senza sofferenze”. A parlare è Pablo Diaz, l’unico sopravvissuto ancora in vita della “Notte delle matite spezzate”, uno degli episodi più terribili avvenuti negli anni della dittatura militare argentina. Nel 1976 faceva parte del movimento degli studenti medi di La Plata, giovanissimi militanti decisi a rivendicare il boleto estudiantil, una tessera-sconto sui libri di testo e sul prezzo del biglietto dell’autobus. Già pedinati e schedati per le loro marce di protesta per il diritto allo studio, furono rapiti uno a uno dagli squadroni della morte del regime golpista, che li considerava pericolosi sovversivi da annientare. I ragazzini e le ragazzine di La Plata vennero condotti nel centro di detenzione clandestina di Arana, torturati a colpi di unghie strappate e scosse elettriche, lasciati morire di fame e di freddo, e poi fatti sparire. Pablo Diaz si è salvato per uno scherzo del destino. Venne liberato e ‘istituzionalizzato’, cioè messo in un carcere alla luce del sole, perché secondo la logica deviata dei militari golpisti un testimone di quelle atrocità sarebbe servito a terrorizzare ancora di più la comunità.
“Quando lasciai i miei compagni nel campo clandestino denominato Pozzo di Banfield me ne andai sentendo le loro urla, che non dimenticherò mai. Giurai a me stesso che sarebbero usciti anche loro”, ci racconta oggi, a 40 anni dall’inizio della dittatura. “Tornato in libertà, fui ossessionato da quel giuramento. Detti la mia testimonianza per quanto mi fu possibile, riversando quell’orrore sulla società. La storia collettiva e pubblica si è tramutata a poco a poco in vergogna e dolore silenzioso. Però mancava ancora qualcosa. Quella ‘notte’ era anche fatta di storie individuali di giovanissimi. Io conoscevo i loro nomi, le loro voci, e dovevo trovare una via d’uscita da quell’orrore. Quella possibilità mi è stata offerta da un film e da un libro, che mi hanno dato modo di raccontare tutto. Quando le sale si sono riempite di giovani che piangevano e si abbracciavano, ho capito che quelli che erano rimasti nell’oscurità erano tornati finalmente alla luce. Erano usciti dal Pozzo per non tornarci mai più”.
A far conoscere al mondo la tragica vicenda della ‘Notte delle matite spezzate’ fu il bel film omonimo di Hector Olivera, uscito nel 1986 proprio grazie alla coraggiosa testimonianza di Pablo Diaz. Da allora, il percorso compiuto dall’Argentina verso la verità e la giustizia è stato complesso e sofferto, ma ha ottenuto grandi risultati. Il dittatore Videla è morto in carcere e i processi sono riusciti in molti casi a fare giustizia, condannando molti dei responsabili. “Per me la giustizia coincide con la verità per i familiari che continuano a sopportare la mancanza dei loro cari”, spiega Diaz. “Non penso necessariamente alla morte come alternativa a una condanna mancata, mi aspetto però che le società giuste sappiano riparare a tanto dolore e a tanta vergogna”. Purtroppo ancora oggi, in contesti e paesi differenti, si verificano fatti tragicamente simili a quanto accadeva tutti i giorni nell’Argentina degli anni ’70, come la vicenda di Giulio Regeni in Egitto. “Quando le storie di ingiustizia si ripetono nella loro selvaggia crudeltà – commenta Diaz – l’umanità perde un pezzo della sua ragione. Per anni ho conservato un profondo risentimento nei confronti degli esseri umani. Dopo essere stato violato e torturato, mi sono sentito lacerato. Ma poi ho ricominciato a credere nelle persone, e credo che le storie di ingiustizia servano a rinforzare l’uomo buono”. Tra i giovanissimi desaparecidos della Notte delle matite spezzate c’era anche la sua fidanzata, Claudia Falcone, di appena 16 anni. “I miei compagni scomparsi in realtà non sono mai scomparsi davvero”, conclude Pablo Diaz. “Lo so che sembra un controsenso, però è l’assoluta verità. Ce lo dimostra l’amore per il compagno che è al nostro fianco, la continuità etica dell’impegno sociale e l’esito della lotta per i diritti collettivi per far si che tutti abbiano uguale diritto all’istruzione. I miei compagni che non ci sono più vivono ancora negli studenti di oggi”.
RM

