Dolours Price era una donna coraggiosa. Voleva un’Irlanda unita e libera dal giogo inglese e in gioventù non si era fermata di fronte a niente pur di vedere realizzati i suoi ideali. In carcere non aveva avuto paura né dell’isolamento, né della tortura. Non aveva esitato a intraprendere la più estrema delle proteste carcerarie: lo sciopero della fame. Aveva rifiutato il cibo a più riprese ed era stata alimentata con la forza, proprio come le suffragette d’inizio ‘900. Un tubo in bocca e quella poltiglia che ti scende in gola rischiando di soffocarti. Un vero e proprio strumento di tortura che le autorità britanniche non esitavano a usare cinicamente quando ritenevano controproducente la morte di un prigioniero in carcere. L’8 marzo 1973, insieme a sua sorella Marian, a Gerry Kelly, a Hugh Feeney e ad altri sei volontari della Belfast Brigade dell’I.R.A., Dolours si rese protagonista di uno degli episodi più spettacolari della guerra anglo-irlandese: l’attentato contro il tribunale di Londra, nel cuore della City. Lunedì scorso padre Raymond Murray, storico parroco del carcere femminile di Armagh, ha pronunciato una toccante omelia durante i suoi funerali, sottolineando le sue qualità umane, la sua spiccata sensibilità artistica e la sua vocazione nei confronti del proprio popolo, per il quale aveva sognato un’emancipazione che ancora stenta ad arrivare. Il processo di pace l’aveva allontanata dalla politica, l’aveva resa sempre più critica nei confronti della leadership del Sinn Féin, il partito che aveva incarnato a lungo le battaglie della sua vita. Negli ultimi anni si era sentita sconfitta, aveva iniziato ad abusare di alcol e droghe, fino al tragico epilogo di qualche giorno fa, che l’ha vista morire prematuramente a soli 62 anni.
Chi l’ha conosciuta racconta che la sua bellezza e il suo carisma avevano illuminato a lungo i ghetti nazionalisti di Belfast ovest. Continua a leggere “Dolours Price 1951-2013 (divisi anche di fronte alla morte)”
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Nelle carceri irlandesi si tortura come 30 anni fa
Ci voleva l’omicidio del cinquantaduenne David Black, la prima guardia carceraria uccisa dai repubblicani irlandesi in quasi vent’anni, per svegliare la stampa e l’opinione pubblica britannica sulle condizioni delle carceri del Nord Irlanda. Martedì scorso Black è stato ucciso in un’imboscata in pieno giorno, sull’autostrada che collega Belfast a Dublino, risuscitando d’un sol colpo i fantasmi che si credeva fossero stati ormai da tempo consegnati alla storia. Aveva oltre trent’anni di esperienza come agente di sorveglianza: la sua carriera era cominciata nel supercarcere di Maze ai tempi di Bobby Sands ed era proseguita nella famigerata prigione di Maghaberry, dove tuttora sono rinchiusi decine di dissidenti repubblicani. Quello che appare certo è che chi gli ha sparato voleva mandare un messaggio alle autorità carcerarie, sbattendo in prima pagina le torture e le feroci perquisizioni corporali che vengono giornalmente compiute all’interno della prigione. Oggi come trent’anni fa, nonostante gli Accordi di Stormont del 1998 e a dispetto di tutto lo sproloquiare sul processo di pace ‘esemplare’, le più autorevoli organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani (Amnesty International in testa) denunciano le condizioni terribili nelle quali versano i prigionieri politici e l’utilizzo di uno strumento coercitivo il cui semplice nome ha il potere di evocare tristi ricordi del passato: l’internamento senza processo. In un recente resoconto che non può non mettere i brividi, Alan Lundy ha raccontato come si vive ancora oggi a Maghaberry.
La verità è che mentre ex capi di Stato Maggiore dell’I.R.A. stringono la mano della Regina, mentre Cameron chiede simbolicamente scusa per i massacri del passato (ma si guarda bene dal perseguirne i responsabili), mentre Londra si accolla buona parte del debito pubblico irlandese, le carceri del Nord Irlanda sono tornate a essere quelle di trent’anni fa, con abusi e torture, incarcerazioni arbitrarie e prigionieri politici che, proprio come in passato, rifiutano di lavarsi, di radersi e spalmano i loro escrementi sui muri delle celle. La prigione di Long Kesh, uno dei simboli del conflitto, è stata chiusa nel 2000 ma il sistema carcerario nordirlandese è rimasto quello ante-1998 e gran parte dei secondini, dei funzionari e dei dirigenti sono rimasti quelli di allora, nonostante la loro lunga storia di abusi e vessazioni perpetrate soprattutto nei confronti della comunità cattolico-nazionalista. Un panorama reso ancora più esplosivo dal silenzio e dall’omertà dei principali mezzi d’informazione britannici.
RM