Verbitsky: da grande accusatore a colpevole?

horacio-verbitsky1-400x235Horacio Verbitsky, l’uomo che ha accusato pubblicamente e ripetutamente Jorge Mario Bergoglio di complicità con gli esponenti della dittatura militare argentina quando era provinciale dei Gesuiti nella seconda metà degli anni ’70, avrebbe lavorato per i dittatori militari del Paese dal 1978 al 1981 ed era sul loro libro paga. L’ha rivelato il blog argentino Plazademayo.com in un articolo intitolato Verbitsky: Con Dios y Con el Diablo (Verbitsky: Con Dio e Con il Diavolo), scritto da due reporter investigativi, Gabriel Levinas e Sergio Serrichio, che hanno trascorso più di un anno a indagare sulla questione e si sono avvalsi della testimonianza di personaggi chiave.
Nell’articolo i due – che sull’argomento stanno anche scrivendo un libro – offrono prove apparentemente inconfutabili che dimostrerebbero come Verbitsky, ex membro dei Monteneros, sia stato uno dei ghostwriter del capo della Giunta Militare del Paese, il brigadiere Omar Domingo Rubens Graffigna. Affermano anche che Verbitsky, insieme al commodoro Juan José Guiraldes e ad un altro collaboratore di nome Pedrerol, scrisse i discorsi dei massimi comandanti delle Forze Armate durante la dittatura. Descrivono Guiraldes come un “un intellettuale organico” delle Forze Armate, che ha avuto un’influenza sulla leadership della Giunta. Sulla base della testimonianza di tre testimoni indipendenti, affermano che Guiraldes – morto nel 2003 – fornì protezione a Verbitsky nelle settimane immediatamente successive al colpo di Stato militare del 24 marzo 1976 in una fattoria vicino Buenos Aires.
Gli autori dell’articolo rivelano che alla fine dell’aprile 2014 uno dei figli di Guiraldes ha trovato nella fattoria un manoscritto di 34 pagine con la grafia di Verbitsky, e affermano che vari documenti trovati lì provano che il 5 ottobre 1978 Verbitsky firmò un contratto di sei mesi in base al quale avrebbe ricevuto un pagamento mensile di 700.000 pesos. Hanno anche trovato le prove del fatto che avrebbe collaborato a un libro per un istituto delle Forze Armate pubblicato nel maggio 1979, El Poder Aereo de los Argentinos.
Altri documenti mostrano che Verbitsky firmò un nuovo contratto nel marzo 1981, e che questa collaborazione con le Forze Armate durò almeno 4 anni, dal 1978 al 1982.
Levinas e Serrichio scrivono che Verbitsky pose fine alla sua collaborazione con le Forze Armate subito dopo la sconfitta militare Argentina nelle Malvine. In seguito iniziò ad apparire in pubblico come reporter, e negli anni Novanta denunciò implacabilmente le violazioni dei diritti umani commesse negli anni della dittatura militare e la corruzione diffusa durante la presidenza di Carlos Menem.
Nel 2003, Verbitsky ha pubblicato il libro El Silencio (in italiano “L’isola del silenzio”), sul silenzio della Chiesa cattolica in Argentina negli anni della dittatura militare. Nel testo, ha accusato Bergoglio di complicità con la Giunta militare quando era provinciale dei Gesuiti nel Paese. In particolare, ha detto che ritirando a due sacerdoti gesuiti – Orlando Yorio e Francisco Jalics – la protezione del suo ordine, Bergoglio diede sostanzialmente il via libera al loro arresto da parte degli ufficiali della Marina nel maggio 1976. I due presbiteri vennero torturati. Bergoglio, allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires, negò l’accusa definendola una calunnia. Le prove oggi disponibili mostrano che egli non solo riuscì ad ottenere il rilascio dei sacerdoti quello stesso anno, ma salvò e aiutò molte altre persone durante gli anni della dittatura militare.
Secondo Levinas, uno degli autori dell’articolo, Verbitsky ha rifiutato la sua richiesta di un’intervista per il libro e si è limitato a rispondere solo ad alcune domande via e-mail attraverso la sua segretaria.

La Spagna finanziò la dittatura argentina

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Dopo anni di accurate ricerche, il giornalista d’origine argentina Danilo Albin è riuscito a dimostrare che la Spagna firmò accordi economici con l’Argentina durante la dittatura di Videla e dunque aiutò i militari della giunta guidata da Videla a mettere in atto le terribili tattiche di sterminio del popolo argentino. Lo rivela in una clamorosa inchiesta appena pubblicata sul periodico spagnolo Público secondo la quale, nei primi anni del regno di re Juan Carlos, la Spagna sottoscrisse accordi milionari con il sanguinoso regime del dittatore argentino. Intese commerciali che nella seconda metà degli anni ’70 permisero all’Argentina di ricevere crediti dalla Spagna e coprire le spese causate dalla repressione.
Juan Carlos di Borbone, re di Spagna dal 1975 fino al giugno scorso – quando ha abdicato in favore del figlio Felipe – sarebbe stato, secondo il giornale, tra le figure responsabili di tale accordi. Nella sua intensa campagna alla ricerca di soci facoltosi, la giunta militare di Buenos Aires avrebbe anche contattato il potente banchiere spagnolo Emilio Botín, affinché il banco Santander recuperasse le due filiali che erano state nazionalizzate dai peronisti.
L’autore dell’inchiesta, Danilo Albin, sostiene inoltre che il rapporto tra i due governi è andato ben oltre la cooperazione commerciale. “C’è stata una collaborazione molto stretta che si mantenne in segreto tra entrambi i paesi. Continueremo a fornire prove che le relazioni tra la Spagna di Juan Carlos e Adolfo Suarez, e Videla in Argentina e i voli della morte sono andati molto più in là dei semplici accordi economici “, ha detto Albin, la cui inchiesta prosegue e sarà pubblicata a puntata sul giornale Pùblico. Il direttore del periodico spagnolo, Carlos Enrique Bayo, ha aggiunto che esistono documenti segreti (ancora classificati come riservati) che dimostrano il coinvolgimento diretto di Juan Carlos. L’ex re sarebbe stato infatti incaricato di facilitare, in qualità di mediatore, gli accordi tra la Spagna della transizione e l’Argentina dei voli della morte. Accordi che di fatto sostennero una dittatura alla ricerca di finanziamenti per continuare la sua brutale repressione.

Un eroe italiano nell’inferno di Buenos Aires

Avvenire, 23 ottobre 2013

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Enrico Calamai è stato un eroe dei nostri tempi, al pari di figure come Giorgio Perlasca, Guelfo Zamboni, Raoul Wallenberg. Nel 1976, quando la giunta militare prese il potere in Argentina con un colpo di stato, era un giovane diplomatico di stanza al Consolato italiano a Buenos Aires. Vide coi suoi occhi, nonostante tutti i tentativi di celare una repressione tanto brutale quanto silenziosa, un’intera generazione che veniva lentamente inghiottita in un buco nero fatto di rapimenti, torture, uccisioni. La sua coscienza si ribellò di fronte all’orrore e il suo coraggio gli consentì di salvare centinaia di oppositori politici del regime. Li nascose, fornì loro i documenti per l’espatrio, infine riuscì a farli scappare, mettendo spesso a rischio la propria vita. Purtroppo ebbe poco tempo per rendersi utile perché fu richiamato in Italia nel maggio 1977, poco più di un anno dopo il Golpe che innescò la repressione. “A Roma non vedevano di buon occhio il mio operato – ci racconta – e anche a causa degli schemi imposti all’epoca dalla Guerra Fredda, si preferì fingere di non sapere qual era la sorte di migliaia di persone, molte delle quali avevano origini italiane”.
È impossibile stabilire con certezza quante persone abbia salvato, anche perché Enrico Calamai è un uomo schivo che afferma di non sentirsi un eroe, ma di aver fatto solo quello che la sua coscienza gli impose di fare. Minimizza anche quando viene chiamato a raccontare la sua esperienza nelle scuole o in incontri pubblici come ha fatto nei giorni scorsi in Toscana, a Sesto Fiorentino e a Pontedera. Eppure, nel poco tempo che ebbe a disposizione, riuscì a impedire che gli elenchi dei desaparecidos diventassero ancora più lunghi e salvò tante vite umane, compromettendo infine anche la sua carriera. Si rese conto ben presto di cosa stava accadendo, anche perché anni prima aveva vissuto una situazione simile in Cile, in un consolato italiano che dopo il Golpe di Pinochet si era riempito rapidamente di rifugiati. “Quando la gente ha cominciato a venire al Consolato di Buenos Aires per chiedere aiuto, io non potevo far finta di non sapere che se queste persone fossero state respinte avrebbero fatto una brutta fine. Sarebbero state rapite, torturate, molto probabilmente anche uccise”. Fu allora che quel giovane funzionario divenne l’ultima frontiera tra la vita e la morte per un numero imprecisato di italiani d’Argentina. Era disposto a provarle tutte pur di salvare chi chiedeva il suo aiuto: fondamentale fu la collaborazione con un giornalista, l’inviato del Corriere della Sera Giangiacomo Foà, e con pochi altri che all’epoca accettarono rischi gravissimi pur di rispondere alla propria coscienza. “Ci fu il caso di un giovane sacerdote italiano, di cui purtroppo non ricordo il nome, al quale affidai un uomo e i suoi due figli in attesa di far loro avere i documenti necessari per l’espatrio. I tre furono tenuti nascosti per due mesi in un convento, prima di riuscire finalmente a imbarcarsi su un volo per Roma, dove trovarono la salvezza”.
Calamai ha atteso tanti anni per raccontare la sua storia. Al suo ritorno dall’Argentina era terribilmente scosso e a livello politico trovò una chiusura totale. “Fui portato a pensare – spiega – che ciò che mi portavo dentro fosse una manifestazione soggettiva stravolta di una realtà che non poteva esistere. Era talmente contraria alla logica, alle nostre categorie mentali e a quello che dovrebbe essere lo Stato, che non mi pareva vero. Nessuno mi ha mai interrogato, né si è mai interessato, per anni, a quello che avevo da raccontare. Nessuno di quelli con cui ho parlato mi ha creduto. Avevo la percezione di dire delle cose che non stavano né in cielo né in terra. Come se fossero, alla fine, solo delle mie fantasie stravolte, senza riscontro nella realtà”. Invece era tutto drammaticamente vero e anzi, la realtà superava di gran lunga l’immaginazione. La tortura sistematica nei centri di detenzione clandestina. Gli “aerei della morte” che gettavano le persone ancora vive nell’Oceano o nel Rio de la Plata. Circa trentamila persone scomparse. Il genocidio di un’intera generazione.
In anni recenti Calamai ha portato una testimonianza decisiva al processo, di fronte alla Corte d‘Assise di Roma, che è sfociato nella condanna di un gruppo di militari argentini. Il suo coraggio è stato pubblicamente riconosciuto dai parenti dei desaparecidos e dallo stesso stato argentino che nel 2004, per mano dell’allora presidente Kirchner, gli ha conferito la prestigiosa Cruz dell’Orden del Libertador San Martin. Oggi, questo eroe dei nostri tempi non vive di ricordi e ci tiene a sottolineare un parallelismo tra i desaparecidos argentini di trent’anni fa e i disperati di Lampedusa dei giorni nostri: “purtroppo certi fatti tragici della storia tendono a ripetersi. Il comportamento della società argentina e di quella internazionale, che all’epoca ignorarono o non trovarono la forza per reagire ai militari, ricorda in modo sinistro quello che accade oggi nel Mediterraneo. Con un’opinione pubblica italiana ed europea che ignora i danni collaterali della politica di potere dell’Occidente in Medioriente e in Africa. Le migliaia di persone che cercano la salvezza attraverso le nostre cose sono i desaparecidos del nuovo millennio”.
RM

‘Nunca más’, Vera Jarach è tornata in Italia

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“Finalmente in Argentina stiamo avendo giustizia”. Il tono di voce è come sempre pacato ma fermo. Le sue parole non trasudano mai odio, né rancore, per quello che ha subito insieme a migliaia di altre madri e parenti di vittime della dittatura argentina. Finché avrà vita, l’85enne italo-argentina Vera Vigevani Jarach continuerà la sua battaglia per tenere viva la memoria di un’intera generazione che è stata spazzata via dalla ferocia della dittatura militare argentina, tra il 1976 e il 1983. Il messaggio che l’anziana fondatrice delle “Madri di Plaza de Mayo” ha lanciato due giorni fa durante un incontro pubblico alla periferia di Firenze, è come sempre un messaggio di speranza, stavolta finalmente coronato dalla consapevolezza che dopo decenni di lotta la giustizia sta finalmente arrivando. Il capo della giunta militare golpista, Jorge Videla, è morto alcuni giorni fa in carcere. Il fatto che abbia trascorso i suoi giorni in cella è di buon auspicio, perché ci fa capire che è finita l’epoca dell’impunità per i dittatori. Ma se la società argentina è finalmente riuscita a fare i conti con il suo tragico passato deve molto all’impegno e al coraggio poetico di personaggi come Vera, che meriterebbero molto più del premio Nobel per la pace. Il peso degli anni di lotta sembrano non scalfire la tempra di questa donna straordinaria, che è tornata nuovamente nel nostro paese alcuni giorni fa, per partecipare a un altro dei suoi “tour della memoria” attraversando molte città italiane per tramandare la memoria dei “desaparecidos”. Vera è la madre di Franca Jarach, fatta sparire dai militari nel 1976 a soli diciott’anni. Della ragazza non si è saputo più niente fino a qualche anno fa, quando un superstite dei campi di concentramento del regime ha raccontato che appena un mese dopo il sequestro i militari costrinsero Franca al cosiddetto “volo”, gettandola ancora viva nell’Oceano, dopo atroci torture. La storia di Vera, di Franca e dei 30.000 desaparecidos argentini riguarda l’Italia da vicino, perché tra le vittime della dittatura ci sono stati centinaia di italiani e di oriundi d’origine italiana. E anche perché la diplomazia italiana dell’epoca è stata perlomeno assente e ha avuto dunque un ruolo negativo nella tragedia della dittatura argentina. Le disperate richieste di aiuto inoltrate in quegli anni furono sempre respinte a causa dei vincoli economici tra l’Italia e l’Argentina. Fortunatamente la giustizia italiana, in particolare con i processi svolti in anni recenti dal tribunale di Roma è riuscita a riparare alle connivenze della politica durante il regime. Nell’ambito dei processi Esma e Condor del 2003 e del 2007 sono stati ascoltati tantissimi testimoni e sono state finalmente emesse delle condanne.

Nei prossimi giorni Vera Vigevani Jarach parteciperà a conferenze, dibattiti e incontri nelle scuole. Domani e il 30 maggio sarà a Ferrara, il 31 maggio a Padova. Dal 2 al giugno prenderà parte a iniziative pubbliche a Milano e a Varese. Dal 6 al 9 sarà invece a Torino, il 10 e l’11 a Bologna. Questo suo ennesimo viaggio italiano si concluderà infine a Roma, dove l’anziana attivista è attesa dal 12 al 15 giugno. Per info: www.24marzo.it

La morte di Videla e la fine dell’impunità per i dittatori

Videla, Massera, Agosti: la trinità del Demonio, i vertici di un esercito genocida che ha sterminato il proprio popolo. Che non ebbe pietà di donne e bambini, di giovani e vecchi, di laici e religiosi. Tre brutali assassini che guidarono le forze armate argentine nel più grande crimine contro l’umanità mai compiuto recentemente in tempo di pace. La storia identificherà sempre l’immane tragedia dei 30.000 desaparecidos coi loro volti, come la Shoah resterà nella storia con lo sguardo assassino di Adolf Hitler. Jorge Rafael Videla, morto due giorni fa all’età di 87 anni, è l’ultimo dei tre a lasciare questo mondo – Agosti morì nel 1997, Massera appena tre anni fa – ma è anche l’unico a trovare la morte in carcere. “L’inferno è poco”, recitava un eloquente striscione comparso in queste ore nelle strade di Buenos Aires. Di certo questa è la prima volta che un tiranno sanguinario, annoverabile a pieno titolo tra i più grandi criminali della storia del XX secolo, muore in prigione, da ergastolano. Un caso simile, anch’esso legato all’attualità di questi giorni, è quello dell’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, condannato a ottant’anni di carcere per genocidio: è ancora vivo ma tutto lascia pensare che finirà i suoi giorni in carcere. La morte in carcere di Videla riporta invece alla memoria, non senza rimpianto, il fatto che un assassino della medesima stazza, Augusto Pinochet, sia invece morto a 91 anni nella sua villa di Santiago, agli arresti domiciliari ma circondato dall’affetto della sua famiglia. Il macellaio cileno fu salvato dal carcere anche grazie all’amichevole collaborazione del governo britannico, che negò l’estradizione in Spagna durante il procedimento aperto contro di lui dal giudice Baltazar Garzòn. Già, perché di solito i dittatori cadono di fronte ai plotoni d’esecuzione o al fuoco nemico (basti pensare a Ceausescu, a Saddam Hussein, a Mussolini, a Hitler, ma sempre e comunque in conseguenza di un evento bellico) oppure muoiono nei loro letti (Stalin, Mao, Pol Pot e, appunto, Pinochet). È invece assai raro che muoiano in carcere. La fine di Videla rappresenta in questo senso un’eccezione e un inequivocabile segno dei tempi capace di farci ben sperare perché forse, anche se il Tribunale Penale Internazionale stenta a prendere forma concreta, la Storia ha finalmente smesso di garantire l’impunità ai dittatori.
E ora più che mai risulta indispensabile ricordare, mandare a memoria e far conoscere nelle scuole il volto e il pensiero di Videla, un feroce criminale che non ha mai mostrato il più piccolo rimorso nei confronti del suo operato. Al contrario, ha continuato fino all’ultimo a giustificare la brutalità degli anni della dittatura, defininendola una “guerra giusta”. “Nel 1975 – affermò appena tre anni fa durante l’ultimo processo che lo vide imputato – il paese era immerso nel caos creato da una cospirazione internazionale contro la democrazia. Verso coloro che pretendevano di imporre una tirannia, era necessaria una persecuzione come nei confronti dei ratti, poiché non meritavano di vivere su questo suolo. Non si è trattato di una guerra sporca, ma di una guerra giusta combattuta contro i sovversivi marxisti che, per ordine dell’Unione Sovietica, e di Cuba, la sua succursale latinoamericana, volevano sottoporre il Paese al loro sistema ideologico”.
RM